“Si tratta certamente di Intifada: questo è ciò che dovete sapere”

347920CMa’an.  Quando fu pubblicato il mio libro “Searching Jenin” subito dopo il massacro Israeliano nel campo profugo di Jenin nel 2002, fui più volte interrogato dai media e da molti lettori per aver utilizzato la parola “massacro” per raffigurare ciò che Israele aveva descritto come una battaglia legittima contro il campo base dei “terroristi”.

Le domande avevano lo scopo di spostare il racconto da una dibattito che riguardasse possibili crimini di guerra ad un conflitto tecnico che andasse oltre l’applicazione del linguaggio. Per loro, le prove della violazione da parte di Israele dei diritti umani poco importava. Questa sorta di semplificazione è spesso servita come preludio ad un qualsiasi dibattito circa il cosiddetto conflitto arabo-israeliano: gli eventi sono descritti e definiti utilizzando una terminologia che estremizza e che tiene poco conto dei fatti e del contesto, concentrandosi principalmente su percezioni ed interpretazioni.

Perciò, a questi stessi individui poco dovrebbe importare se quei giovani Palestinesi tra cui Isra’Abed, 28 anni, a cui è stato sparato più volte il 9 ottobre a Affula e Fadi Samir, 19 anni, ucciso dalla polizia israeliana qualche giorno prima, erano, in realtà, Palestinesi armati di coltelli che nell’intento di difendersi vennero colpiti dalla polizia. Persino quando emergono prove video che contrastano significativamente con la versione ufficiale degli Israeliani, come nella maggioranza dei casi, in cui le giovani vittime non rappresentavano una minaccia, la versione degli Israeliani sarà sempre accettata come fatto, da alcuni. Isra’, Fadi e gli altri sono dei “terroristi” che hanno messo in pericolo la sicurezza dei cittadini Israeliani e, ahimè, devono essere eliminati di conseguenza.

La stessa logica è stata utilizzata durante tutto il secolo scorso, quando le attuali cosiddette Forze di Difesa israeliane erano ancora operative come milizie armate e bande organizzate in Palestina, prima di essere etnicamente ripulita per diventare Israele. Da allora, questa logica è stata applicata in ogni possibile contesto in cui Israele si sia trovato, presumibilmente, obbligato ad usare la forza contro i “terroristi” Arabi e Palestinesi, potenziali “terroristi” con la loro “infrastruttura del terrore”.

Ma la questione non riguarda solo il tipo di armi utilizzate dai Palestinesi, se mai le usino. La violenza di Israele si riferisce, per lo più, alla percezione che hanno della propria realtà fatta su misura: ciò che fa di Israele un paese assediato, la cui intera esistenza è sotto costante minaccia da parte dei Palestinesi, sia che si astengano dall’utilizzo delle armi sia quando i bambini giocano sulla spiaggia di Gaza. Non c’è mai stata una deviazione dalla prassi nella storiografia del discorso ufficiale Israeliano che spiega, giustifica o celebra la morte di decina di migliaia di Palestinesi nel corso degli anni: gli Israeliani non sono mai colpevoli e non è riconosciuto nessun contesto in cui sia giustificato l’uso della violenza da parte dei Palestinesi.

Gran parte dell’attuale dibattito riguardante le proteste a Gerusalemme, in Cisgiordania e recentemente sulla striscia di Gaza, è incentrato sulle priorità di Israele, non sui diritti dei Palestinesi, che sono chiaramente compromessi. Ancora una volta Israele parla di “disordini” e di “attacchi” originati dai “terroristi”, come se la priorità fosse quella di garantire la sicurezza degli occupanti armati, siano essi soldati o colonizzatori estremisti.

Razionalmente, ne consegue che la condizione opposta al “disordine”, quella di “calma” e “quiete”, si avrà quando milioni di Palestinesi accetteranno di essere sottomessi, umiliati, occupati, assediati e regolarmente uccisi, o in qualche caso, linciati dalle folle di ebrei Israeliani o bruciati vivi, mentre abbracciano il loro miserabile destino e vanno avanti come di consueto.

Il ritorno alla “normalità” è, quindi, ovviamente ottenuto al caro prezzo di sangue e violenza, su cui Israele ha il monopolio, mentre le sue azioni vengono raramente messe in discussione, i Palestinesi si trovano, quindi, ad assumere il ruolo di vittime perpetue, ed i loro padroni Israeliani posso continuare a presidiare posti di blocco militari, sottrarre terre e costruire ulteriori insediamenti illegali in violazione del diritto internazionale.

La questione, oggi, non si dovrebbe porre sul fatto che i palestinesi uccisi fossero armati o meno di coltelli, o se costituissero realmente una minaccia per la sicurezza dei soldati e i colonizzatori armati. Dovrebbe, piuttosto, focalizzare la propria attenzione sui numerosi atti violenti di occupazione militare e di insediamenti illegali in terra Palestinese.

In quest’ ottica, dunque, detenere un coltello è, di fatto, un atto di auto difesa, dibattere sulla risposta sproporzionata di Israele alla “violenza” dei Palestinesi è del tutto discutibile.

Mettersi alle spalle al muro con definizioni tecniche è disumanizzante per l’esperienza comune dei Palestinesi.

“Quanti Palestinesi dovranno essere uccisi affinché si possa utilizzare il termine “massacro”? Fu questa la mia risposta a coloro che mettevano in discussione l’utilizzo che ne facevo del termine. In modo analogo, quanti dovrebbero essere uccisi, quante proteste dovranno essere attuate e per quanto a lungo prima che l’attuale “disordine”, “scontro o “conflitto” tra i manifestanti Palestinesi e l’esercito Israeliano diventi un “Intifada”?

E perché dovrebbe essere chiamata una “Terza Intifada”?

Mazin Quimsiyeh descrive ciò che sta succedendo in Palestina come la “14° Intifada”. Ne sa qualcosa in più, per essere l’autore del fantastico libro “Resistenza Popolare in Palestina: una storia di speranza e di emancipazione”. Tuttavia, io mi spingerei oltre e azzarderei l’ipotesi che ci siano state molte altre Intifada, se si utilizzano definizioni relative al discorso popolare palestinese. Intifada (il cui significato è “rivolta”) diventa tale quando le comunità Palestinesi si mobilitano in tutto il paese, unificandosi al di là di agende politiche e faziose e attuando prolungate campagne di protesta, disobbedienza civile ed altre forme di resistenza popolare.

Questo accade quando hanno raggiunto un punto di rottura, il cui processo non è dichiarato attraverso comunicati stampa o conferenze televisive ma è inespresso, eppure senza fine.

Alcuni, seppure benintenzionati, sostengono che i palestinesi non siano ancora pronti per una terza Intifada, come se le loro rivolte fossero un processo calcolato, perpetrato dopo numerose deliberazioni e contrattazioni strategiche. Nulla può essere più lontano dal vero.

Ne è un esempio il 1936: Intifada contro il colonialismo Britannico e Sionista in Palestina. Fu, inizialmente, organizzata da partiti Arabi- Palestinesi, che erano per lo più autorizzati dal governo stesso del Mandato britannico. Ma quando i Fellahin, i contadini poveri e privi di istruzione, cominciarono ad intuire che la loro leadership era cooptata, come accade oggi, agirono al di fuori dei confini della politica, dando il via e sostenendo una ribellione che durò tre anni.

I fellahin allora, come da sempre, pagarono le spese della violenza Britannica e Sionista, cadendo a frotte. I più sfortunati vennero catturati, torturati e uccisi: Farhan al-Sadi, Izz al-Din Qassam. Mohammed Jamjoom, Faud Hijazi sono tra i molti leader

Da allora, tali scenari si sono ripetuti costantemente e con ciascuna Intifada il prezzo pagato con il sangue sembra aumentare incessantemente. Tuttavia, ulteriori Intifada sono inevitabili, che durino una settimana, tre o sette anni, da quando le esperienze di ingiustizia collettiva subite dai Palestinesi rimangono il comun denominatore tra le successive generazioni di Fellahin ed i loro discendenti profughi.

Ciò a cui assistiamo oggi è un Intifada, ma è irrilevante assegnarle un numero, dal momento che la mobilitazione popolare non segue sempre la logica ordinata richiesta da alcuni di noi. La maggior parte di coloro che guidano l’attuale Intifada erano bambini o non erano neppure nati quando l’Intifada al-Aqsa iniziò nel 2000; certamente non erano in vita quando l’Intifada Stone esplose nel 1987. Infatti, molti potrebbero ignorare i dettagli dell’Intifada originale del 1936.

Questa generazione è cresciuta nell’oppressione, confinata e soggiogata, in totale conflitto con il fuorviante lessico di “processo di pace” che ha prolungato uno strano paradosso tra realtà e fantasia. Manifestano perché subiscono quotidianamente umiliazioni e devono sopportare l’ostinata violenza ed occupazione.

Avvertono, inoltre, un totale senso di tradimento da parte della loro leadership, che è corrotta e cooptata. Dunque, si ribellano e tentano di mobilitare e sostenere la loro ribellione più a lungo possibile, perché non hanno nessun orizzonte di speranza al di là delle proprie azioni.

Non rimaniamo invischiati in dettagli, definizioni e numeri auto-imposti. Si tratta di un’Intifada Palestinese, sebbene finisca oggi. Ciò che davvero conta è il modo in cui rispondiamo alle implorazioni di questa generazione oppressa; continueremo quindi ad attribuire maggior importanza alla sicurezza degli occupanti armati piuttosto che ai diritti di una nazione oppressa?

Ramzy Baroud è un editorialista noto a livello internazionale, autore e fondatore del PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro si intitola “Mio padre era un combattente per la libertà: storia non raccontata di Gaza”.

Traduzione di Alice Gavazza