Rassegna stampa del 7 aprile.

Rassegna stampa del 7 aprile.

A cura di Chiara Purgato

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Vado, il 10 aprile due iniziative “pro” Palestina in piazza Cavour

Vado L. Nella giornata del 10 aprile, dalle 10 alle 12, in piazza Cavour a Vado Ligure verranno portate avanti le campagne “Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni” e “Stop Agrexco”, organizzate dal Comitato StopAgrexco provincia Savona. La prima si propone di rompere l’assedio a cui è sottoposta la popolazione civile palestinese e mira ad incentivare Israele a scegliere il dialogo piuttosto che la forza militare come metodo di gestione del conflitto.

Altro obiettivo è quello di aiutare i pacifisti israeliani che si battono per la pace e la democrazia. La campagna “Stop Agrexco” invece è contro l’importazione di prodotti agricoli coltivati dai coloni israeliani nei territori palestinesi da loro occupati illegalmente.

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Israele: Bibi Netanyahu, rimasto solo contro tutti

È stata una cena pasquale tutta in famiglia a Beit Aghion, la residenza ufficiale del primo ministro d’Israele, a Gerusalemme. Per il «Seder» che dà inizio al Pessach, la Pasqua ebraica, la sera del 29 marzo, Benjamin Netanyahu non ha invitato quest’anno nessun soldato senza famiglia, ma ha voluto accanto a sé e alla moglie Sarah solo i parenti più stretti. Primo fra tutti il patriarca, il professor Benzion, che solo quattro giorni prima aveva compiuto 100 anni. Noto intellettuale della destra israeliana, storico revisionista del sionismo, papà Benzion è il consigliere principale di Benjamin, «Bibi», come lo chiama fin da bambino.

A un anno esatto dall’inizio del suo secondo mandato come premier israeliano (la prima volta fu dal giugno 1996 al maggio 1999), Benjamin Netanyahu, 60 anni, è alla prova della vita come leader politico. Solo una settimana prima delle festività pasquali, a Washington, è stato umiliato dal presidente Barack Obama, visibilmente infuriato per i reiterati annunci da parte del governo israeliano di volere costruire nuove abitazioni nella parte araba di Gerusalemme: il che blocca di fatto l’avvio dei negoziati indiretti con i palestinesi vanificando gli impegni internazionali presi dalla Casa Bianca con i leader arabi alleati. È la più grave crisi nei rapporti fra Stati Uniti e Israele, che porta di fatto all’isolamento dello stato ebraico, dal momento che anche l’Unione Europea si è schierata compatta con l’amministrazione americana. E questo accade nel momento in cui l’Iran e la sua bomba nucleare diventano sempre più una minaccia ineludibile.

In patria, proprio il giorno che ha dato l’avvio alla settimana pasquale, il quotidiano Ma’ariv ha pubblicato un sondaggio sul primo anno di governo di Netanyahu assai poco promettente. Il 53,2 per cento degli israeliani (contro il 41,2 per cento) non è soddisfatto della sua leadership. Se le elezioni si dovessero svolgere in questo momento, Kadima, il partito di centro guidato da Tzipi Livni, ora all’opposizione, avrebbe il maggior numero di seggi e il Likud, il partito di Netanyahu, ne perderebbe qualcuno. Ancora più disastroso il crollo dei laburisti di Ehud Barak, oggi alleati di governo. Risultato: sarebbe auspicabile una sola maggioranza con Livni dentro la coalizione e, per di più, nella posizione di dettare legge.

Ma il dato più preoccupante, dal punto di vista del premier, è un altro ancora. Sebbene lui e i suoi partner dell’estrema destra religiosa e nazionalista (Shas e Yisrael Beiteinu) continuino a battersi per l’unità di Gerusalemme, un’ampia fetta di opinione pubblica israeliana al contrario appoggia la proposta americana elaborata fin dai tempi di Bill Clinton: il 46,2 per cento (contro il 38,9) si proclama a favore della soluzione «due stati», uno israeliano e uno palestinese, che prevede il ritorno ai confini del 1967, con lo smantellamento delle colonie e la divisione di Gerusalemme.

«Figlio mio, l’unico tuo impegno deve essere quello di salvare il popolo ebraico, che io vedo a rischio come mai nella storia recente» è stato, quella sera, il consiglio di papà Benzion facendo riecheggiare le stesse parole pronunciate il giorno del suo centesimo anniversario. Per il primo ministro la scelta è proprio questa: arroccarsi sulle colonie rischiando l’emarginazione internazionale o preparare la difesa strategica contro l’Iran stringendo patti di ferro con il maggior numero di nazioni al mondo? Più semplicemente: sopravvivere come leader o passare alla storia come statista?

Sostiene il politologo americano Fareed Zakharia: «A Bibi piace paragonarsi a Winston Churchill per il suo monito al mondo sulla tempesta in arrivo. Ma lui dovrebbe ricordare che l’unica ossessione di Churchill alla fine degli anni Trenta era di rafforzare l’alleanza con gli Usa, a qualsiasi costo, concessione e compromesso».

La verità è che Netanyahu è finito in rotta di collisione con Obama non capendo che l’America è cambiata. E anche il resto del mondo. Ha scommesso su un presidente tutto impegnato sulle questioni di politica interna ed è sbarcato a Washington il giorno dopo la storica vittoria congressuale con l’approvazione della legge di riforma della sanità, che ha galvanizzato ancor più Obama. Ha pensato di fare affidamento ancora una volta sulla potente lobby ebraica dell’Aipac e non si è accorto della suaperdita progressiva di peso a favore di altre organizzazioni (J Street e Israel Policy Forum) più liberal e composte da giovani ebrei che vogliono la pace e non nuovi insediamenti. Ma soprattutto non ha creduto fino in fondo alla svolta impressa dalla Casa Bianca alla politica mediorientale.

Se solo Netanyahu avesse prestato attenzione alle parole pronunciate dal generale David Petraeus, il supremo comandante americano dei teatri di guerra più caldi (dall’Afghanistan al Medio Oriente), forse sarebbe stato meno baldanzoso, com’è nel suo carattere. Testimoniando alla commissione Forze armate di Washington, Petraeus ha sostenuto che il conflitto fra israeliani e palestinesi continua a fomentare sentimenti anti Usa, coltivati da Al Qaeda, Hezbollah, Hamas e Iran per complicare la vita innanzitutto ai soldati americani nella regione. Il governo guidato da Netanyahu, che non sblocca il negoziato con i palestinesi, diventa «una zavorra strategica» per l’interesse nazionale americano.

È una svolta, sì, che però va a fare il paio con un’altra svolta in Israele. Il presidente Shimon Peres lo ha ricordato poco prima dell’inizio della Pasqua ebraica partecipando al compleanno della figlia di Ytzhak Rabin, Dalia. «Tutti i governi israeliani, compresi quelli di Menachem Begin e diYitzhak Shamir, hanno sempre accettato di non costruire nuove abitazioni nelle aree di Gerusalemme a maggioranza arabe. Potevano costruire solo in quelle ebraiche» ha detto Peres.

Ora la parola finale spetta a Netanyahu. Obama vuole un riscontro scritto (e non più solo verbale, perché non si fida) alle 10 richieste fatte e lo pretende entro pochi giorni. Il cosiddetto Forum dei sette (i ministri più importanti della coalizione di governo) è spaccato: almeno quattro sono per rispondere picche a Washington e ricordano tutti i giorni a Netanyahu quali potrebbero essere le conseguenze di un cedimento alla pressione internazionale su Gerusalemme: la rottura della coalizione e probabilmente la fine della leadership del Likud con Benny Begin pronto a soppiantarlo. Altri tre ministri sono meno intransigenti. In particolare Barak, pressato dal suo partito perché si ritiri dalla coalizione aprendo le porte a una nuova maggioranza con i moderati di Kadima.

Netanyahu è strattonato. C’è chi gli ricorda il suo passato di soldato coraggioso nei reparti speciali della famosa Sayeret Matcal. Chi invece punta a quello di diplomatico giovane e brillante a Washington. I suoi detrattori gli sbattono in faccia al contrario l’eccessiva emotività dimostrata da quando è entrato in politica e citano quell’impietoso giudizio di Ariel Sharon: «È un bambino viziato di Rehavia, nato con il cucchiaio d’argento in bocca», laddove per Rehavia si intende il quartiere chic di Gerusalemme dove Bibi ha sempre vissuto.

Quel che è certo è che, dopo avere tanto meditato, ponderato i pro e i contro, interpellato intelligence e militari, chiamato a raccolta i suoi fedelissimi, alla fine l’unico che ascolterà sarà sempre papà Benzion, convocato di nuovo a cena prima della fatidica risposta a Washington.

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Israele, inchiesta esercito su 4 palestinesi uccisi: morti potevano essere risparmiati

GERUSALEMME (6 aprile) – Alcuni militari israeliani sono stati accusati di avere agito con «scarsa professionalita» al termine di un'inchiesta ordinata dallo stato maggiore in seguito all'uccisione di quattro palestinesi avvenuta lo scorso mese in Cisgiordania.

Le inchieste preliminari, riferisce la stampa, hanno messo in luce gravi deficienze nei confronti dei comandanti di basso grado presenti sul terreno. Quelle morti, è stato stabilito, avrebbero potuto essere risparmiate. Nei prossimi giorni sarà il capo di stato maggiore, generale Gaby Ashkenazi a decidere eventuali sanzioni nei confronti dei militari coinvolti. 

Il primo episodio risale al 20 marzo scorso, quando un mezzo militare israeliano venne attaccato a colpi di pietre e bottiglie incendiarie nei pressi di Nablus. Uno dei soldati a bordo ha aperto il fuoco e due manifestanti palestinesi sono rimasti uccisi. Il militare aveva sostenuto di avere sparato con proiettili di gomma ma l'indagine ha appurato che si trattava invece di pallottole vere.

I vertici militari che hanno indagato su quell'episodio sono giunti alla conclusione che l'intervento della unità militare ad Arak-Burkin «era superfluo» ed è stato generato da una visione tattica errata. L'indagine invece non è riuscita a far luce su un punto controverso: se i due siano stati uccisi da proiettili rivestiti di gomma (come sostengono i soldati che erano sul terreno) oppure da munizioni vere, come affermano i medici di Nablus. 

Il secondo incidente, avvenuto nel villaggio di Awarta, risale al giorno successivo. Qui due palestinesi sono stati uccisi da una pattuglia che li aveva appena fermati per un controllo. I militari sostengono di avere sparato perché minacciati con una bottiglia e un arma da taglio. Nel rapporto, tuttavia, si afferma che in entrambi i casi i soldati non avrebbero dovuto aprire il fuoco.

Secondo il generale Avi Mizrahi, comandante delle forze israeliane in Cisgiordania, i soldati avrebbero dovuto aver ragione dei due palestinesi (che avevano aggredito separatamente uno di loro) senza necessariamente provocarne la morte. Nell'inchiesta viene ammesso che il soldato che ha aperto il fuoco si è sentito in pericolo immediato di vita. Le critiche sono invece indirizzate ai superiori, che non hanno saputo disporre in maniere adeguata le forze sul terreno. 

In una inchiesta separata, l'esercito israeliano ha invece concluso di non essere responsabile delle morte di un palestinese diabetico, Muhammed Alyat, 63 anni, asseritamente trattenuto a lungo giorni fa in un posto di blocco della valle del Giordano. Dall'inchiesta è emerso che l'uomo non è stato trattenuto al posto di blocco, bensì subito respinto per un motivo tecnico. Di conseguenza si è prolungato di diverse ore il suo viaggio per la Giordania, dove questi è poi deceduto. 

Secondo la stampa in questa serie di episodi i responsabili militari israeliani hanno trovato anche un raggio di luce: il comportamento delle forze di sicurezza dell'Anp che si sono prodigate per circoscrivere gli episodi ed impedire che in Cisgiordania la situazione degenerasse.

 

http://www.metronews.it/

M.O.: ISRAELE MINACCIA TAGLIARE L'ACQUA AI PALESTINESI

(AGI) – Gerusalemme, 7 apr. – Il ministro israeliano delle Infrastrutture, Uzi Landau, ha minacciato di tagliare parte delle forniture idriche in Cisgiordania se i palestinesi non risolveranno il problema delle acque di scarico non trattate. “Se i palestinesi continueranno a riversare le loro acque di scarico, inquinando fiumi e il sistema acquifero, Israele interrompera' di rifornirli”, ha detto alla radio dell'esercito. Il ministro ha invitato i palestinesi a connettersi agli impianti di depurazione, “altrimenti daremo loro l'acqua da bere ma non quella per gli usi industriali e agricoli”. .

 

http://www.wallstreetitalia.com/

M.O./ Israele:non cambiamo nostra politica di ambiguità nucleare

Ayalon: anche gli Usa la considerano molto importante

Gerusalemme, 7 apr. (Apcom) – Israele manterrà con il sostegno degli Stati Uniti la politica dell'”ambiguità” dell'arsenale nucleare. Lo ha detto oggi il vice-ministro degli Affari Esteri Danny Ayalon. “Questa politica di ambiguità costituisce uno dei fondamenti della politica di sicurezza nazionale israeliana, e gli Stati Uniti la considerano molto importante. Non c'è alcuna ragione perché gli americani modifichino il loro approccio o che la posizione israeliana cambi”, ha detto Ayalon alla radio militare. In sostanza per “politica dell'ambiguità” si intende il fatto che Israele non ha mai ammesso ufficialmente di avere armi atomiche nè ha mai esplicitamente negato di averne. 

 

http://www.ultimenotizie.tv/

Se Israele attacca Gaza pagherà un caro prezzo

Teheran accetta la sfida con l’Occidente e rilancia. «Da Obamasono giunte solamente tre o quattro parole belle ma inutili». Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha respinto così la nuova proposta di negoziato lanciata recentemente dal suo omologo americano, BarackObama, e ha sferrato nuovi pesanti moniti nei confronti di Israele, avvertendo che lo Stato ebraico pagherà «un prezzo molto caro» qualora decidesse di lanciare una nuova offensiva contro la Striscia di Gaza. In un comizio tenuto ieri durante l’inaugurazione di una nuova fabbrica a Sirjan, nell’Iran meridionale, il capo di Stato ha marcato la ripresa delle attività istituzionali in seguito alla lunga festività del Capodanno persiano, (Nowrouz) con un discorso all’insegna della fermezza contro gli Usa. Ahmadinejad ha sostenuto che sia il popolo che il governo iraniano hanno respinto le aperture proposte da Obamadurante il suo recente messaggio in occasione proprio del Nowrouz: «Quali cambiamenti di rotta sono stati davvero effettuati? Le sanzioni economiche sono tuttora in vigore, le pressioni contro di noi vengono tuttora esercitate».

Soffermandosi sulle recenti iniziative degli Stati Uniti e delle altre potenze occidentali, che sembrano intenzionate a inasprire le risoluzioni punitive comminate in diverse riprese dall’Onu contro Teheran a causa del suo controverso programma nucleare, Ahmadinejad ha ritenuto che le punizioni economiche rappresentino un «rafforzamento» per l’Iran poiché agiranno da ispirazione, per gli ingegneri locali, nella produzione domestica di derivati del petrolio, come la benzina, la cui vendita a Teheran è stata sospesa da diverse multinazionali nel corso degli ultimi mesi. Allo stesso tempo Ahmadinejad ha fatto presente che l’Iran intende premere per l’abolizione degli armamenti nucleari in tutti i paesi del mondo. Dal canto suo il capo dell’ente atomico iraniano, Ali Akbar Salehi, ha annunciato ieri di aver consegnato ad Ahmadinejad i progetti per la costruzione di due ulteriori centrali preposte all’arricchimento dell’uranio.

Il presidente iraniano ha pure voluto porre l’accento sulle recenti tensioni tra Israele e Hamas. Ahmadinejad ha fatto notare che i popoli e i governi del Medio Oriente sono all’erta oggi rispetto ai «crimini» perpetuati dal «regime sionista». Secondo Ahmadinejad, una nuova incursione israeliana nella Striscia di Gaza avrà l’effetto di «avvicinare» Israele a un estinzione data per sicura.

Le dichiarazioni di fuoco di Ahmadinejad giungono in un fase delicata della partita diplomatica sul nucleare iraniano. Secondo i media iraniani, la dirigenza cinese avrebbe ribadito al caponegoziatore nucleare Said Jalili, in vista a Pechino in questi giorni, la propria convinzione che la comminazione di ulteriori sanzioni nei confronti di Teheran costituirebbe una misura “inefficace” nel confronto con l’Iran. In seguito a una conversazione telefonica con il premier cinese Hu Jintao, che prossimamente visiterà gli Stati Uniti, il presidente Barack Obama ha annunciato la volontà di inasprire le pressioni contro la Repubblica islamica, dando così l’impressione dell’assenso della Cina a un nuovo round di punizioni economiche ai danni del sistema statale sorretto da Ahmadinejad e dai falchi raccolti attorno alla Guida Suprema Ali Khamenei. di Siavush Randbar-Daemi Il Messaggero

 

 

 

 

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