Rassegna stampa 21 febbraio.

Rassegna stampa del 21 febbraio.

A cura di Chiara Purgato

21 febbraio. http://www.repubblica.it/
Gerusalemme, 09:44
M.O.: ISRAELE, ” NO A RICONOSCIMENTO UE STATO PALESTINESE”
Israele respinge l'idea di un riconoscimento unilaterale europeo di uno Stato palestinese. Di fronte all'ipotesi avanzata dal ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, fonti di Gerusalemme fanno sapere all'AFP che l'iniziativa andrebbe 'contro l'idea di una pace reale. Anzi, garantire il riconoscimento quando non sono stati definiti i problemi del conflitto aggiungerebbe benzina al fuoco e renderebbe impossibile qualsiasi compromesso'. .

(21 febbraio 2010)
M.O.: CINQUE CIVILI PALESTINESI FERITI DA ISRAELIANI
Cinque civili palestinesi sono styarti feriti dall'artiglieria israeliana al confine tra lo Stato ebraico e la Striscia di Gaza. Due di loro, ha affermato un portavoce di Hamas, versano in gravi condizioni. Dal canto loro, i militari israeliani hanno ammesso di aver sparato, ma a un solo uomo, il quale si era avvicinato in maniera sospetta alla linea di confine. Dall'offensiva 'Piombo fuso', lanciata nel dicembre 2008 e nel gennaio 2009, pochi erano stati gli incidenti al confine e i razzi sparati da Gaza verso il territorio israeliano. .

http://unionesarda.ilsole24ore.com/
Medio Oriente: killer a Dubai, Hamas non crede a implicazione Fatah
Hamas, il movimento islamico radicale palestinese al potere nella Striscia di Gaza, non crede all'implicazione dell'Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente moderato Abu Mazen e di Fatah (il partito laico guidato da Abu Mazen) nell'uccisione avvenuta a Dubai di Mahmud al-Mabhouh, confondatore del braccio armato di Hamas. Mentre resta certo delle presunta regia del Mossad israeliano. Lo sostiene Salah al-Bardawil, uno dei dirigenti di Hamas a Gaza, citato oggi dai media della regione. Bardawil sottolinea di ritenere il Mossad “unico responsabile” della morte di Mabhouh e aggiunge di non avere “sospetti sull'Autorità nazionale palestinese”, pur reiterando l'accusa di coinvolgimento nell'affaire di due palestinesi ex funzionari degli apparati di sicurezza dell'Anp – già legati secondo Hamas all'ex uomo forte di Fatah a Gaza, Mohammad Dahlan – che risultano essere stati arrestati in Giordania ed estradati diversi giorni fa a Dubai.Domenica 21 febbraio 2010 10.06

http://www.lastampa.it/
21/2/2010 (8:25) – INTERVISTA
“Siamo stanchi, temo
il ritorno della violenza”

Abu Mazen: «Agli Usa chiedo di tornare alle posizioni prese da Condoleeza»
LAURENT ZECCHINI
RAMALLAH
Presidente Abu Mazen, il suo governo persegue lo sviluppo economico della Cisgiordania, ma il processo politico è bloccato. Lei crede alla possibilità di aprire dei colloqui con Israele?
«Quando parliamo di sviluppo economico, parliamo anche di sicurezza. Tutti riconoscono che abbiamo fatto un lavoro eccellente. Quanto alla pista politica, gli americani hanno proposto dei negoziati indiretti e noi abbiamo risposto con tre domande. La prima riguarda i “termini di riferimento”, la seconda il calendario, la terza si può riassumere così: se questi colloqui falliscono, quale sarà la posizione americana? Quando avremo ricevuto le risposte, le esamineremo, anche con la Lega araba».

Considerare termine di riferimento uno Stato con le frontiere del 1967 e Gerusalemme-Est per capitale non significa anticipare i risultati del negoziato?
«No, questa è la road map del 2003, accettata da tutti. Essa cita due Stati, con uno Stato palestinese indipendente e vivibile a fianco di Israele, la fine dell’occupazione israeliana e le risoluzioni dell’Onu, compresa l’Iniziativa araba di pace del 2002».

Lei pensa che gli israeliani siano soddisfatti dello statu quo?
«Siamo arrivati a questa conclusione nel passato. Oggi gli americani lanciano questi negoziati indiretti, vedremo se anche loro arriveranno alla stessa conclusione».

Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, accetterà di riprendere il negoziato dal punto in cui vi eravate fermati con il suo predecessore, Ehud Olmert?
«E’ proprio questo che noi chiediamo e loro non vogliono. Durante i negoziati con Olmert, Condoleezza Rice, l’allora segretario di Stato americano, ci confermò la posizione di Washington rispetto alle frontiere e ai territori occupati, che sono la Striscia di Gaza, la Cisgiordania, cioè Gerusalemme Est, il Mar Morto e la valle del Giordano. Le due parti si sono dette d’accordo. L’indomani Olmert e io abbiamo cominciato a confrontarci sullo scambio di territori. Purtroppo non abbiamo potuto concludere. Per questo io chiedo agli americani: “Siete d’accordo con le posizioni confermate da Condoleezza Rice?”. Se non lo sono, gli israeliani ci diranno: “ricominciamo da zero”».

Come immagina questi colloqui?
«Se riceveremo una risposta positiva, li riprenderemo ovviamente sulla base del principio per cui nulla è acquisito finché tutto non è stato acquisito. Cominciando dalla questione delle frontiere, perché se questo problema è risolto, vorrà dire che sarà stato risolto anche quello delle colonie, di Gerusalemme e della ripartizione dell’acqua». Se i colloqui non riprenderanno, potrà esserci una reazione popolare palestinese violenta? «Se non ci sono prospettive per il futuro, temo che la popolazione faccia altre scelte. Per il momento controlliamo la situazione, almeno in Cisgiordania. Se però la gente non crederà più che il futuro le porterà uno Stato palestinese, se ci sarà un blocco, allora temo che tornerà alla violenza».

L’altra ipotesi sono le sue dimissioni.
«Io non ho parlato di dimissioni ma di elezioni. Che siamo andati avanti o no, non mi ripresenterò più»

C’è ancora tempo.
«Se Hamas firmerà il documento di riconciliazione palestinese, le elezioni si terranno il 28 giugno. Il problema è che Hamas crede che alcuni Paesi arabi l’aiuteranno a far accettare modifiche a questo documento. Noi però non ne accetteremo nessuna».

Lei pensa che gli israeliani possano fare delle concessioni senza pressioni americane?
«No, non credo proprio. Ci aspettiamo dunque altre iniziative da parte americana. Contiamo sul presidente Obama, ma anche su Sarkozy. Il presidente francese vuole avere un ruolo e penso che possa averlo, perché è amico sia dei palestinesi sia degli israeliani».

Se i colloqui riprenderanno, negozierete a nome della sola Cisgiordania?
«No, parleremo a nome di tutto il popolo palestinese. Io sono il presidente del comitato esecutivo dell’Olp. Tutti lo riconoscono».

La riconciliazione palestinese significherebbe un governo di unità nazionale con ministri di Hamas. Israele e Stati Uniti sarebbero d’accordo?
«Gli israeliani no, perché la situazione attuale dà loro un pretesto per dire che non ci sono interlocutori palestinesi, per lo statu quo. Penso invece che gli americani vogliano la riconciliazione, anche se diffidano di Hamas». Copyright Le Monde

 
http://www.ansa.it/
Hamas: in uccisione capo estraneo Fatah
Sunday Times, da premier Israele Netanyahu via libera a Mossad
21 febbraio, 11:22(ANSA) – GAZA, 21 FEB – Hamas, al potere a Gaza, non crede che nell'uccisione del suo cofondatore Mahmud al-Mabhouh siano implicati l'Anp e il partito Fatah. Il Movimento palestinese resta invece certo delle presunta regia del Mossad israeliano.
Lo sostiene uno dei dirigenti di Hamas a Gaza. Negli Usa il 'Sunday Times' rivela che il premier israeliano Netanyahu dette il via all'operazione ai primi di gennaio incontrando gli 007 in partenza. Rivelazione riportate con commenti scettici dalla stampa israeliana.

http://www.medarabnews.com/
La paura della pace sarà la morte di Israele
 
21/02/2010
Original Version: Fear of peace will be the death of Israel
La paura della pace ha fatto di Israele un paese che è preparato per la guerra nucleare, ma non per proteste nonviolente in difesa dei palestinesi; un paese incapace di porre fine al cancro dell’occupazione, dalla quale Israele finirà per essere ucciso – scrive il giornalista israeliano Bradley Burston
***
 
Sheikh Jarrah, Gerusalemme – In quanto nipote di anarchici, ho sempre avuto un debole per i fanatici. Manifestazioni di estremismo, e visioni del mondo ragionate con passione e squisitamente contorte, mi fanno sentire, come dire, “a casa”.
Per questo ho particolarmente apprezzato la storia di copertina di un recente numero della rivista Commentary, “The Deadly Price of Pursuing Peace”, scritto dalla talentuosa collega ed amica Evelyn Gordon.
Il pezzo, che l’editore di Commentary John Podhoretz comprensibilmente chiama “rivoluzionario”, si sviluppa attorno all’idea che la posizione internazionale di Israele è precipitata ad un livello senza precedenti – mentre il numero di palestinesi uccisi da Israele è contemporaneamente salito – proprio perché Israele ha fatto troppo per ottenere la pace.
“E’ spiacevole fare i conti con una tale risposta, ma le crescenti prove la rendono ineludibile”, scrive. “E’ stata proprio la volontà di Israele di fare concessioni per la pace a determinare il suo attuale stato di semi-emarginazione”.
Il saggio segue la stessa perfetta, convincentemente elegante, e scintillante logica di un’allucinazione – o di un insediamento radicato in Cisgiordania. Prima di leggere l’articolo, mi era difficile capire l’attuale sconsideratezza delle autorità israeliane e di un certo segmento dell’estrema destra, sostenuta da loschi finanziamenti stranieri.
Mi era difficile capire perché la polizia israeliana, in questa tranquilla conca nella metà araba di Gerusalemme, avrebbe scelto di infischiarsene apertamente e di violare le sentenze di un tribunale israeliano. Non riuscivo a capire perché malmenavano e arrestavano dei dimostranti nonviolenti – tra i quali il direttore esecutivo dell’Association for Civil Rights in Israel – solo perché protestavano contro l’espulsione ufficiale di più di una ventina di famiglie palestinesi, cacciate dalle loro case e buttate in mezzo alla strada, affinché dei coloni, sovvenzionati e protetti, potessero stabilirvisi.
Era al di là della mia capacità di comprensione per quale motivo un governo israeliano, che considera l’idea di un “diritto al ritorno” palestinese equivalente alla distruzione dello Stato ebraico, creerebbe un precedente giuridico che spiana la strada ad un tale diritto.
Così come non avevo idea del motivo per cui la Knesset mercoledì 3 febbraio stava per votare una legge che rende coloro che aiutano i richiedenti asilo in fuga dal genocidio africano, concedendo loro alloggio, cure mediche e cibo, colpevoli di un reato che può comportare fino a 20 anni di reclusione.
O il motivo per cui ci sono state nuove vigorose campagne per accrescere la segregazione tra i sessi al Muro del Pianto e sugli autobus pubblici, e perché delle donne sono state arrestate e interrogate in quanto sospettate di non aver indossato lo scialle della preghiera mentre pregavano nell’area loro riservata, delimitata da una barriera costruita in modo che non possano vedere il bar mitzvah dei loro figli nella parte destinata agli uomini.
O perché le feroci ed improvvise campagne contro le organizzazioni per i diritti umani e le organizzazioni caritatevoli in Israele coincidano con nuove violazioni dei diritti umani a danno di palestinesi e stranieri, alcuni dei quali impossibilitati a lasciare il paese, mentre altri, al contrario, costretti a farlo.
E’ stato solo quando ho visto il titolo del pezzo pubblicato sul Commentary che tutto ha acquisito un senso.
La destra è terrorizzata dalla pace. E, alla fine, questa paura sarà la morte di Israele.
Hanno paura della pace, in parte, perché essa minaccia il nucleo di ciò che ha preso il posto di altri valori, nel determinare l’obiettivo dell’ebraismo: l’insediamento permanente in Cisgiordania. Ma questo è solo uno dei fattori interessati.
Hanno paura della pace perché hanno paura del mondo. Respingono altri ebrei che credono nella soluzione dei due Stati – la maggioranza degli israeliani – ritenendoli irrealistici, gente che vive in una bolla. La bolla in cui questi moderati vivono, tuttavia, si chiama “pianeta Terra”.
La destra, invece, vuole circondare di muri Israele, come l’ultimo ghetto ebraico legittimo rimasto nel mondo. Un luogo dove tutte le regole sono diverse, uscita e ingresso, cittadinanza e diritti umani, perché i suoi residenti  sono ebrei. Un luogo in cui i non-ebrei, disumanizzati e identificati come nemici congeniti degli ebrei, sono resi invisibili. Un luogo che, per quanto soffocante ed insopportabile, sembra ancora più sicuro dello spaventoso mondo esterno.
Un luogo che, a causa delle sue mura, della sua politica e della sua viltà, sta perdendo la sua capacità di essere parte del mondo, che si diletta a infliggere umilianti colpi bassi a importanti ambasciatori stranieri, e che, in una forma di delirio, è orgoglioso della sua sensazione che in tutto il mondo, compresa la maggior parte degli ebrei e degli israeliani, solo la destra è depositaria della verità.
Questa linea di pensiero è stata velenosamente abbracciata all’inizio di febbraio, sia da un Alan Dershowitz, che insolitamente richiamava Kahane, sia dall’oscenamente infantile movimento Im Tirtzu. Secondo loro, riguardo all’operazione Piombo Fuso, i veri criminali di guerra sono Richard Goldstone e Naomi Chazan – due persone che hanno apertamente espresso il loro amore per Israele, e che hanno dedicato tutta la loro vita adulta al benessere di questo paese.
I timori della destra non sono semplici strumenti di retorica. I rischi che la pace comporta sono reali. Così come sono reali i rischi di non riuscire a fare la pace.
Tutto si riduce alla fede. Tutto dipende dal tipo di paese che il “credente” vuole che Israele sia. E per questo motivo è in corso una guerra civile riguardo all’essenza di Israele.
Non saranno le armi a determinare questa guerra, ma il coraggio. Le persone che si preoccupano per la direzione che Israele sta imboccando, e la cui parola d’ordine è la moderazione, farebbero bene a scegliere un aspetto della lotta, e a parteciparvi. Un punto di partenza è quello di sostenere il New Israel Fund e i gruppi che esso sostiene.
Un altro punto di partenza è il seguente. Durante lo scorso fine settimana, sfidando le minacce dei delinquenti di destra e della polizia sprezzante della legge, la partecipazione alla manifestazione settimanale a nome dei residenti palestinesi di Sheikh Jarrah è raddoppiata. La polizia ha fatto marcia indietro sulla sua intenzione di disperdere la protesta, e i kahanisti erano quasi assenti.
Se l’attivismo nonviolento spaventa la destra a tal punto, esso deve avere un forte potere.
Dopotutto, la maggior parte degli israeliani può capire che se la pace è il nemico più pericoloso, ancora più pericoloso della minaccia di una guerra, questo paese è condannato ad essere un ghetto.
Le cose hanno raggiunto un tale livello di devastazione che, per la prima volta nella storia recente, anche Ehud Barak sta cominciando a capirlo: “La semplice verità è che se vi sarà un solo stato”,  Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza compresi, “esso sarà o binazionale o non democratico “, ha detto Barak alla conferenza di Herzliya.
“Se questo blocco di milioni di palestinesi non può votare, questo sarà uno stato di apartheid”.
La paura della pace ha fatto di Israele un paese che è preparato per la guerra nucleare, ma non per proteste nonviolente in difesa dei palestinesi. La paura della pace, e il ricatto della destra in nome degli insediamenti, ha trasformato Israele in un organismo che, incapace di contenere i pericoli derivanti dalla necessità di curare la malattia dell’occupazione, finirà per esserne ucciso.
Il ministro della difesa israeliano, per esempio, è convinto: “E’ la mancanza di una soluzione al problema della delimitazione dei confini all’interno della terra storica di Israele – non una bomba iraniana – la minaccia più grave per il futuro di Israele”.

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