Perché la “normalizzazione” non è sinonimo di una vera pace?

MEMO. Di Hossam Shaker. Si stanno intonando nuove canzoni di pace, come se la situazione in Medio Oriente fosse giunta finalmente ad una felice conclusione. Tutto questo è completamente fuorviante, poiché la regione è tuttora impantanata in guerre e conflitti apparentemente senza fine, mentre gli stati arabi parlano di pace con Israele, ma non osano sollevare la questione dei diritti umani, della giustizia, della dignità e del diritto internazionale. Più “normalizzazione” avviene, più repressione, intimidazione ed ingiustizia vediamo in quei Paesi arabi che hanno scelto di schierarsi con lo stato di occupazione israeliano. E la terribile situazione dei Palestinesi peggiora di giorno in giorno.

Il presidente USA Donald Trump sembra determinato a trainare questi governanti arabi verso il progetto di “normalizzazione” prima che abbia fine il suo primo mandato. I suoi accoliti nella regione gli obbediscono fedelmente ed ascoltano attentamente le istruzioni del genero, Jared Kushner, mentre i petrodollari del Golfo aiutano la ripresa dell’economia statunitense con importanti accordi che portano alla creazione di “posti di lavoro, posti di lavoro, posti di lavoro” per il proletariato americano.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, intanto, riesce a sfuggire alle sue crisi interne ogni volta che annuncia un altro “evento storico” o “buone notizie” da una capitale araba. Tuttavia, questa “normalizzazione” non è una pace reale, poiché essa implica che i paesi arabi coinvolti stanno semplicemente obbedendo alla logica e alla minaccia delle forze israeliane e statunitensi, sottomettendosi al controllo di Israele sul terreno; accettando la sua posizione strategica come stato coloniale nel cuore del Medio Oriente. Questo tipo di “normalizzazione” pretende la cancellazione di precedenti progetti basati su un “terreno di pace”, inclusa l’iniziativa per la pace araba del 2002; in breve, significa resa totale.

In effetti, la “normalizzazione” esiste per perpetuare l’occupazione della Palestina e rafforzare l’egemonia politica e militare di Israele, sostenuta da Washington. Non importa quante canzoni di pace cantino, agli stati arabi non sarà mai permesso nemmeno di avvicinarsi a questa.

Sebbene la leadership degli Emirati Arabi Uniti abbia recentemente mostrato molto rispetto verso il governo Netanyahu, non ha vinto il tanto agognato contratto per i caccia F-35, perché Israele vi si oppone. Il messaggio è chiaro: la dissuasione israeliana deve restare e si sta rafforzando senza sosta con più armi. “Pace” in realtà non significa nulla in questo caso.

È evidente che la “normalizzazione” non riflette le opinioni dei cittadini del Golfo o di quelle più ampie delle masse arabe. In effetti, la normalizzazione per loro significa ancora più repressione, soppressione delle libertà fondamentali e il silenzio degli oppositori politici. Gli Stati del Golfo che salgono sul treno della normalizzazione non consentono alcuna discussione libera e aperta sull’argomento, quindi i loro cittadini non possono scambiare apertamente le proprie opinioni sul prezzo da pagare e sugli obblighi che deriveranno da queste importanti mosse dei loro governi. Questi ultimi, ovviamente, sono totalmente estranei al controllo parlamentare, ai sindacati indipendenti o alle critiche dei media.

Tutti i cittadini che osano opporsi alla “normalizzazione” con l’occupazione israeliana rischiano l’arresto o la sparizione forzata. Molti personaggi pubblici, attivisti della comunità, intellettuali, riformatori e influencer dei social media sono stati incarcerati ancor prima che le bandiere israeliane fossero innalzate nelle capitali del Golfo, dove le agenzie di sicurezza cercano di imporre un controllo totale attraverso un pacchetto di leggi severe e misure coercitive volte ad intimidire i cittadini contro la libera espressione delle proprie opinioni sui social media e divieto di qualsiasi discussione pubblica al riguardo. Le autorità stanno facendo pressioni per sostenere le loro politiche, tra cui le motivazioni per la normalizzazione con l’occupazione israeliana, impiegando 24 ore su 24  moltissime persone per diffondere disinformazione e contrastare le critiche online.

La situazione in Kuwait è completamente diversa da quel che sta accadendo negli altri Paesi del Golfo, come gli EAU e l’Arabia Saudita. La posizione del Kuwait è, ufficialmente e pubblicamente, ancora salda a sostegno della causa palestinese e rifiuta la corsa alla normalizzazione con l’occupazione israeliana, nella quale altri Paesi sono invece coinvolti. Ciò indubbiamente è dovuto al fatto che il Kuwait ha una vita democratica relativamente vivace, con libertà accessibili ai cittadini e alla società civile, le quali forniscono riparo ai poteri decisionali che devono affrontare le pressioni esterne di coloro che vogliono trascinarli verso la normalizzazione con Israele.

Allontanandosi dal Golfo, il Sudan è decisamente nella lista a favore della normalizzazione; questo è divenuto evidente quando il comandante militare di transizione del Paese, Abdel Fattah Al-Burhan, ha incontrato segretamente Netanyahu in Uganda, a febbraio, una mossa che ha fatto arrabbiare la maggioranza dei sudanesi. Il governo di Khartoum viene ricattato perché accetti la normalizzazione, con la promessa che sanzioni e stratagemmi simili vengano revocati se essa verrà portata avanti. Gli avvoltoi stanno volando in cerchio mentre gli Stati Uniti ed i loro alleati regionali cercano di persuadere il Sudan a normalizzare le relazioni con lo stato di occupazione in cambio di aiuto per alleviare le difficoltà economiche e politiche nel paese gestito da un governo di transizione non eletto.

Tuttavia, le crisi di Khartoum sono divenute ancor più complicate da quando vi è stato l’incontro Burhan-Netanyahu, mentre i Paesi arabi che puntano sulla strada della normalizzazione, Egitto e Giordania, si sono ancor più impoverite, con problemi economici ormai cronici. Le promesse di prosperità che hanno preceduto la firma dei loro accordi con gli israeliani nei decenni scorsi non sono state mantenute.

La leadership israeliana sta palesemente agendo come rappresentante dell’America nella regione, con il governo di Netanyahu che funge da portiere della Casa Bianca. Questo sembra invitante per il Sudan, che vuole essere rimosso dalla lista dei paesi che “promuovono il terrorismo” alleviando così la sua crisi economica. I dittatori in altre parti del Medio Oriente, nel frattempo, vogliono semplicemente rimanere sui loro troni ancora più a lungo, nonostante il costo politico per i loro Paesi.

Questa scivolata in accelerazione a favore dello stato di occupazione israeliano non si basa su una “cultura di pace”, come sostiene la propaganda ingannevole; infatti questi capitali sono utilizzati per mantenere le tirannie interne ed altri aspri conflitti su molti fronti. I falsi sorrisi e le strette di mano fanno da sfondo ai tentativi di formare un nuovo asse di conflitto nella regione che conferisce alle forze armate israeliane lo status di indomabilità sulle rovine dell’ormai dimenticato “processo di pace in Medio Oriente”.

Traduzione per InfoPal di Aisha Tiziana Bravi