Obama, il capitalismo monopolistico e l’egemonia globale

di Norman Pollack
Norman Pollack ha scritto sul populismo. I suoi interessi vanno dalla teoria sociale all’analisi strutturale del capitalismo e del fascismo. Lo si può contattare presso: pollackn@msu.edu
Abbiamo visto abbastanza per capire che gli Stati Uniti stanno per elevare la tirannia ideologico-strutturale a un nuovo livello, che non si avvicina tanto a una riproposizione del fascismo del ventesimo secolo (sebbene quell’esperienza storica abbia lasciato un’impronta indelebile nella mentalità degli strateghi contemporanei di geopolitica, i quali ad esso si rifanno nel considerare come sia possibile violare il diritto internazionale senza inimicarsi completamente la comunità internazionale), bensì si avvale di una cappa di umanitarismo liberale per imporre la potenza militare e per conseguire l’imperialismo tradizionale. Gli obiettivi sono gli stessi, cambiano le etichette.
L’America supera il recente passato, e supera la propria stessa collaborazione nell’erigere un sistema di politica della forza, a favore di un dominio unilaterale più ambizioso, che approfitta del crescente pluralismo culturale derivante dalla frammentazione dell’ordine commerciale e finanziario. La lotta al terrorismo è la foglia di fico utilizzata per ottenere una maggior concentrazione di ricchezze a casa propria, che, con l’aiuto della sorveglianza di massa e del conseguente controllo sociale della popolazione (un limite ufficioso al dissenso consentito), serve alla creazione di uno Stato di sicurezza nazionale su una base di democrazia formale, per realizzare uno Stato predatore incaricato della missione di resistere alla democratizzazione sociale di economie emergenti e industriali simili. Serve sia una compiacenza a casa propria che all’estero, serve una stretta rete di benessere e di potere, se il capitalismo Usa, che si insinua in ogni angolo e in ogni fessura del mondo, seguito – o, a volte, preceduto – dall’intervento militare, dalle basi militari, dalla forza marittima, dalla diplomazia cocciuta, dagli interventi paramilitari per i cambiamenti di regime, vuole ottenere risultati accettabili di profitto ad accettabili livelli di rischio. Il predominio capitalistico statunitense in un mondo capitalista non deviato, fortemente ancorato nelle dinamiche di controrivoluzione (gli Usa come guardiani del sistema globale), è il punto cruciale di ciò che altri percepiscono come Incubo di Supremazia, o il diritto divino di egemonia.
La foglia di fico della lotta al terrorismo, che ha soppiantato l’anticomunismo ed ha assuefatto il popolo americano a estremi ancor più marcati di differenziazione del benessere e conseguente potere di classe, non è ancora sufficiente per stabilizzare il capitalismo a tali livelli di intensa concentrazione: ci vuole ancora una maggior diffusione di reazione e repressione. Obama è incaricato di questo compito. Solamente la sua razza – grazie alla correttezza politica e al senso di colpa liberale – basta a metterlo in salvo da un esame critico (ottima sceneggiata, la presidenza al teflon di Reagan risulta dilettantesca, al confronto): egli, come nessuno prima, accentra in sé le risorse dei media, del capitalismo, dell’esercito e dell’intelligence, o meglio, le comunità delle élite di ciascun gruppo, in un ben affinato contesto autoritario capace di manifestare e di eseguire il potere nazionale. Come se non bastasse, i liberal sbavano ai suoi piedi, privi di saggezza politica e in bancarotta morale mai evidente come ora.
I golpe sono fuori moda; ripulire razza e genere è motivo sufficiente di falsa coscienza, di una celebrazione delle differenze alla “vogliamoci bene”, mentre lo 0,1% dei detentori di controllo serrano la presa delle leve del potere. Un presidente nero? Un presidente donna? Cosa ne penserebbe Paul Robeson – o Rosa Luxembourg! Se un presidente bianco compie abusi di potere, dagli atti di spionaggio agli assassinii mirati per mezzo di drone, come ha fatto Obama, ci si potrebbe aspettare di vedere dimostrazioni per le strade, nonostante il declino di consapevolezza sociale che permette ai crimini di guerra, alle concessioni alle aziende e alla celebrazione della ricchezza di passare inosservati.
È il momento delle spiegazioni, prima che sia troppo tardi. Ma da dove iniziare? È importante rendersi conto di quanto l’America sia cambiata dai primi anni Cinquanta. Almeno quella volta l’anticomunismo era contrastato da una resistenza (spesso dolorosa e sconfitta), poiché se la repressione aumentava, aumentava anche la trasparenza della lotta e il bisogno di reagire. Taft-Hartley (legge del 1947 Usa, che regola attività e potere dei sindacati, ndt), Peekskill, la legislazione, avvenimenti grandi e piccoli, l’epurazione dei “rossi” dalle organizzazioni sindacali (e, come in Europa, l’eliminazione di organizzazioni sindacali tout court) – un tempo in cui essere vivi, menzogne evidenti contrapposte a esplicite dichiarazioni di libertà.
Quelli che preferivano tergiversare e si ritrovarono licenziati; quelli come Claude Pepper, in Florida, che nella corsa al Senato del 1950 vennero calunniati dal Miami Herald con un fotomontaggio in cui lo si vedeva abbracciato a Stalin, e gli oppositori di Pepper, che in campagna elettorale in giro per lo Stato calunniavano la sorella del loro avversario. Nel 1956 mi unii ad Adlai Stevenson per tre giorni, nel corso delle elezioni primarie del partito democratico in California, e, pur essendo egli difficilmente definibile un radicale sfegatato, lo ricordo esprimere una visione di consapevolezza sociale rara, mentre stanco morto se ne stava lungo i binari nei pressi di San Jose.
Con (l’omicidio) Kennedy, la fascistizzazione dell’America era davvero cominciata.
Il processo, ora, continua accelerato.
Traduzione di Stefano Di Felice