Ricordando la Prima Intifada

MEMO. Di Hanaa Hasan. Proprio in questi giorni, 30 anni fa, scoppiò la Prima Intifada nella Palestina occupata. Fu una rivolta che sarebbe durata per più di cinque anni e che vide morire migliaia di Palestinesi. Tre decenni dopo, la lotta per la liberazione della Palestina continua.

Cosa: la Prima Intifada

Quando: 9 dicembre 1987 – 13 settembre 1993

Dove: Territori Occupati Palestinesi ed Israele

Cosa accadde?

Il contesto della rivolta fu l’allora ventennale occupazione israeliana della Cisgiordania palestinese, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Est. Israele governava col pugno di ferro i Territori occupati, imponendo il coprifuoco e compiendo incursioni, arresti, deportazioni e demolizioni di case. 

Tutto accadde dopo che l’8 dicembre, a Gaza, centinaia di Palestinesi furono testimoni dell’uccisione di quattro uomini investiti da una jeep israeliana all’esterno del campo rifugiati di Jabaliya: l’indignazione provocata da quanto accaduto fu immensa. I funerali dei Palestinesi uccisi videro la presenza di circa 10.000 persone, ma furono obbligati a ripeterli anche il giorno dopo poiché le truppe israeliane spararono a caso tra la folla, uccidendo il diciassettenne Hatem Abu Sisi e ferendo altri 16 partecipanti. 

Quando i leader palestinesi si riunirono per discutere a proposito del deterioramento della situazione, le proteste e gli scontri scoppiarono anche all’interno del campo rifugiati, diffondendosi rapidamente in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme Est. I Palestinesi presero il controllo nei quartieri, costruendo barricate lungo le strade per impedire ai veicoli militari israeliani di entrare. Per la maggior parte disarmati, si difesero soltanto lanciando sassi e pietre contro i soldati e contro i loro carri-armati. I venditori chiusero i loro negozi ed i lavoratori rifiutarono di recarsi sui loro luoghi di lavoro in Israele. 

L’esercito definì queste azioni come atti di “insurrezione” e si mosse aggressivamente per sopprimere le proteste sparando proiettili ricoperti di gomma, proiettili veri e gas lacrimogeni sulla folla. Le proteste dilagarono, coinvolgendo decine di migliaia di persone, compresi donne e bambini. Al 12 di dicembre, durante le violenze, erano già stati uccisi 6 Palestinesi e 30 erano stati feriti. Coloro che si erano ribellati contro le ingiustizie di Israele facevano parte di una generazione che era cresciuta all’ombra dei resti di una occupazione militare brutale; questa opportunità di prendere posizione contro le violazioni dei loro diritti era da cogliere al volo. 

Visto che le proteste non sembravano scemare, Israele utilizzò arresti di massa per cercare di dissuadere la gente dal prendervi parte. Le università e le scuole della Cisgiordania vennero chiuse; secondo il prof. Wendy Pearlman, il coprifuoco venne attuato 1.600 volte, soltanto durante il primo anno. Le aziende agricole e le abitazioni vennero rase al suolo, gli alberi furono sradicati ed ai manifestanti che si rifiutavano di pagare le tasse furono sequestrate proprietà e licenze edilizie. Anche i colonizzatori illegali ebrei sferrarono puntualmente attacchi contro i Palestinesi; questi ultimi lanciavano pietre per auto-difesa e dovettero affrontare le brutalità dei coloni. Soltanto durante il primo anno furono uccisi 300 Palestinesi. 20.000 erano rimasti feriti e circa 5.500 furono arrestati da Israele, secondo la UN Relief and Works Agency for Palestine Refugees (UNRWA). 

La filiale svedese di Save the Children ha stimato che “tra i 23.600 ed i 29.900 bambini dovettero ricorrere alle cure mediche per le lesioni riportate in seguito alle percosse subite nei primi due anni della Intifada”; un terzo di loro aveva meno di dieci anni. 

Le immagini giocarono un ruolo importante nel modo in cui l’Intifada venne percepita dalla comunità internazionale, dato che la enorme sproporzione tra i manifestanti palestinesi disarmati e l’esercito israeliano venne rappresentata in tutta la sua brutalità. Nel 1988, un video in particolare provocò grande indignazione quando vennero filmati militari dell’esercito israeliano mentre stavano picchiando due adolescenti palestinesi, spezzandogli deliberatamente le braccia. L’immagine di Israele come di un paese debole, una nazione ebraica accerchiata da ostili vicini arabi, stava lentamente cambiando. 

Cosa accadde in seguito?

A partire dal 1988, i leader palestinesi cercarono di controllare la situazione sempre più deteriorata. La sede dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) di Yasser Arafat venne stabilita in Tunisia, e cercò di limitare le violenze lavorando con le Nazioni Unite. Questi sforzi ebbero poco successo; al contrario, Hamas (Movimento di Resistenza Islamico), appena fondato, si affermò nella Striscia di Gaza, presentandosi come l’alternativa al movimento di Fatah, collegato all’OLP. Hamas chiese ai Palestinesi di rispettare gli obiettivi fondamentali della loro lotta nazionale, e prima di tutto la liberazione della Palestina. Il movimento incoraggiò i combattenti della resistenza a compiere attacchi in Israele; negli anni a venire, questi sarebbero stati i pretesti che Tel Aviv avrebbe utilizzato per giustificare ulteriori persecuzioni nei confronti dei Palestinesi. 

Dopo che nel 1988 il defunto re Hussein di Giordania ebbe tagliato tutti i legami amministrativi ed economici con la Cisgiordania, il senso di non appartenenza ad uno stato dei Palestinesi fu nuovamente messo in evidenza. Dato che il bagno di sangue continuava, le richieste di uno stato palestinese indipendente divennero più pressanti. Nello stesso anno, il Consiglio Nazionale Palestinese, un governo in esilio, accettò la soluzione dei due stati, come prevedeva una risoluzione dell’ONU del 1947. 

Tuttavia, le violenze continuarono e nel 1989 almeno 285 Palestinesi vennero uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, mentre altri 17 vennero uccisi da coloni ebrei. Nello stesso periodo, 19 civili israeliani e sei componenti delle Israel Defence Forces (IDF) vennero uccisi da Palestinesi. Dal 1989 al 1990 gli Stati Uniti posero continuamente il loro veto alle bozze di risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU le quali deploravano Israele per le sue violazioni dei diritti umani e per le sue inadempienze alla Quarta Convenzione di Ginevra. 

Fu soltanto nel 1991, quando gli Stati Uniti convocarono la Conferenza di Madrid e riconobbero l’OLP come l'”unico rappresentante legittimo” del popolo palestinese, che Israele venne posto sul tavolo dei negoziati. Colloqui segreti tra l’OLP ed il governo di Israele, incoraggiati dalla Norvegia, ebbero luogo l’anno successivo che infine sfociarono negli Accordi di Oslo. 

Oslo prevedeva un periodo di transizione di cinque anni durante i quali le forze israeliane si sarebbero ritirate dai Territori occupati e sarebbe stata istituita una Autorità Palestinese, che avrebbe portato alla creazione di uno stato indipendente. L’accordo venne sottoscritto nel prato della Casa Bianca, nel settembre 1993, dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e dal presidente dell’OLP Yasser Arafat, alla presenza del presidente statunitense Bill Clinton. 

Nonostante i tentativi di pace compiuti davanti a tutto il mondo, il contesto delle negoziazioni politiche restò quello delle continue violenze. Alla fine della Intifada nel 1993, almeno 1.500 Palestinesi e 185 Israeliani erano stati uccisi; oltre 120.000 Palestinesi erano stati arrestati. La enorme sproporzione nelle violenze e nelle vittime da parte palestinese provocò condanne diffuse a livello internazionale che influenzarono il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e lo costrinsero a formulare le risoluzioni 607 e 608, che richiedevano ad Israele di porre fine alla deportazione dei Palestinesi dalle loro terre. 

Mentre agli occhi degli storici l’Intifada fu significativa poiché fu l’inizio del processo di pace, 30 anni dopo la promessa resta incompiuta. Oslo si è rivelato essere un’altra falsa speranza; l’occupazione israeliana e le colonie illegali invadono i diritti palestinesi e le loro terre più che mai. La Prima Intifada non è mai realmente finita, ed i Palestinesi hanno sempre continuato a resistere contro l’occupazione, la tirannia e la oppressione di Israele.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi