Palestina e colonizzazione del pensiero

Di Angela Lano. Palestina e colonizzazione del pensiero. Tutti i giorni, mentre passo in rassegna i vari articoli in arabo, inglese o francese, delle agenzie palestinesi e arabe sulla tragica cronaca palestinese, scegliendo i pezzi per InfoPal, devo fare un lavoro di ri-editing e di sostituzione dei termini, che non sono propri della traduzione in sé, ma piuttosto della “decodificazione” o adattamento.

Non si può non constatare, purtroppo, una colonizzazione del linguaggio, che è conseguenza della colonizzazione del pensiero, per dirla alla Fanon, che è, a sua volta, un prodotto della colonizzazione militare e politica.

La colonizzazione del pensiero è presente, per esempio, quando si usa il linguaggio dell’occupante, dell’oppressore. Parlare, come quotidianamente fanno i media palestinesi e arabi, di “scontri feroci” con le forze di occupazione israeliane implica, in chi legge, l’immediata associazione con un’immagine mentale: due forze paritetiche che si scontrano. Invece no: abbiamo palestinesi disarmati, o con pietre in mano, che vengono bersagliati da proiettili letali da un esercito super-armato.

Perché, allora, auto-infliggersi la manipolazione linguistica, che darà combustibile alla propaganda-hasbara-israeliana in tutto il mondo? Perché stupirsi, se si usa lo stesso linguaggio dell’oppressore, delle manipolazioni giornalistiche in Occidente che voglio mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti, colonizzatori e colonizzati? O peggio, trasformare le vittime in carnefici.

E’ in atto una discrasia tra parole militarizzate e immagini che riprendono bambini, ragazzi, giovani armati di pietre e fionde o a mani nude, manifestare contro una crudele occupazione, e morire, uno dopo l’altro, giorno dopo giorno. Ciò crea dissonanze comunicative.

Non si può parlare di “feroci scontri” con le forze di occupazione se si è disarmati. Si può usare, al massimo, il termine di “risposta”, “reazione”, di lanci di pietre, aquiloni infuocati. “Risposta” è la parola che usano i media occidentali quando parlano degli attacchi israeliani. Si badi a questo perverso gioco linguistico tra vittime e carnefici che non fa che nuocere alle prime, glorificando i secondi.
Comprendo che può essere una questione di “orgoglio” usare, impropriamente, una terminologia militare quando si parla di manifestazioni palestinesi, in quanto dà l’idea di una resistenza attiva, tuttavia tutte le manifestazioni in corso in Palestina, attualmente, sono “resistenza passiva”, disarmata, a parte i cosiddetti “attacchi con i coltelli” o attacchi armati, sporadici e, soprattutto, individuali. E non giova alla comunicazione alterare i fatti, perché è esattamente ciò che fa Israele e la sua potente macchina propagandistica.

Anche citare continuamente fonti israeliane, media israeliani, è una forma di colonizzazione.

Ritengo che utilizzare il linguaggio dell’oppressore, per descrivere ciò che accade quotidianamente in Palestina, al di là dei calcoli o tornaconto politico di questa o quella fazione, sia a priori una sconfitta. Una colonizzazione del pensiero, appunto.