Onda d’urto siriana. Da Riyad a Teheran

Le Monde Diplomatique. Di Alain Gresh.
Malgrado una repressione di una brutalità terribile, i manifestanti siriani continuano a sfidare il regime. Le loro rivendicazioni si aggiungono a quelle espresse in Bahrain o in Giordania; ma le divisioni dell’opposizione e le ingerenze straniere rischiano di sfociare in conflitti confessionali che minaccerebbero tutta la regione.

“Onda d’urto siriana. Da Riyad a Teheran”. Questo libro è un classico. Scritto nel 1965 dal giornalista britannico Patrick Seale, The Struggle for Syria narra lo scontro per il controllo della Siria dopo la seconda guerra mondiale (1)

Questa lotta si inseriva contemporaneamente nel contesto della guerra fredda che opponeva gli Stati uniti all’Unione sovietica e in quello della «guerra fredda araba»: l’Egitto del presidente Gamal Abdel Nasser e l’Arabia saudita lottavano allora per l’egemonia regionale – fino nelle montagne yemenite, dove le truppe egiziane sostenevano la giovane Repubblica contro le tribù realiste armate e finanziate da Riyad.

Dagli anni ’50 alla guerra del giugno 1967 con Israele, la Siria fu al centro degli equilibri (o piuttosto degli squilibri) regionali, con i colpi di Stato e le giunte militari che si susseguivano a Damasco. Essa fu anche uno dei centri dell’impetuoso fermento degli anni ’50 e ’60, le cui aspirazioni erano l’indipendenza politica, lo sviluppo economico, l’avvento di un ordine sociale più giusto e più egalitario. All’avanguardia delle mobilitazioni: i nazionalisti arabi, la sinistra e i marxisti.
Dopo la disfatta araba del 1967 di fronte a Israele, il Medioriente sprofonda in una stagnazione che si prolungherà per quarant’anni. La totalità dei regimi, che siano repubblicani o monarchici, rinunciano alla benché minima riforma. Essi si caratterizzano per il loro autoritarismo, per la concentrazione delle ricchezze nelle mani di una piccola cricca che si pone al di sopra dello Stato, e per una corruzione endemica. Se, nel corso di questo periodo, le esplosioni popolari esprimono in maniera sporadica un malcontento diffuso, è, fondamentalmente, attorno a sfide geopolitiche che si affrontano i regimi arabi, divisi dalle loro posizioni nei confronti di Stati uniti e Israele. La volontà di cambiamento e di trasformazione sociale cade nel dimenticatoio.
I contorni delle alleanze fluttuano nel corso del tempo. All’epoca della prima Guerra del Golfo, nel 1990-1991, si è potuto vedere la Siria di Hafez al-Assad allearsi con Washington, mentre la Giordania di re Hussein sosteneva Saddam Hussein.
Alla vigilia delle rivoluzioni arabe del 2011, la frattura oppone un campo filo-americano (Egitto e Arabia saudita, principalmente) e un campo detto della «resistenza» (Iran, Siria, Hamas in Palestina ed Hezbollah in Libano).
Damasco occupa una posizione privilegiata, soprattutto grazie alla sua alleanza con la Repubblica islamica; un’alleanza che niente ha fatto vacillare nel corso di trent’anni, neppure le divergenze di vedute fra i due Paesi sulla pace con Israele, di cui l’Iran rifiuta il principio e che la Siria accetta a determinate condizioni, in particolare la restituzione delle alture del Golan, occupato dallo Stato ebraico dal giugno 1967.
Dopo l’assassinio, il 14 febbraio 2005, dell’ex Primo ministro libanese Rafic Hariri e il ritiro precipitoso delle sue truppe dal Libano, il regime siriano ha vissuto una fase di isolamento dalla quale il presidente Bashar al-Assad è riuscito alla fine a tirarsi fuori. La sua inflessibilità di fronte alle pressioni dell’amministrazione di George W. Bush, che sognava di rovesciarlo, il suo sostegno a Hezbollah durante la guerra di Israele in Libano, nell’estate 2006, quindi il suo appoggio ad Hamas durante l’invasione israeliana del dicembre 2008-gennaio 2009 ne hanno consolidato l’immagine di «polo della resistenza». Al punto che i Fratelli musulmani siriani hanno messo fine – temporaneamente – alla loro opposizione.
Questo prestigio ha fatto credere al clan Assad che il Paese sarebbe rimasto al riparo dal movimento che inonda la regione dal 2011. Nel mondo, esso porta inoltre alcuni movimenti anti-imperialisti, che non afferrano l’entità dei cambiamenti provocati dalle rivoluzioni arabe, a ridurre lo scontro attorno alla Siria alla sola dimensione geopolitica (2)
Analisi sbagliate, calcoli sbagliati. Il regime è minato dalle stesse tare da cui era affetto l’insieme della regione: autoritarismo e arbitrio del potere; saccheggio delle ricchezze e liberalizzazione economica che aggrava le diseguaglianze; incapacità di rispondere alle aspirazioni di una gioventù più numerosa e con una formazione migliore rispetto alle generazioni precedenti.
Il rifiuto di prendere in considerazione queste speranze, la brutalità inaudita della repressione hanno accelerato l’escalation della violenza e favorito la militarizzazione di una parte dell’insurrezione che, all’inizio, faceva appello, nella sua schiacciante maggioranza, come in Egitto, alla non-violenza. Il rischio di vedere gli scontri prendere una piega confessionale è aumentato, con il regime che non esita a utilizzare questa carta per spaventare alawiti (3) e cristiani.
L’opposizione si mostra tuttavia incapace di offrire garanzie serie per l’avvenire. Ha anche visto alcuni dei suoi sostenitori allontanarsene. I kurdi, che erano stati fra i primi a manifestare (in particolare per ottenere la carta d’identità nazionale della quale erano stati privati), se ne tengono ormai fuori, scioccati dal rifiuto del Consiglio nazionale siriano (Cns) di riconoscere i loro diritti.
Da parte sua, il regime ha rilanciato, non senza successo, le attività del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che aveva già utilizzato all’epoca del suo scontro con la Turchia negli anni ‘90 e che resta popolare fra i kurdi di Siria (4). Lo spauracchio sciita.
Una nuova scissione si è appena prodotta in seno al Cns, su iniziativa di personalità come Haytham al-Maleh e Kamal Labwani, ex prigionieri politici, che ne denunciano l’allineamento con l’estero. Ammar Qurabi, ex presidente dell’Organizzazione siriana per la difesa dei diritti umani e dirigente del Movimento nazionale per il cambiamento, rimprovera al Cns di emarginare i militanti alawiti o turkmeni (5). Quanto ai cristiani, che hanno visto rifugiarsi in Siria decine di migliaia di loro correligionari iracheni, osservano con angoscia l’ascesa dei jihadisti così come gli slogan anti-cristiani e anti-alawiti di alcuni manifestanti.
Contestato da parecchi oppositori – in particolare dal Coordinamento nazionale per il cambiamento democratico, che rifiuta la deriva confessionale e la militarizzazione della rivolta, nonché l’intervento militare straniero –, lacerato da continue scissioni, rifiutato dai comitati locali, il Cns è dominato dagli islamisti, con alcune figure liberali di facciata. La sua dipendenza nei confronti dei Paesi occidentali e delle monarchie del Golfo non è ben accolta.
L’impasse è totale. L’opposizione è incapace di provocare la caduta del regime, e questo è incapace di avere la meglio su una rivolta che sorprende per la sua determinazione e il suo coraggio davanti al sacrificio. Il ritorno allo status quo ante è impossibile, e il controllo del potere sulle menti e sui corpi, su una società che si è politicizzata nel corso dei mesi, non potrà mai ristabilirsi. Le riforme adottate da Damasco (nuova Costituzione, amnistie successive, etc.) non hanno alcun impatto, dato che i servizi segreti e l’esercito hanno carta bianca per liquidare, bombardare e torturare a loro piacimento.
Nello stesso tempo, i rischi di guerra civile sono reali, con possibili straripamenti in Libano e in Iraq. Un intervento militare straniero accentuerebbe la radicalizzazione degli scontri tra comunità e farebbe del fucile l’unico arbitro delle divisioni confessionali; potrebbe anche assestare un colpo fatale alle speranze di democratizzazione nella regione.
Le scelte non si riducono tuttavia all’opzione militare. Le pressioni economiche sulla Siria (che possono essere rafforzate, a condizione di prendere di mira i dirigenti e non la popolazione) portano già una parte della borghesia che sostiene il regime a interrogarsi. D’altra parte, le prime missioni di osservatori della Lega araba, malgrado le difficoltà, avevano permesso di ridurre la violenza; è l’Arabia saudita che ne ha ottenuto il ritiro e l’insabbiamento del loro rapporto, che non corrispondeva alle semplificazioni mediatiche. Il loro ritorno in Siria e la proroga della loro missione sarebbero un passo avanti. Infine, bisognerebbe associare la Russia e la Cina a un tentativo di negoziare una transizione. Con un regime assassino, obiettano alcuni? In America latina, la transizione verso la democrazia si è fatta accordando un’amnistia ai militari, anche se ci si può rammaricare del fatto che ne abbiano approfittato per trent’anni.
Questa strada stretta e impervia non è quella privilegiata dalla maggior parte degli attori esterni, che riducono la situazione a uno scontro titanico fra dittatura e democrazia. Tuttavia, chi può credere che il regime saudita cerchi di instaurare la democrazia a Damasco, lo stesso che non riconosce alcuna assemblea eletta? Lo stesso il cui ministero degli Interni ha dichiarato che le manifestazioni sciite nell’est del Paese erano una «nuova forma di terrorismo (6)»? Lo stesso che ha represso violentemente, ai primi di marzo, ad Abha – capitale della regione dell’Asir, a maggioranza sunnita –, gli studenti mobilitatisi contro la mediocrità dell’insegnamento nelle università? Preoccupata per l’indebolimento degli Stati uniti nella regione, ostile al «potere sciita» instauratosi in Iraq, l’Arabia saudita si è messa alla guida della contro-rivoluzione regionale, schiacciando, senza veneirne a capo, la ribellione in Bahrain. Arma gli insorti in Siria, agitando ormai lo spauracchio sciita per guadagnare il consenso della maggioranza sunnita, facendo affidamento su una doppia ostilità verso gli sciiti e verso i «Persiani».
Manovre in un Medioriente destabilizzato. Il rilancio da parte di Riyad di un discorso sulla «solidarietà sunnita» cerca un sostegno nell’insediamento al governo dei Fratelli musulmani a Tunisi, al Cairo, a Rabat, e forse domani in Libia – anche se, in questi ultimi dieci anni, le relazioni tra i Fratelli e Riyad sono state pessime.
Ma la situazione resta incerta, dato che la confraternita è divisa sulle scelte da fare, come indica il rifiuto del governo tunisino di qualsiasi intervento straniero in Siria o la lotta in seno ad Hamas, che ha abbandonato il suo quartier generale di Damasco.
Un membro dell’ufficio politico dell’organizzazione, Salah al-Bardawil, ha addirittura affermato che, in caso di guerra fra l’Iran e Israele, «Hamas non interverrebbe»; una posizione contestata da un altro dirigente importante, Mahmoud al-Zahar (7). Perché l’idea di una grande alleanza sunnita contro l’Iran e la Siria inciampa, ancora una volta, nella situazione in Palestina. Chi potrà sostituire Damasco e Tehran nella resistenza alla strategia israeliana?
Washington, da parte sua, cerca di far vacillare uno dei pilastri dell’«asse del Male» e, oltre a questo, l’Iran, che il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sogna di bombardare. Avendo già lasciato l’Iraq senza gloria, messi alle corde in Afghanistan, dal quale se ne andranno presto disprezzati non solo dai taleban ma da una popolazione esasperata dai loro «errori», gli Stati uniti sembrano renitenti verso una nuova avventura militare in Siria, pur vedendo nella caduta del presidente Assad un mezzo per riconquistare posizioni nella regione. Aderiranno, come in Libia, a un intervento militare? Rischieranno una destabilizzazione di questo Paese dove stanno affluendo jihadisti e combattenti di al Qaeda?
Quanto alle autorità israeliane, la loro posizione è forse stata espressa da Efraim Halevy, ex direttore del Mossad ed ex consigliere per la sicurezza nazionale, che spiega che il rovesciamento del regime di Damasco, indebolendo Tehran in maniera decisiva, permetterebbe di evitare di bombardare l’Iran (8).
Ma ogni presa di posizione pubblica in tal senso, Tel Aviv lo sa, non può che ritorcersi contro l’opposizione siriana. E alcune voci in Israele si preoccupano per le conseguenze di una guerra civile in Siria, che potrebbe porre fine alla tranquillità che regna alla frontiera tra i due Paesi. Infine, Russia e Cina, da parte loro, temono il potere crescente degli islamici e dell’unilateralismo europeo e americano. Dopo avere messo il loro veto alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) sulla Siria, hanno approvato, il 21 marzo, una dichiarazione comune a favore di una transizione democratica negoziata.
Tutte queste manovre si svolgono in un Medioriente già profondamente destabilizzato dopo le guerre degli Stati uniti (Afghanistan, Iraq) e di Israele (Libano, Palestina): Stati indeboliti; ruolo crescente delle milizie (Iraq, Kurdistan, Afghanistan, Libano, Palestina), spesso armate di potenti mezzi convenzionali, in particolare di missili; tensioni tra le comunità che minacciano le minoranze, ecc.
E’ in questo contesto che sono scoppiate le rivolte arabe. Esse rivendicano la libertà, la dignità (karama), la democrazia e la giustizia sociale.
Nonostante abbiano rovesciato presidenti a Tunisi e in Egitto, in Libia e nello Yemen, si sente affiorare una delusione nell’opinione pubblica occidentale. Come fa notare Peter Harling, direttore delle attività dell’International Crisis Group in Egitto, Siria e Libano, non c’è tuttavia «nulla di sorprendente nel fatto che il momento folgorante delle rivoluzioni lampo, in Tunisia e in Egitto, ceda il passo a una grande confusione. Quasi ovunque nel mondo arabo, assistiamo a una rinegoziazione, più o meno ambiziosa e violenta, di tutto un contratto sociale. Alla complessità dei casi particolari si aggiungono le loro forti correlazioni, in una regione in ebollizione, dove il “modello tunisino” viene discusso fino ai più remoti confini della campagna siriana (9)».
Ripresa delle lotte sociali e democratiche. «Inverno islamico»? Scontri interconfessionali? Annientamento dei movimenti da parte dell’esercito in Siria o in Egitto? Nessuna di queste ipotesi può essere scartata, ma tutte sottovalutano la forza delle contestazioni, l’attaccamento allo svolgimento di elezioni democratiche, la straordinaria capacità di resistere agli scossoni delle popolazioni in Bahrain come in Siria. Pur mantenendo il loro sostegno alla causa palestinese, che resta assai presente, i popoli sono impegnati a riprendere le lotte sociali e democratiche, paralizzate dal 1967. In questo contesto, nuovi interventi stranieri rischierebbero di attizzare le divisioni, come si può vedere in Iraq o in Libia, e di trasformare la lotta democratica in una lotta confessionale, in primo luogo tra sunniti e sciiti.

 

note:
(1) Patrick Seale, The Struggle for Syria: A Study in Post-War Arab Politics, 1945-1958, Oxford University Press, Londra-New York, 1965.
(2) Sulle discussioni nella sinistra libanese, si legga Nicolas Dot-Pouillard, «“Résistance”et/ou “révolution”: un dilemme libanais face à la crise syrienne», Les Carnets de l’Ifpo, 11 gennaio 2012, http://ifpo.hypotheses.org
(3) Minoranza musulmana, legata all’Islam sciita, dalla quale provengono la famiglia al-Assad e numerosi dirigenti siriani.
(4) Dogu Ergil, «Syrian Kurds», Today’s Zaman, Istanbul, 21 febbraio 2012.
(5) Ipek Yezdani, «Syrian dissidents establish new bloc», Hürriyet Daily News, Istanbul, 21 febbraio 2012.
(6) «State has full right to check rioting, interior Ministry says», Arab News, 20 febbraio 2012, http://arabnews.com
(7) The Guardian, Londra, 6 marzo 2012, e The Jerusalem Post, 8 gennaio 2012.
(8) «Iran’s Achilles’ heel», International Herald Tribune, Neuilly-sur-Seine, 7 febbraio 2012. (9) «Le monde arabe est-il vraiment en “hiver”?», LeMonde.fr, 1 febbraio 2012. (Traduzione di O. S.)