Solo i morti israeliani contano: il fallimento di Israele nelle indagini condotte sulle sue guerre sanguinose

335168CDi Ramzy Baroud. A prima vista, Israele sembra veramente una democrazia. Ma guardando meglio da vicino, quella facciata di democrazia sparisce ben presto, trasformandosi in qualcos’altro di completamente diverso. 

Martedì 28 febbraio è stata una di queste occasioni. Il succedersi degli eventi è stato il seguente. 

Un sovrintendente dello stato israeliano ha pubblicato un nuovo rapporto sulla gestione, da parte del governo, della guerra contro Gaza del luglio 2014; ha “tirato le orecchie” al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e all’allora ministro della difesa Moshe Yaalon – tra gli altri – per la mancanza di preparazione e per la cattiva gestione del conflitto durato 50 giorni; Netanyahu ha reagito rabbiosamente; Yaalon ha utilizzato Facebook per difendersi; l’opposizione presente nella Knesset (il parlamento israeliano) è passata all’offensiva; politici allineati, che prendono le parti dell’uno o dell’altro; il tutto seguito con frenesia dai media; nel paese si è diffuso un certo frastuono. 

E non è l’unico precedente. Si tratta della ripetizione di uno scenario ricorrente che fa spesso seguito ai saccheggi dei militari israeliani. 

Quando tali rapporti vengono pubblicati, gli israeliani tirano fuori e rendono pubbliche le loro divergenze, in feroci battaglie parlamentari e mediatiche. 

Mentre gli israeliani analizzano i loro fallimenti, esigendo la presa di responsabilità da parte del loro governo, i più importanti media occidentali colgono l’occasione per cancellare la possibilità di una qualsiasi critica contro uno dei furiosi attacchi dei militari di Israele, avvenuto in quel dato momento. 

(Più di 2.200 persone furono uccise – delle quali oltre il 70% erano civili palestinesi – ed altre migliaia furono ferite nella cosiddetta “Operazione Scudo Protettivo” israeliana del 2014). 

Secondo la logica dei media statunitensi, ad esempio, le indagini compiute da Israele sulle sue stesse azioni è un tributo e una prova della sua fiorente democrazia, spesso presentata in contrapposizione alla mancanza di auto-critica dei governi arabi. 

Quando Israele invase il Libano nel 1982, provocando una guerra che portò alla morte di decine di migliaia di libanesi e palestinesi, e culminata nei massacri di Sabra e Chatila, ne risultò uno scenario purtroppo già familiare: gli Stati Uniti si adoperarono al meglio per prevenire qualsiasi intervento internazionale o inchieste di un certo rilievo, mentre fu permesso ad Israele di investigare se stesso. 

L’esito fu il Rapporto della Commissione Kahan, la conclusione del quale fu riassunta da un esperto del diritto internazionale, il Prof. Richard Falk, nel modo seguente: “La schiacciante vittoria israeliana è piuttosto la sua rivendicazione, nonostante tutto, di una forza morale nella regione – di uno stato superiore, soprattutto se paragonato ai suoi rivali arabi”. 

I media statunitensi hanno propagandato la “vittoria morale” di Israele che, in qualche modo, ha reso tutto perfetto e che, con una bacchetta magica, ha cancellato tutto quel che c’era di sporco nel suo passato. 

L’editoriale del Washington Post ha guidato il coro delle congratulazioni: “L’intero processo della reazione israeliana al massacro di Beirut è un tributo alla vitalità della democrazia in Israele e al carattere morale del paese”. 

Questo pietoso stato di cose si è costantemente ripetuto per circa settant’anni, cioé da quando Israele ha dichiarato la propria indipendenza nel 1948.

Le leggi internazionali sono molto chiare per quel che riguarda la responsabilità legale delle potenze occupanti, ma da quando Israele si è dimostrato poco appassionato del diritto internazionale, ha anche vietato ogni tentativo di essere indagato per le sue azioni. 

Infatti, Israele detesta l’idea stessa di essere “indagato”. Qualsiasi tentativo delle Nazioni Unite, o di qualsiasi altra organizzazione dedita a sostenere il diritto internazionale, è stato respinto o è fallito. 

Secondo la logica israeliana, Israele è una democrazia ed i paesi democratici non possono essere investigati sul coinvolgimento dei loro eserciti nella morte di civili. 

Questo è stato, in effetti, il senso della dichiarazione emanata dall’ufficio di Netanyahu nel giugno del 2010, subito dopo che reparti dell’esercito israeliano avevano intercettato una flotilla di aiuti umanitari che si stava dirigendo verso Gaza, uccidendo dieci attivisti disarmati in acque internazionali. 

Israele è una potenza occupante sotto legge internazionale ed è considerata responsabile secondo la Quarta Convenzione di Ginevra. La comunità internazionale è legalmente obbligata ad esaminare la condotta di Israele contro i civili palestinesi e a maggior ragione, non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, contro i civili disarmati in acque internazionali. 

L’archivio israeliano delle inchieste effettuate su se stesso, oltre a servire per elogiare la superiorità morale di Israele, non è mai stato di nessun aiuto ai Palestinesi. 

In effetti, l’intero sistema giudiziario israeliano risulta sistematicamente ingiusto nei confronti dei Palestinesi. 

L’associazione israeliana per i diritti Yesh Din ha documentato che delle “186 inchieste avviate nel 2015 per i crimini commessi dall’esercito israeliano per reati commessi contro Palestinesi, soltanto quattro hanno portato ad incriminazioni”. Queste incriminazioni raramente arrivano ad infliggere pene detentive. 

La recente incriminazione del medico dell’esercito israeliano Elor Azarya, che è stato condannato a 18 mesi di carcere (ora rinviati) per l’uccisione a sangue freddo di un presunto aggressore palestinese, è una eccezione, non la norma. Sono trascorsi parecchi anni da quando un soldato israeliano fu condannato. Infatti, molte migliaia di civili palestinesi sono stati uccisi tra l’ultima incriminazione per “omicidio colposo” di un soldato israeliano, avvenuta nel 2005, e la sentenza di Azarya. 

Azarya, considerato ora un eroe da molti israeliani, ha ricevuto una punizione talmente lieve che è addirittura minore rispetto a quella di un bambino palestinese che lanci pietre contro un militare israeliano occupante. 

Alcuni funzionari delle Nazioni Unite, nonostante non abbiano alcun potere davanti all’appoggio incondizionato che gli USA forniscono ad Israele, sono veramente furiosi. 

Il verdetto di 18 mesi “è in contrasto anche con le sentenze emesse da altri tribunali israeliani per reati molto meno gravi, in particolare le sentenze contro bambini palestinesi a più di tre anni di carcere per aver lanciato pietre contro delle auto”, ha dichiarato la portavoce per i diritti umani dell’ONU Ravina Shamdasani in risposta alla decisione del tribunale israeliano. 

Mentre gli attivisti dei social media e gli esperti mediatici pro-Israele hanno continuato a lodare la democrazia israeliana, apparentemente senza eguali, in Israele la campagna perché Azarya venga graziato continua a raccogliere adesioni. Netanyahu ha, ovviamente, già aderito. 

Non solo il sistema giudiziario israeliano è profondamente ingiusto nei confronti dei Palestinesi, ma non era destinato e diventare così. Una lettura attenta dei recenti commenti ed osservazioni del sovrintendente potrebbe chiarire che il vero intento non è mai stato quello di analizzare una guerra compiuta contro una nazione assediata come concezione morale, ma l’inabilità del governo di vincere la guerra in maniera più efficace: la distruzione dell’intelligenza; la mancanza di inclusione politica da parte di Netanyahu; la morte di una quantità senza precedenti di militari israeliani. 

Infatti, l’appetito di Israele per la guerra è ad un livello superiore. Alcuni commentatori sostengono che Israele potrebbe lanciare ancora un’altra guerra in modo da correggere gli “errori” di quella precedente, come riportato nel rapporto. 

Ma la guerra di per se stessa è una necessità per Israele. La reazione forte del giornalista israeliano Gideon Levy al rapporto pubblicato lo spiega ancor meglio. Egli sostiene che la relazione è quasi una copia plagiata del “Rapporto della Commissione di Winograd” che fu stilato alla fine della seconda guerra contro il Libano, nel 2006. 

Tutte le guerre, a partire dal 1948, “avrebbero potuto essere evitate”, ha scritto Levy su Haaretz. Ma invece no, perché chiaramente “Israele ama le guerre. Ne ha bisogno. Non fa niente per prevenirle e, a volte, le istiga”. 

Questo è l’unico modo nel quale si può leggere l’ultimo rapporto, ma anche tutti gli altri rapporti, quando la guerra viene utilizzata come strumento di controllo, per “degradare” le difese di un nemico già assediato, per creare distrazione dalla corruzione politica, per aiutare i politici ad avere il supporto popolare, per giocare, di volta in volta, il ruolo della vittima involontaria, e molti altri pretesti. 

Quanto ai Palestinesi, che non sono nemmeno capaci di istigare o sostenere una guerra, loro possono soltanto lanciare un’offensiva, reale o simbolica, ogni volta che Israele decide di cominciare ancora un’altra guerra sanguinosa ed evitabile. 

Non importa il risultato, Israele si vanterà della propria supremazia militare, intelligenza senza eguali, democrazia trasparente e predominio morale; gli USA, la Gran Bretagna, la Francia e gli altri paesi europei concorderanno entusiasticamente, con Israele che emetterà un altro assegno in bianco per “difendere se stessa” con ogni mezzo. 

Nel frattempo, qualsiasi tentativo condotto per indagare Israele sarà ostacolato, poiché Israele è una “democrazia” e, per qualche ragione, le democrazie auto-proclamate non possono essere indagate. E soltanto le loro finte inchieste contano qualcosa, soltanto i loro morti contano.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi