Report: ‘Traumi, educazione e protezione del bambino in un’area distrutta: il caso del campo profughi di Jabaliya’

Dalla nostra inviata Erica Celada

Si è svolta nella mattinata di mercoledì 17 novembre, nell’aula “Riccardo Massa” dell’Università Bicocca di Milano, davanti a medici, avvocati penali, volontari, sociologi e di qualche studente (per un totale di una cinquantina di persone), la conferenza Trauma, Education and child protection in a battered area: the case of Jabalia Refugee Camp, Gaza Strip.

Essendo un convegno organizzato dal Dottorato di Scienze della Formazione e della Comunicazione e da Psychologists for Human Rights Italia, gli ospiti, un educatore e uno psicologo (Husam Hamdouna e Alaa Jaradh), fondatori di un centro educativo a Gaza, e Mahmud Said, vicepresidente di Psychologists for Human Rights (PHR), hanno affrontato la tematica del trauma nei bambini palestinesi rifugiati da un punto di vista essenzialmente pedagogico-formativo.

Nei loro interventi, gli ospiti hanno spiegato gli effetti dell’occupazione israeliana sui bambini, dal punto di vista psicologico e a livello di apprendimento.

Per quanto riguarda l’esperienza del dottt. Said, è stato descritto l’operato dei centri di Emergency and traumas sorti in seguito all’assedio di Gaza a partire dal 2002. Questo tipo di realtà erano un progetto già operativo nel territorio della West Bank e in Cisgiordania ma mancavano proprio nella zona di Gaza: in questi centri, grazie al contributo di collaboratori e operatori qualificati, sono state utilizzate per la prima volta tecniche terapeutiche rivolte ai bambini traumatizzati, con lo scopo di favorirne l’educazione, l’istruzione e la formazione, dato il contesto problematico in cui si trovano a vivere.

Membro di PHR, un’associazione israelo-palestinese nata nel 1980, Said riuscì prima a farsi accordare il permesso per la formazione di ulteriore personale da impiegare in futuro in nuovi centri psichiatrici e psicologici, salvo poi vedersi costretto dall’operato dello stesso Ministero palestinese a privare delle loro occupazioni il recente personale formato a causa della forte influenza di Hamas, contrario a progetti di questa tipologia.

La delusione di questo episodio si somma a quella relativa alla condotta, a partire già dal lontano 1948, di organizzazioni come l’Unicef e l’UNRWA (l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente), che da sempre impongono i loro standard educativi nei loro interventi, dal momento che mettono a disposizione aiuti economici e finanziamenti.

La riflessione di Said si è concentrata sull’utilità di una effettiva cooperazione internazionale: un’educazione in cui alla comunità palestinese venisse data la possibilità di partecipare direttamente, rispetto ad interventi, che vanno per la maggiore, di forte intensità, ma puntiformi, isolati e di breve durata, globalmente scollegati, condotti da entità esterne rispetto alla società palestinese, soggetto cui si rivolgono.

Come è stato sottolineato anche da una domanda del pubblico, infatti, la frammentarietà delle organizzazioni (e quindi della tipologia di interventi) non contribuisce efficacemente allo scopo comune, ma anzi diventa un business: ben lontano dal voler criticare l’operato delle organizzazioni umanitarie, a livello educativo, Said sostiene che sarebbe bene perseguire un unico standard uniforme di approccio alle problematiche.

La dr.ssa Maria Giulia Agnoletto ha fatto una breve descrizione del Remedial Education Center (REC), l’ONG palestinese di cui il dott. Jaradh e il dott. Hamdouna sono i fondatori: si tratta di una realtà di Gaza City, istituita nel 1993 in una delle zone più tormentate dal conflitto con Israele (spesso isolata e colpita, quasi rasa al suolo in occasione di incursioni che costringono gli abitanti in una condizione di ricostruzione permanente). È un centro educativo per bambini, che si caratterizza per un approccio formativo orientato verso il rafforzamento delle potenzialità degli individui.

Nel suo intervento, il dott. Jaradh ha ampliato la descrizione dell’operato del REC: a partire da un problema relativo all’apprendimento scolastico, il loro aiuto si è configurato inizialmente come un sostanziale doposcuola per i bambini; rimanendo poi in contatto con gli insegnanti e le famiglie, data la fondamentale importanza della tematica dell’educazione e dell’istruzione, egli ha prestato loro aiuto tramite incontri e seminari di sostegno.

L’approccio del REC è di tipo psico-sociale: pone attenzione alle conseguenze dei traumi manifestate da parte dei bambini, con lo scopo di ristabilire un attaccamento alla vita e al futuro in quei soggetti che, provenendo da famiglie che si trovano in condizioni di particolare povertà e disagio, hanno problemi di socializzazione, chiusura, esagerata timidezza, difficoltà di concentrazione e apprendimento con conseguente caduta della rendita scolastica, fobie, incubi.

Il REC, dunque, è un punto di riferimento educativo-didattico nell’ottica di una futura integrazione, la cui operosità nell’insegnamento, le attività ricreative, di sostegno familiare e counseling, si rivolgono a una zona abitata da 1,5 milioni di persone, i due terzi in condizione di profughi dal ’48. Non meno importante dei precedenti, a questo proposito, è l’obiettivo del REC di alzare il livello di resilienza (termine di derivazione ingegneristica, riferito alla capacità di far fronte alle difficoltà non manifestandone i segni, relativo a quella percentuale di popolazione che non sviluppa i sintomi del trauma), attraverso tecniche di eliminazione della competizione tra bambini, favorendo il rispetto e l’esaltazione delle capacità individuali come fondamentali per una politica di difesa delle differenze.

Nel suo intervento, lo psicologo Hamdouna ha sottolineato il problema dell’emergere del trauma anche nel lungo periodo.

Di fronte a sintomi come fobie, preoccupazioni, paure, calo dell’autostima, incubi, il REC risponde attraverso terapie di gruppo, familiari o individuali, che sfruttano tra le altre tecniche anche quella del disegno (strumento di “proiezione” per i soggetti che rifiutano di parlare), la libera scrittura e la narrazione di storie che inevitabilmente ripercorrono le proprie vicende segrete (processo di normalizzazione di fronte a situazioni comuni che creavano disagio), lo psicodramma, il rilassamento.

Il dott. Veronese ha integrato l’intervento, evidenziando come il trauma sia un fenomeno complesso di dimensioni inestricabili che coinvolgono completamente l’individuo sotto un profilo socio-psicologico. Per questo motivo è necessario insistere sull’aspetto complementare del trauma, ovvero il benessere… Se, come nel caso della cittadina di Jenin, si presentano innumerevoli ONG che insistono sul voler prestare aiuto, è inevitabile che il trauma si venga a creare anche in quei contesti familiari in cui non sarebbe stato necessario un intervento di sostegno.

In quest’ottica si spiega meglio l’operato del REC: un intervento partecipativo dal basso legato al concetto di “resistenza e rafforzamento”, in cui la popolazione palestinese è un “cliente” consapevole dei propri punti di forza, un alleato esperto e diretto protagonista di storie da ripercorrere come esempio di resistenza e di consolidamento del proprio benessere.

Posto che non ci sono idee effettivamente chiare ed uniformi sulle soluzioni da adottare per uscire dalla situazione di occupazione, il REC si preoccupa esclusivamente della condizione della gente: l’approccio non è, quindi, politico ma di tipo socio-educativo, volto ad alimentare la fiducia e i sentimenti di collaborazione in senso democratico; non occuparsi direttamente di politica, però, rassicura Hamdouna, non significa distaccare queste due sfere: a loro interessa garantire un periodo di infanzia felice, favorendo il passaggio e la diffusione di contenuti orientati al dialogo in un periodo futuro.

Se l’educazione influenza, quindi, ogni strato familiare e favorisce il cambiamento globale di un universo da riequilibrare (come quello dei territori di Gaza) sotto ogni aspetto, il REC ha esplicitato in quest’occasione il proprio scopo di favorire l’attribuzione da parte dei soggetti di un senso di coerenza (un orientamento generale entro il quale si manifesta un senso durevole e dinamico di fiducia) alla situazione, dal momento che questo contribuisce a diminuire il livello di trauma percepito dai soggetti, in particolar modo dai bambini.

Il REC quindi si occupa di diffondere, dal punto di vista formativo-educativo dei bambini, un approccio positivo, in cui si incoraggi il dialogo, il rispetto e l’accettazione dell’altro già dalla tenera età, affinché si raggiunga l’equilibrio e la tranquillità in questo microcontesto di crescita e, di conseguenza, si possa pensare di influenzare e orientare il panorama generale e adulto, ulteriormente problematico, verso una prospettiva almeno di tregua, se non addirittura di pace.

 

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