Massacro a Gaza: le lezioni della storia

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Le armi utilizzate per gli attacchi su Gaza possono essere lasciate per un po’, e riprendere il fuoco più tardi, ma ciò non cambia uno schema che dura da 66 anni. Lo spargimento di sangue non finirà se non se ne conoscono le origini e il modo di affrontarlo.
Nelle ultime sei settimane le fotografie di donne e bambini fatti a pezzi sono state mostrate al mondo attraverso il nuovo mezzo privo di censure dei social media. Il numero delle vittime ha lampeggiato sugli schermi tv come un barometro quotidiano di morte e distruzione. Timide voci sono lentamente emerse, definendo la carneficina un massacro, o un genocidio. Quest’esplosione dei social media, limitando l’influenza dei mezzi di informazione ordinari, ha un forte effetto nel far comprendere la lotta palestinese contro Israele. Ora la gente si domanda: Chi sono queste persone? Perché questo conflitto cronico dura da così tanto tempo?
Non esiste, nella geografia palestinese, un posto chiamato «Striscia di Gaza». La «striscia» è stata creata da Israele. Nella primavera e nell’estate del 1948 Israele sradicò completamente gli abitanti di 247 villaggi della Palestina meridionale, e li ammassò in una sottile striscia di terra costiera, poi nota come Striscia di Gaza. Fu così creato il campo di concentramento per profughi più grande e più longevo della storia, e questi profughi sono diventati da allora il bersaglio dei regolari attacchi israeliani.
Il giorno di Natale del 1948 le Forze israeliane cercarono di dividere l’affollata striscia in due, e di liberarne una parte dai rifugiati, ma in quell’occasione vennero cacciate, e il generale russo che guidava l’operazione venne ucciso. Nell’anno seguente, Israele attaccò la striscia colpendola in diversi punti di confine, e ne ridusse l’estensione dai 550 km2 stabiliti dall’armistizio del 24 febbraio 1949 all’area attuale di 360km2. Prima dei recenti combattimenti il brandello di terra è stato ulteriormente ridotto, venendo dichiarato il 44% di esso zona interdetta all’accesso.
Nel gennaio 1949 gli israeliani bombardarono dal cielo, in ora di punta, i centri di distribuzione alimentare a Khan Younis e a Deir al-Balah, ucciderdo oltre 200 profughi. La Croce Rossa fu testimone dei fatti, che descrisse come una «scena di orrore». Mio zio, Mohammed Abu Mughaisib, fu una delle vittime.
Il 28 agosto 1953, Ariel Sharon, comandante della famosa Unità 101, nota per i numerosi attacchi mortali ai campi profughi lungo la linea dell’armistizio, attaccò il campo di Bureij, uccidendo 43 uomini, donne e bambini nei loro letti.
Il 2 novembre 1956, Israele falciò più di 250 civili a Khan Younis, due dei quali erano fratelli di mia cognata. I loro corpi disseminati sulle strade – come quelli che vediamo oggi a Shujayeh.
Nel 1971 Ariel Sharon fece demolire strade intere dei campi profughi di Gaza, riducendoli in macerie.
La stessa politica del fare enormi numeri di vittime tra i rifugiati è evidente nei recenti attacchi su Gaza del 2008-2009 e del 2012, e nell’ultima guerra di Israele su Gaza.
Tale politica non viene applicata solo a Gaza. Anche il campo di Jenin, in Cisgiordania, e i campi di Sabra e Shatila, in Libano, per nominarne alcuni, sono stati ad essa sottoposti.
Oggi in Israele pubblici appelli richiedono di «concentrare» i palestinesi in campi di nuova edificazione, e di «sterminarli» con la giustificazione di «Quando il genocidio è permesso».
Perché esiste la determinazione israeliana di eliminare i palestinesi? Il motivo è chiaro: i profughi palestinesi rappresentano il il corpo dei crimini di guerra della pulizia etnica della Palestina. I profughi devono sparire e la Palestina deve diventare ciò che lo slogan sionista usava ripetere: una «terra disabitata».
La dottrina dell’eliminazione dei palestinesi sottomessi come unico modo per costruire Israele su terra palestinese venne introdotta presto, innanzi tutto da Vladimir Jabotinsky, uno degli ideologi leader del movimento sionista. Nel suo lavoro determinante, «Il muro di ferro», del 1923, egli scrisse:
«Questa colonizzazione (sionista) può pertanto continuare e svilupparsi solo sotto la protezione di una forza indipendente della popolazione locale – un muro di ferro che la popolazione nativa non possa sfondare. Questa è, in toto, la nostra politica verso gli arabi».
Tale politica venne seguita da Moshe Dayan 33 anni dopo. In un discorso in ricordo di un colono ucciso vicino a Gaza nell’aprile 1956, su territorio dei profughi, Dayan espresse apertamente ciò che divenne il faro delle successive operazioni militari contro i profughi palestinesi. Egli disse:
«Da otto anni loro (i palestinesi) stanno nei campi profughi di Gaza, a guardare come noi, davanti ai loro occhi, abbiamo fatto nostri la loro terra e i loro villaggi, in cui loro e i loro antenati dimoravano. Noi siamo la generazione dell’insediamento, e senza elmetto e fucili non riusciremo a piantare un albero o a costruire una casa… Questo è il destino della nostra generazione. Questa è la nostra scelta – essere pronti e armati, duri e tenaci – o la spada cadrà dalle nostre mani e le nostre vite saranno spezzate».
Sessantasei anni dopo la nakba (la catastrofe) i palestinesi espropriati sono ancora nei campi profughi, in attesa bramosa di tornare nelle loro case oltre il filo spinato. Non lontano dal panegirico di Dayan troviamo la colonia di Sderot, costruita sul terreno dei villaggi di Najd e di Huj. I diecimila rifugiati di questi villaggi vivono in campi profughi a 3 chilometri di distanza. Quando puntano i loro razzi rudimentali su Sderot, è per lanciarli sugli occupanti delle loro terre, per ricordare loro che ancora insistono per far ritorno a casa propria.
Perché non dovrebbero ritornare? Le Nazioni Unite hanno affermato il loro diritto al ritorno 135 volte dal 1948. I profughi si trovano ora ammassati nella Striscia di Gaza, l’1,3% dell’area palestinese, in cui la densità è di 7000 persone per km2, mentre i coloni delle loro terre vivono in 7 persone per km2. Intanto la terra dei profughi nelle zone rurali occupate da Israele è ancora vuota.
Mentre Netanyahu, seguendo le orme di Jabotinsky e Dayan, continua ad attaccare i profughi palestinesi causando morti e distruzione, è chiaro che i palestinesi non si arrenderanno mai e che non spariranno da un giorno all’altro. Questo stallo può essere superato con un’azione determinata da parte della comunità internazionale – che in parte detiene delle responsabilità storiche pesanti per aver creato, in primo luogo, la sofferenza dei palestinesi – che deve intraprendere l’unica strada possibile e applicare i principi della giustizia, del diritto internazionale e delle risoluzioni dell’Onu. Quanto a Israele, con urgenza deve lasciare la presa dalla gola dei palestinesi che abitano a Gaza, e rimuovere il blocco aereo, terrestre e navale. Gaza deve poter respirare.
Il dott. Salman Abu Sitta è fondatore e presidente della Società dei territori palestinesi, membro del Consiglio nazionale palestinese e autore di oltre 300 articoli, documenti sui profughi e libri, tra i quali La nakba palestinese del 1948, Il viaggio del ritorno e L’atlante della Palestina, 1917-1966.
Traduzione di Stefano Di Felice