Ripensare la nostra definizione dell’apartheid: non solo regime politico (Prima parte)

Ma’an. Di Haidar Eid e Andy Clarno per Al-Shabaka.

Introduzione.
Mentre Israele intensifica il proprio progetto coloniale degli insediamenti, l’apartheid è diventato la cornice sempre più importante per comprendere e sfidare il ruolo di Israele nella Palestina storica. Il convincente dibattito di Nadia Hijab e Ingrid Jaradat Gassner considera l’apartheid il maggior quadro strategico di analisi. Nel marzo 2017 la Commissione economica e sociale per l’Asia occidentale (Escwa) ha emesso un forte rapporto che documenta le violazioni israeliane dei diritti internazionali, concludendo che Israele ha fondato un «regime di apartheid» che opprime e domina l’intero popolo palestinese.
Secondo il diritto internazionale l’apartheid è un crimine contro l’umanità, e gli stati possono essere ritenuti responsabili delle loro azioni. Ma il diritto internazionale ha i suoi limiti. Una questione specifica riguarda ciò che manca nella definizione legale internazionale di apartheid. Poiché la definizione è incentrata solamente sul regime politico, essa non fornisce una base solida di critica per gli aspetti economici dell’apartheid. A questo riguardo noi proponiamo una definizione alternativa di apartheid, che è nata durante la battaglia in Sudafrica, negli anni Ottanta, e ha trovato l’appoggio tra gli attivisti per i limiti alla decolonizzazione in Sudafrica dopo il 1994 – una definizione che vede l’apartheid come intimamente connesso con il capitalismo.
La direttiva politica elenca ciò che il movimento per la liberazione della Palestina può imparare dalla situazione sudafricana, ovvero il riconoscimento dell’apartheid sia in quanto sistema di discriminazione razziale legalizzata, che sistema di capitalismo razziale. Esso conclude con consigli su come i palestinesi possono affrontare questo duplice sistema al fine di ottenere una pace giusta e duratura radicando eguaglianza economica e sociale.

Potere e limiti del diritto internazionale.
La Convenzione internazionale sulla soppressione e la punizione del diritto di apartheid definisce l’apartheid «crimine che riguarda atti disumani commessi con il proposito di fondare e mantenere il dominio da parte di un gruppo razziale di persone su qualsiasi altro gruppo per opprimerlo sistematicamente».

Lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale definisce l’apartheid un crimine che coinvolge «un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominio da parte di un gruppo razziale nei confronti di ogni altro gruppo o gruppi».
Fondato su una attenta lettura di questi statuti, il rapporto Escwa analizza la politica israeliana in quattro sfere. Esso documenta la discriminazione legale formale contro i cittadini palestinesi di Israele, il duplice sistema legale nei Territori occupati palestinesi, gli incerti diritti di residenza dei gerosolimitani palestinesi e il rifiuto di Israele di permettere ai rifugiati palestinesi di esercitare il diritto al ritorno. Il rapporto conclude che il regime di apartheid israeliano opera frammentando il popolo palestinese, sottomettendolo a diverse forme di dominio razziale.
Il potere dell’analisi sull’apartheid era evidente a giudicare da come Stati Uniti e Israele hanno risposto al rapporto. L’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite ha denunciato il rapporto, e ha chiesto al segretario generale dell’Onu di rinnegarlo. Il segretario generale ha fatto pressione su Rima Khalaf, presidente dell’Escwa, affinché ritirasse il rapporto. Rifiutatasi di obbedire, Rima Khalaf ha abbandonato l’incarico.
L’importanza del rapporto Escwa non può essere ingigantito. Per la prima volta un membro delle Nazioni Unite ha formalmente affrontato la questione dell’apartheid in Palestina/Israele. Il rapporto si riferisce alle politiche israeliane nei confronti dei palestinesi nel complesso anziché focalizzandosi su una parte della popolazione. Rivolgendosi agli stati membri e a organizzazioni della società civile per fare pressione su Israele, il rapporto delle Nazioni Unite dimostra anche l’utilità del diritto internazionale come strumento per dichiarare responsabili regimi come quello israeliano.
Ma pur riconoscendo l’importanza del diritto internazionale, non vuol dire non riconoscerne i limiti. Primo, le leggi internazionali sono efficaci solo se riconosciute e sostenute dagli stati, e la struttura gerarchica del sistema statale fornisce a una manciata di stati il potere di veto. Il rapido insabbiamento del rapporto Escwa ha evidenziato questi limiti. Inoltre c’è una preoccupazione più specifica che riguarda la definizione internazionale di apartheid, come si è visto sopra. Guardando solo al regime politico, la definizione legale non dà una base forte di critica agli aspetti economici dell’apartheid, e prepara la strada a un futuro di post apartheid pieno di discriminazioni economiche.

Il capitalismo razzista e i limiti della liberazione sudafricana.
Durante gli anni Settanta e Ottanta del Novecento i sudafricani neri si sono impegnati in un urgente dibattito finalizzato alla comprensione del sistema di apartheid che stavano combattendo. Il blocco più potente entro il movimento di liberazione – il Congresso nazionale africano (Anc) e i suoi alleati – ha affermato che l’apartheid era un sistema di dominazione razziale, e che la lotta doveva focalizzarsi sull’eliminazione delle politiche razziste e sulla richiesta di equità legale. I radicali neri rifiutarono questa analisi. Il dialogo tra il Movimento di consapevolezza nera e i marxisti indipendenti generò una definizione alternativa di apartheid come sistema di «capitalismo razziale». I radicali neri insistettero sulla necessità di rivolgere la lotta sia allo stato che al sistema capitalistico razziale. Se il razzismo e il capitalismo non fossero stati messi a confronto, essi predissero, il Sudafrica del post apartheid sarebbe rimasto diviso e iniquo.
Gli ultimi 20 anni hanno confermato questa tesi. Nel 1994 l’apartheid legale venne abolito e i neri sudafricani ottennero l’uguaglianza legale – compreso il diritto di voto, il diritto di vivere ovunque e il diritto di spostarsi senza permessi. La democratizzazione dello stato fu una conquista notevole. Invero, la transizione sudafricana dimostra la possibilità di coesistenza pacifica in base all’eguaglianza legale e al riconoscimento reciproco. Questo è ciò che rende il Sudafrica così esemplare per molti palestinesi e alcuni israeliani che cercano una alternativa alla frammentazione e al fallimento di Oslo.
Nonostante la democratizzazione dello stato, la transizione sudafricana non ha affrontato le strutture del capitalismo razziale. Durante i negoziati l’Anc fece grosse concessioni per ottenere l’appoggio dei sudafricani bianchi e della élite capitalista. Fatto ancora più importante, l’Anc accettò di non nazionalizzare i terreni, le banche e le miniere, e accettò le protezioni costituzionali per la distribuzione della proprietà privata esistente – nonostante la storia di espropri coloniali. Inoltre, il governo dell’Anc adottò una strategia economica neoliberista favorevole alla promozione del libero commercio, all’industria orientata all’esportazione e alla privatizzazione di imprese statali e di servizi municipali. Il risultato è che il Sudafrica del post apartheid resta uno dei paesi più ingiusti del mondo.
La ristrutturazione neoliberista ha portato all’emergere di una piccola élite nera e a una crescente classe media nera in alcune parti del paese. Ma la vecchia élite bianca controlla ancora la gran parte del territorio e della ricchezza del Sudafrica. La deindustrializzazione e la crescente quota di popolazione costretta a contare su lavori occasionali hanno indebolito il movimento della classe operaia, aumentato lo sfruttamento della classe operaia nera e prodotto un crescente surplus di popolazione emarginata che affronta una disoccupazione strutturale permanente. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 35%, e comprende coloro che hanno rinunciato alla ricerca di un’occupazione. In certe zone il tasso di disoccupazione supera il 60% e i lavori che restano disponibili sono precari, a breve termine e poco retribuiti. 
I neri poveri affrontano poi una seria carenza di terreni e alloggi. Invece di ridistribuire i terreni, il governo Anc ha adottato un programma legato al mercato attraverso cui lo stato aiuta gli acquirenti neri a comprare terreni da proprietari bianchi. Ciò ha creato una piccola classe di proprietari terrieri neri, ma solo il 7,5% dei terreni del Sudafrica è stato ridistribuito. Di conseguenza, la maggior parte dei sudafricani neri rimane senza terra e le élite bianche mantengono la proprietà di gran parte delle terre. In modo simile, il crescente prezzo degli immobili ha fatto moltiplicare il numero di persone che vivono in baracche, in edifici occupati e in insediamenti informali, nonostante i sussidi statali e le garanzie costituzionali per un alloggio decoroso.
La razza continua a determinare l’accesso iniquo agli alloggi, all’istruzione e al collocamento nel Sudafrica del post apartheid. Essa dà anche forma alla rapida crescita della sicurezza privata, che rappresenta l’industria in via di sviluppo più rapido in Sudafrica dagli anni Novanta. Compagnie di sicurezza privata e associazioni di residenti benestanti hanno storicamente trasformato le periferie bianche in comunità-fortezza, murate, divise da cancelli con sistemi di allarme, pulsantiere anti panico, sorveglianza fissa, pattuglie di quartiere, video sorveglianza e gruppi armati di pronto intervento. Questi regimi privatizzati di sicurezza residenziale contano sulla violenza e sull’appartenenza razziale rivolgendosi a chi è nero e povero.

Secondo il diritto internazionale l’apartheid finisce con la trasformazione dello stato razziale e l’eliminazione della discriminazione razziale legalizzata. Ora, un rapido esame del Sudafrica post 1994 rivela le insidie di un tale approccio, e evidenzia l’importanza di ripensare la nostra definizione di apartheid. L’eguaglianza legale formale non ha prodotto una vera trasformazione sociale ed economica. Invece la neoliberalizzazione del capitalismo razziale ha rafforzato le iniquità create da secoli di colonizzazione e apartheid. La razza resta una forza trainante sia dello sfruttamento che della rinuncia, nonostante la patina legale dell’uguaglianza legale. I festeggiamenti del governo guidato dall’Anc tendono ad oscurare l’impatto del capitalismo razziale in Sudafrica dopo il 1994.
Le critiche dell’apartheid israeliano hanno ampiamente ignorato i limiti rilevati in Sudafrica.

Anziché considerare l’apartheid un sistema di capitalismo razziale, la maggior parte delle critiche dell’apartheid israeliano si basano sulla definizione legale internazionale di sistema di dominazione razziale. Di certo tali critiche sono state molto proficue. Esse hanno dato forma all’analisi del dominio israeliano, hanno contribuito all’espandersi della campagna del Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) e hanno dato una base legale alle accuse rivolte a Israele. L’importanza del diritto internazionale come risorsa delle comunità in lotta non va invalidata.
Ma analisi e organizzazione possono essere spinti oltre, comprendendo l’apartheid come un sistema di capitalismo razziale, piuttosto che basandosi così letteralmente alle definizioni legali internazionali. Valutando le vite e il lavoro della gente i regimi capitalisti razziali intensificano lo sfruttamento, esponendo i gruppi marginalizzati a morte prematura, abbandono e eliminazione. Il concetto di capitalismo razziale, in questo modo, sottolinea la mutua costituzione di accumulo capitalistico e di formazione razziale, sostenendo l’impossibilità di eliminare sia la dominazione razziale o le diseguaglianze di classe senza affrontare il sistema in generale.

Comprendere l’apartheid come sistema di capitalismo razziale ci permette di affrontare seriamente i limiti della liberazione del Sudafrica. Studiare il successo della lotta sudafricana è stato molto proficuo per i movimenti di liberazione palestinesi; comprendere i suoi limiti può essere altrettanto proficuo. Pur avendo ottenuto, i sudafricani neri, eguaglianza formale legale, il fallimento nel rivolgersi all’economia dell’apartheid ha limitato concretamente la decolonizzazione. In breve, l’apartheid non è finito – è stato ristrutturato. Basarsi troppo letteralmente alla definizione legale internazionale di apartheid può portare la Palestina a dover affrontare problemi simili. Solleviamo questa nota precauzionale con la speranza che essa possa aiutare lo sviluppo di strategie utili ad affrontare allo stesso tempo il razzismo israeliano e il capitalismo neoliberista.

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro la cui missione è istruire e incoraggiare il pubblico dibattito sui diritti umani dei palestinesi e il loro diritto all’autodeterminazione entro il diritto internazionale.

Traduzione di Stefano Di Felice