‘Se l’ossessione dell’olocausto cambia il volto dell’ebraismo’.

DAL CORRIERE DELLA SERA del 30 Ottobre 2008
 
Polemiche- L’ex Presidente del parlamento Israeliano critica una visione distorta della Shoah: "Tutto iniziò col processo Eichmann"
 
SE L’OSSESSIONE DELL’OLOCAUSTO CAMBIA IL VOLTO DELL’EBRAISMO
 
La denuncia di Avraham Burg: così tramontano i valori umanitari
 
di SERGIO ROMANO
 
 
Secondo l’autore israeliano di un libro apparso ora in traduzione italiana, esiste ormai una «impresa della Shoah» che «imperversa» nella vita pubblica, ritorna insistentemente nel dibattito nazionale, condiziona la vita degli ebrei in Israele e nel mondo. «Non passa letteralmente giorno — scrive — senza che io trovi, sul giornale che sto leggendo, qualcosa che riguarda la Shoah: risarcimenti, antisemitismo, un nuovo studio, un libro interessante, un’intervista eccezionale, una testimonianza rara». Le gite scolastiche ad Auschwitz sono diventate un inderogabile appuntamento degli allievi delle scuole israeliane e le visite al memoriale di Yad Vashem sono ormai una tappa obbligata nel programma dei viaggi ufficiali di un uomo politico straniero.
Questo fenomeno non avrebbe grande importanza se non avesse avuto, secondo l’autore, effetti inquietanti. Il culto pervasivo e incessante della Shoah ha modificato la cultura politica dello Stato israeliano. È diventato la pubblica giustificazione della durezza poliziesca con cui Israele amministra i territori occupati.
Ha militarizzato la società israeliana. Ha generato una estrema destra brutale e fanatica che ricorda all’autore, paradossalmente, il nazismo.
Ha creato la convinzione, ormai radicata in larghi settori dell’ebraismo soprattutto americano e israeliano, che la Shoah sia un avvenimento incomparabile e non possa essere esaminato storicamente come altre tragiche vicende della storia mondiale, dai massacri degli armeni alla strage dei ruandesi, dal terrore sovietico a quello cinese. Ha creato un nemico permanente, l’eterno antisemitismo, contro il quale l’ebraismo ha l’obbligo di armarsi e mobilitarsi. Durante una sessione straordinaria del Parlamento israeliano sulla lotta contro l’antisemitismo, l’autore ha constatato amaramente: «Mentre tutto il mondo esprime solidarietà verso di noi, noi diciamo: il mondo è tutto contro di noi». Ma il più grave degli effetti provocati dal culto della Shoah, sempre secondo l’autore, è d’ordine morale. Dominato dal ricordo dal genocidio, l’ebraismo sembra avere rinunciato al proprio umanesimo, alla propria missione universale, alla propria sensibilità per gli umili e gli oppressi, agli straordinari valori morali del suo pensiero filosofico e religioso.
Alcune di queste considerazioni sono già state fatte da altri e potranno sembrare potenzialmente antisemite. Ma l’autore del saggio
Sconfiggere Hitler (Neri Pozza Editore) si chiama Avraham Burg e fa parte dell’aristocrazia dello Stato d’Israele. La madre apparteneva a una vecchia famiglia sionista di Hebron ed era sopravvissuta ai massacri del 1929 grazie alla protezione di un vicino arabo. Il padre era un ebreo tedesco, Yossel Burg, che fu leader del sionismo religioso, professore universitario, ministro di gabinetto con David Ben Gurion all’epoca del processo Eichmann (il solo, insieme a Levi Eshkol, che votò contro l’esecuzione della condanna a morte), poi ministro degli Interni con Menachem Begin durante la prima guerra del Libano e infine direttore di musei.
La carriera pubblica di Avraham è stata brillante. Ha militato nel movimento pacifista «Peace Now» e nel Partito laburista, ha diretto l’Agenzia ebraica e l’Organizzazione mondiale sionista, è stato presidente della Knesset (il parlamento israeliano) dal 1999 al 2003. Quando il Dalai Lama visitò Israele e chiese di fargli visita, il ministero degli Esteri gli mandò un emissario per raccomandargli di non fare un gesto che avrebbe attirato sul governo di Gerusalemme le ire della Repubblica popolare cinese. Burg rispose seccamente che la visita avrebbe avuto luogo e mantenne l’impegno. Il suo libro è un continuo intreccio di ricordi familiari, annotazioni autobiografiche, lunghi compiacimenti introspettivi e acute analisi storiche. Le pagine politicamente più interessanti sono quelle in cui Burg s’interroga sulle ragioni dell’importanza che la Shoah ha assunto nella politica israeliana. All’origine del fenomeno vi sarebbe il processo Eichmann, nel 1960. Ben Gurion era stato infastidito da un processo precedente nel corso del quale erano stati polemicamente discussi i contatti che la dirigenza sionista, tramite l’Agenzia ebraica, aveva avviato con il regime nazista negli anni Trenta per facilitare la partenza dalla Germania di alcune decine di migliaia di ebrei tedeschi. Questi fatti, anche se noti a molti, avevano provocato un dibattito sulla «purezza» della causa sionista che aveva ferito lo stesso Ben Gurion. La cattura di Eichmann e il suo processo in Israele dovettero sembrare al fondatore dello Stato israeliano, secondo Burg, il modo migliore per reagire alle accuse, chiudere il dibattito, concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica israeliana sulla Shoah. Il risultato andò probabilmente al di là delle attese. Mentre «la morte di Eichmann — scrive Burg — avrebbe dovuto chiudere l’epoca della Shoah e aprire l’era del dopo Shoah (…), è avvenuto l’esatto contrario».
È una spiegazione interessante e plausibile. Ma esiste probabilmente un altro fattore, non meno importante. Gli anni Sessanta furono quelli in cui Israele divenne il partner privilegiato di Washington nella regione e la comunità ebraica negli Usa cominciò a esercitare una considerevole influenza sulla politica americana. In una delle sue pagine più critiche sugli ebrei d’America Burg scrive: «È molto difficile farsi eleggere contro la volontà dell’elettorato ebraico. Finanziamenti, organizzazione, sostegno pubblico e parimenti la legittimazione, nonché la capacità di nuocere ai candidati sgraditi, hanno reso la partecipazione ebraica alla vita politica americana un fattore di importanza strategica internazionale». Il libro di Burg ha irritato molti israeliani e, come osserva in una postfazione Elena Loewenthal, «potrà agevolmente far da sponda a chi non aspetta altro per negare, accusare». Ma è anche una dimostrazione di libertà, di coraggio, di spregiudicatezza, della capacità ebraica «di scardinare per costruire, di provocare per ispirare».

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