Morire in solitudine: quando abbiamo smesso di interessarci ai prigionieri palestinesi

Palestine Chronicle. Di Ramzy Baroud. “A nessuno importa dei prigionieri”. Negli ultimi anni ho sentito pronunciare questa frase innumerevoli volte dai detenuti palestinesi liberati e dalle loro famiglie. In ogni intervista in cui affronto questo delicato tema, mi viene ripetuto continuamente che, in realtà, “non interessa a nessuno” delle sorti dei prigionieri palestinesi.

Ma è veramente così? I prigionieri palestinesi sono così trascurati, tanto che la loro libertà, la loro vita e la loro morte non hanno alcuna conseguenza?

Questo tema, e le considerazioni che se ne fanno, riemergono ogni qualvolta un prigioniero palestinese indice uno sciopero della fame, subisce ingiustizie o viene torturato. È bene sottolineare che informazioni di questo genere non vengono rese pubbliche da Israele ma sono notizie che trapelano dalle carceri soltanto grazie al lavoro degli avvocati e delle organizzazioni che tutelano i diritti umani.

Solo quest’anno sono stati cinque i detenuti palestinesi morti in prigione, a causa di presunte negligenze mediche, o peggio, per torture.

Persino gli operatori umanitari internazionali come Mohammad el-Halabi non sono immuni ai trattamenti degradanti delle carceri israeliane. L’uomo, dopo essere stato arrestato nell’agosto del 2016, non è ancora stato accusato di alcun illecito. E se all’inizio le notizie sulle sue condizioni ricevevano una certa attenzione dai media – attenzione riconducibile al lavoro di operatore umanitario per una organizzazione con sede negli Stati Uniti – oggi è ricordato solamente dai post che il padre, Khalil, pubblica su Facebook.

Dal primo di ottobre, el-Halabi è stato trascinato in 151 processi militari, ignorando totalmente i capi di accusa a suo carico. L’uomo, che ha giocato un ruolo chiave nella distribuzione di medicine contro il cancro per i bambini di Gaza, detiene il record del più lungo processo militare mai condotto dall’inizio dell’occupazione israeliana.

Alla disperata ricerca di un po’ di attenzione mediatica, e stufi di sentirsi ripetere solo a parole quanto importanti siano per la “lotta palestinese”, molti detenuti, individualmente o collettivamente, hanno iniziato a lanciare scioperi della fame sotto il grido di “libertà o morte”. Tutti quelli che sono incarcerati sotto la draconiana e illegale politica della “detenzione amministrativa”, chiedono la libertà, mentre i prigionieri accusati di aver leso la sicurezza di Israele, detenuti in condizioni degradanti, chiedono almeno di poter ricevere visite dalla propria famiglia e del cibo adeguato.

Le complicazioni di salute risultanti dagli scioperi della fame spesso persistono per lungo tempo dopo che il calvario fisico è terminato. Ho intervistato famiglie di ex-detenuti palestinesi che dopo essere stati liberati sono morti nel giro di pochi mesi; altri ancora, invece, conducono una vita di sofferenze o di disturbi fisici che durano per anni.

Secondo le stime, dall’inizio dell’occupazione della zona est di Gerusalemme, della Cisgiordania, e di Gaza nel 1967, sono stati detenuti nelle prigioni israeliane più di 800.000 mila palestinesi.

Infelicemente, Maher al-Akhras è lo sfortunato protagonista di un altro capitolo di questa tragica storia. Al momento della stesura di questo articolo, Maher ha concluso 77 giorni di sciopero della fame. Non sono necessari pareri medici per affermare che al-Akhras potrebbe morire da un momento all’altro. Dal video rilasciato recentemente, in cui l’uomo si trova nel suo letto di ospedale a Israele, possiamo farci un’idea dell’insopportabile sofferenza che sta vivendo.

Maher appare stanco e stremato, e con un tono di voce a malapena udibile dice che gli sono rimaste solo due opzioni: la scarcerazione immediata o la morte per mano dell’ipocrita sistema di giustizia israeliano.

Il 7 ottobre la moglie, Taghrid, ha lanciato il suo personale sciopero della fame, per protestare contro il disinteresse di tutti verso il marito.

Ancora una volta, la mancanza di interessamento per il calvario dei prigionieri, anche di quelli morenti, si impone nel discorso politico palestinese. Perché?

La convinzione che i prigionieri palestinesi siano costretti a combattere da soli per la propria libertà è iniziata nei primi anni ’90, quando gli accordi di Oslo venivano firmati, dividendo, di fatto, i Territori Occupati in zone governate da un kafkiano sistema militare che, invece di porre fine all’occupazione israeliana, ha finito per consolidarla.

Ormai questione quasi assente dall’agenda dei negoziati israelo-palestinesi, all’epoca era invece un tema urgente il brutale sistema di incarcerazione e di reclusione senza accusa di Israele, in quanto lesivo dei diritti e delle libertà dei palestinesi.

In alcuni casi, alcuni gruppi di prigionieri palestinesi sono stati rilasciati in segno di collaborazione e di “buona volontà”. Tuttavia, il sistema stesso, che dava a Israele il diritto di arrestare, detenere e condannare i palestinesi, è rimasto intatto.

Ad oggi, liberare i prigionieri palestinesi – sono tuttora quasi 5.000 quelli detenuti a Israele, ed ogni giorno se ne aggiungono altri – non fa parte dell’agenda politica della leadership palestinese, essa stessa distratta da questioni di interesse personale, da lotte tra fazioni e da altre insignificanti faccende.

Davanti al disinteresse della politica, la situazione dei prigionieri, nel corso degli anni, si è trasformata in una questione umanitaria – come se questi uomini e donne non fossero più né cittadini con dei diritti politici, né l’espressione stessa della resistenza palestinese all’occupazione militare e alla violenza di Israele.

Liberare i prigionieri palestinesi è diventato un argomento poco discusso dalle autorità ed istituzioni palestinesi; non ci sono comunicati stampa dell’Autorità Palestinese né dalla principale fazione Fatah e l’argomento è ignorato, più in generale, da qualsiasi gruppo palestinese che si batte per veder riconosciuti i diritti al proprio popolo. Nonostante ciò, giornalmente, si continuano a glorificare a parole i sacrifici dei prigionieri; parole che purtroppo sono un gesto vuoto e privo di concretezza.

Esistono, tuttavia, episodi che smentiscono la realtà descritta finora. Uno di questi è lo scambio di prigionieri, come ad esempio come quello avvenuto nell’ottobre 2011 e che portò alla liberazione di oltre 1.000 prigionieri palestinesi. Altro scenario sono gli scioperi della fame, che hanno recentemente visto aumentare i buoni risultati in termini di rilascio dei detenuti, anche se non possiamo dimenticare le conseguenze sulla salute che tali pratiche comportano. Ed è diventato proprio questo uno dei principali canali di resistenza dei prigionieri.

Purtroppo, anche la solidarietà agli scioperanti della fame si è trasformata in comportamenti spesso faziosi, che vedono ciascun gruppo politico interessato esclusivamente ai prigionieri in sciopero appartenenti al proprio partito, ignorando completamente gli altri. Anche la questione dei prigionieri si è politicizzata, vittima della disunità del paese.

Anche se non è corretto affermare che “a nessuno importa dei prigionieri palestinesi”, le migliaia di famiglie coinvolte personalmente nell’ingiustizia delle carceri israeliane non possono che pensare altrimenti. Queste, infatti, vedono negati ai propri cari alcuni dei diritti fondamentali dell’uomo e, allo stesso tempo, assistono allo scarso interesse della politica e alla preoccupazione ipocrita dei partiti.

Maher al-Akhras, e altre migliaia come lui, non dovrebbero rischiare la propria vita per vedersi riconosciuti alcuni tra i diritti umani fondamentali dell’uomo, in teoria garantiti dal diritto internazionale. Altrettanto importante, i prigionieri palestinesi non dovrebbero essere lasciati soli, pagando un ingiusto prezzo solo per aver osato difendere la giustizia, l’equità e la libertà del proprio popolo.

Traduzione per InfoPal di Sara Origgio