Il novantenne Abu Khalil e il doloroso ricordo della Nakba del 1948

Hebron – PIC. Sospiro dopo sospiro Abu Khalil ha vissuto dopo la Nakba (la catastrofe del 1948).

Sospiro dopo sospiro, racconta il suo percorso doloroso verso l’esilio: “Con la grazia di Dio, se non ci fosse stato il bombardamento dal cielo, il cielo che ci cadeva addosso, non saremmo partiti”.

Abu Khalil è anziano, il suo corpo diventa debole, ma la sua memoria resta forte. La sua memoria è viva e testimonia un tempo prospero e a volte difficile. Ogni volta che ripensa ai campi di grano, di avena e mais attorno alla valle di al-Faluja e di al-Mifrid, le lacrime rigano il suo volto.

Hajj Mohammed Ridwan Ali, chiamato Abu Khalil, è nato nel 1922.

L’inizio e la causa

Hajj Abu Khalil parla dell’inizio della sua Nakba: “Gli aerei seminavano la morte e ci spingevano a lasciare le nostre case, i nostri campi, i nostri beni. Centinaia di abitanti del villaggio di al-Faluja, decine di soldati dell’esercito egiziano furono uccisi per le strade, stradine, tra le case, a causa dei bombardamenti sionisti. La cittadina accoglieva una caserma egiziana”.

Poi, molti lasciarono la cittadina a piccoli gruppi per fuggire dai sionisti, durante la notte e al freddo per andare verso al-Dawayma, a ovest della città di Hebron. Vi rimasero per due giorni, dormendo in una grotta. Non lasciavano neanche che un bambino piangesse. Gridavamo a sua madre “metti qualcosa nella sua bocca, prima che gli ebrei ci uccidano!”

Quando si sentivano un po’ più al sicuro, dice Abu Khalil, si rimettevano in cammino, attraverso le vallate e le montagne. Tutti temevano di essere uccisi. Le notizie del massacro di Deir Yassine terrorizzava le persone sul cammino dell’esilio. Stanca e affamata, la gente arrivò a piedi al villaggio di Beit Ola.

“La paura ci impediva persino di accendere il fuoco per mettere qualcosa sotto ai denti. Saremmo morti o di fame o per mano dei banditi sionisti che volevano cancellarci dalla mappa”, ricorda.

Poi, il loro cammino li ha condotti verso una grotta accanto al villaggio di Halhul. Ci sono rimasti una settimana, lottando contro la fame, il freddo e la pioggia. Dopo, si sono trasferiti in un’altra grotta nella regione di Lozeh, dove sono rimasti tutto l’inverno.

Una grande memoria

Hajj Abu Khalil possiede un’ottima memoria; si ricorda dei piccoli dettagli in maniere sorprendente: “siamo arrivati nella città di Hebron. Vagammo di casa in casa. Lavorai come commercianti di grano, mi sposai e ebbi dei figli. Alla fine, mi installai nella zona di al-Mahawir dove ho costruito la mia attuale casa”.

L’incancellabile sogno del ritorno

In quanto al sogno del ritorno, Abou Khalil sospira e dice : “Abbiamo creduto che il nostro esilio sarebbe durato poco tempo, forse qualche settimana prima di tornare nel nostro villaggio di al-Faluja. Invece i giorni, i mesi e gli anni sono passati, invano. Ma non perdiamo mai la speranza di tornare, anche se sappiamo che non è semplice: tutti sono contro la nostra causa, anche gli arabi. Il ritorno necessita di una vera resistenza, un vero lavoro, un vero sacrificio. Non perderemo mai la speranza. Parleremo del nostro sogno ai nostri figli e nipoti fino a quando non diventerà realtà”.

Traduzione di Chiara Parisi