Come ritenere Israele responsabile del crimine di apartheid

israeli_apartheid_2_by_latuff2Di Alaa Tartir – PICMentre l’amministrazione statunitense è impegnata a progettare e a realizzare la sua «soluzione regionale» al conflitto arabo-israeliano, e la comunità internazionale «celebra e ricorda» gli anniversari della dichiarazione di Balfour del 1917, la Nakba del 1948 e l’occupazione israeliana del 1967 di ciò che restava del territorio palestinese, essi farebbero bene a chiedersi qual è la natura della «realtà a uno stato» che esiste in Palestina-Israele.
Ogni soluzione e ogni analisi dovrebbero prendere le mosse dalla realtà a uno stato – da non confondersi con la soluzione a uno stato – dalla sua natura e dalle sue politiche, la sua struttura e il suo regime di apartheid e il suo progetto coloniale nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.
Si tratta di una riflessione cruciale mentre i fallimenti del quadro degli accordi di Oslo di 25 anni fa svela dove stia il problema ed espone i limiti e le mancanze strutturali di un approccio che ignora le cause fondamentali del «conflitto» e supporta la normalizzazione della dominazione, della colonizzazione e dell’apartheid.
Perciò né i vecchi strumenti né l’attuale cornice possono servire a catalizzare un cambiamento positivo per il futuro. Superare i cicli di fallimenti e punti morti richiede un serio impegno nell’inquadramento operativo e concettuale del «conflitto» i cui principi fondamentali stanno nelle responsabilità, nella giustizia e nell’uguaglianza piuttosto che nella stabilità, nella sicurezza incerta e nella pace sfuggente.
Le Nazioni Unite e le sue diverse incarnazioni, in quanto istituzioni per la governabilità globale, sono particolarmente responsabili per il sostenimento di questi principi, nonostante il fallimento completo nella realizzazione – efficace e giusta – delle proprie risoluzioni quando si tratta di Palestina-Israele.

Ma loro rimangono i giocatori-chiave nel sistema e nelle strutture di governabilità globale, e la loro importanza, soprattutto quando vengono riformate e reinventare, è particolarmente rilevante nell’attuale ordine globale che si sta rivelando nell’«era Trump» per le conseguenze su Palestina-Israele.


Oltre ogni ragionevole dubbio
In questo contesto la Commissione economica e sociale per l’Asia occidentale delle Nazioni Unite (Escwa) ha appena pubblicato un rapporto significativo sull’apartheid attuato da Israele, che intende «promuovere l’adattamento con le leggi internazionali sui diritti umani, sostenere e rafforzare il diritto penale internazionale e assicurare che le responsabilità collettive delle Nazioni Unite e dei suoi stati membri, in tema di crimini contro l’umanità, siano rispettate».
Il rapporto, La condotta di Israele nei confronti del popolo palestinese e la questione dell’apartheid, firmato dai docenti e influenti ricercatori impegnati Richard Falk e Virginia Tilley, offre alla comunità internazionale e agli stati membri dell’Onu una conclusione molto chiara e concisa: «Israele ha instaurato un regime di apartheid che domina completamente il popolo palestinese».
Il rapporto ammette pure che le prove a disposizione stabiliscono oltre ogni ragionevole dubbio che «Israele è colpevole di politiche e pratiche che rientrano nel crimine di apartheid, così come esso viene definito dagli strumenti del diritto internazionale». Ciò consiste nell’«attuazione di un crimine contro l’umanità».
Il crimine di apartheid, fissato nello stesso nucleo di leggi e principi internazionali sui diritti umani che rifiutano l’antisemitismo e altre ideologie razziali discriminatorie, indica «atti disumani… commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematiche da parte di un gruppo razziale nei confronti di qualsiasi altro gruppo, o gruppi, con l’intento di mantenere tale regime».


 Frammentazione strategica
La dominazione razziale è ben illustrata nella dottrina statuale ebraica e si riflette nel diritto e nel progetto delle istituzioni israeliane.
Ad esempio, la politica per il territorio dimostra come le leggi israeliane rendano l’opposizione alla dominazione razziale illegale. Secondo il rapporto, la progettazione demografica e l’identificazione degli oppressi come appartenenti a «gruppi razziali» speciali sono altre immagini che definiscono la garanzia dell’ebraismo statale.
Il rapporto rileva che il metodo principale utilizzato da Israele per imporre il proprio regime di apartheid consiste nella frammentazione strategica del popolo palestinese. Questa frammentazione è attuata per stabilire il dominio razziale di Israele sui palestinesi e ne ostacola le capacità di resistenza alle politiche israeliane di segregazione.
La sparsa popolazione palestinese risiede in quattro differenti località e domini, e a loro si applicano quattro differenti serie di leggi: il diritto civile – con restrizioni – riservato ai palestinesi cittadini israeliani; il diritto sul permesso di residenza applicabile ai palestinesi di Gerusalemme; il diritto militare per i palestinesi della Cisgiordania occupata e di Gaza; la negazione del diritto al ritorno per i palestinesi in esilio.
Di conseguenza i palestinesi all’interno di Israele possono acquisire la «cittadinanza», ma non la «nazionalità», che spetta esclusivamente agli ebrei. I palestinesi di Gerusalemme est, in quanto residenti permanenti, non hanno lo status legale per poter sfidare le leggi israeliane. Le politiche tramite cui Israele occupa e governa la Cisgiordania e Gaza corrispondono in pieno alla definizione di apartheid data dalla Convenzione sull’Apartheid. Il secco linguaggio razzista che Israele usa per descrivere il diritto al ritorno dei palestinesi rifugiati, definendoli una «minaccia demografica», è un altro strumento per mantenere il regime di apartheid.
Il rapporto smonta pure le diverse contro argomentazioni avanzate da Israele e dai sostenitori delle sue politiche, che negano l’applicabilità della Convenzione sull’Apartheid alla Palestina-Israele. Nessuna di quelle controargomentazioni regge a un esame, come il rapporto Escwa dimostra eloquentemente.


Un dovere collettivo
Pertanto, in accordo con le conclusioni e con le raccomandazioni del rapporto, gli stati hanno un dovere collettivo: non riconoscere la legittimità di un regime di apartheid; non aiutare o assistere uno stato nel mantenimento del regime di apartheid; collaborare con l’Onu e con altri stati affinché i regimi di apartheid abbiano fine.
Ma solo un tribunale internazionale è in grado di giudicare con autorità un crimine di apartheid. Garantire una tale decisione da parte di un tribunale internazionale dovrebbe essere il dovere ultimo dei palestinesi, dei loro sostenitori e delle istituzioni governative globali, mantenendo al contempo le proprie azioni di resistenza atte a smantellare il regime coloniale israeliano e l’occupazione militare.
Nel rapporto sono indicati con chiarezza gli elementi chiave di un piano d’azione che possa far ritenere Israele responsabile del crimine di apartheid che sta commettendo. L’insieme di raccomandazioni indirizzate all’Onu, ai governi nazionali e a stati membri, oltre che alla società civile globale e a elementi del settore privato, invoca la collaborazione internazionale per porre fine al regime israeliano di apartheid.

In accordo con le richieste della popolazione civile palestinese il rapporto raccomanda che «i governi nazionali appoggino le azioni di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), che rispondano positivamente a richieste di iniziative in questo senso e che si facciano sforzi per espandere l’appoggio al Bds tra gli attori della società civile». Ciò è di primaria importanza quando i diversi attori si impegnino a realizzare il loro dovere legale entro il diritto internazionale.
Queste raccomandazioni hanno bisogno di un insieme di meccanismi operativi che attribuiscano la responsabilità a Israele e ad altre parti, per assicurare un’efficace realizzazione del piano d’azione per porre fine all’apartheid israeliano. Il giorno in cui l’apartheid israeliano si potrà osservare solo al museo è ancora lontano, ma le azioni funzionali, efficaci e responsabili delle istituzioni di governance globale possono fare avvicinare questo momento, e, con esso, la pace globale.

Traduzione di Stefano Di Felice