Storie da Gaza: “I soldati risposero alle sue urla ridendo, e poi spararono ancora”

Gaza – Pchr. Per la quindicenne Omsiyat Kamal ‘Awaja, e per molti altri bambini palestinesi, la Giornata palestinese dell’infanzia, celebrata il 5 aprile, è un giorno segnato da sofferenza e perdite intollerabili: come tutti gli altri giorni. Non è possibile conoscere il numero di bambini che hanno direttamente subito perdite familiari, nella Striscia di Gaza. Dallo scoppio dell’Intifada al-Aqsa, il 28 settembre 2000, il Pchr ha documentato, nella Striscia di Gaza, l’uccisione di 958 bambini palestinesi e il ferimento di altri 6355. 313 ne sono stati uccisi durante l’Operazione Piombo Fuso (2008-09), e 35 hanno perso la vita nel corso dell’Operazione Colonna di Nuvole (novembre 2012). Il Pchr ha inoltre documentato le tragiche conseguenze sofferte dall’infanzia palestinese per la distruzione di abitazioni e per la negazione del diritto a un rifugio.

Una piccola casa di fango con un cortiletto davanti, pile di pentole e utensili da cucina sparsi qua e là, libri appoggiati alle pareti: questa è l’abitazione attuale di Osmiyat, che a stento riesce ad accogliere tutta la famiglia. E’ stata costruita dall’Unrwa come alternativa temporanea alla casa della famiglia ‘Awaja, distrutta dalle forze israeliane nel 2009 durante l’Operazione Piombo Fuso.

“Prima di venire qui abbiamo vissuto per circa due anni in una tenda, rendendoci conto esattamente di cosa significa essere degli sfollati. Non ci siamo mai abituati, in quei due anni, a vivere in tenda. Prima abitavamo in una grande casa dove avevamo quasi tutto il necessario”.

Il 4 gennaio 2009 le forze israeliane distrussero l’edificio della famiglia ‘Awaja, a Beit Lahia, senza alcun preavviso. Gli inquilini fuggirono su un terreno vicino, e le ruspe israeliane iniziarono la demolizione. A casa distrutta la madre di Omsiyat, Wafaa’, 36 anni, raccolse il salvabile dalle macerie, aiutata da tre dei suoi figli, Diaa, Sohbi e Ibrahim, tutti minori di 13 anni.

Osmiyat ricorda: “Mio fratello Ibrahim fu il primo ad essere ferito, venne colpito alla vita. Mia madre gridò e mio padre corse a prenderlo. Uscirono da quel che restava di casa nostra, mio padre gridava: ‘Mio figlio è ferito, abbiamo bisogno di un’ambulanza’. I militari israeliani, che erano ancora in zona, risposero ridendo e aprirono nuovamente il fuoco, ferendo entrambi i miei genitori. Mio padre e mio fratello Ibrahim rimasero distesi in strada. Mia madre raggiunse strisciando me e i miei fratelli, dietro un muro dove ci stavamo riparando. Quindi vedemmo un soldato israeliano avvicinarsi a Ibrahim e a mio padre, e sparare a nostro fratello. Più tardi nostro padre ci disse che Ibrahim era morto”.

Più di 4 anni dopo Omsiyat si sente ancora in colpa per l’accaduto. Nonostante fosse allora molto giovane, si sente in colpa per la morte del fratello, per non aver fatto nulla per aiutarlo. “Quando i miei genitori e mio fratello Ibrahim sono stati feriti, io me ne restai lì, incapace di fare nulla, nonostante sia la maggiore dei miei fratelli. Non dimentico ciò che accadde, e sento tanto dolore quando mi ricordo di non aver fatto nulla per venire in soccorso. L’idea che il mio aiuto sarebbe potuto servire, in qualche modo, a salvare mio fratello, non mi abbandona mai, e mi fa venire il mal di stomaco. Se avessi provato a spingere Ibrahim fuori dal fuoco israeliano, forse sarebbe ancora vivo”.

Omsiyat ha sofferto molto per ciò che è successo alla sua famiglia. Suo padre, Kamal, 51 anni, racconta: “ Ci è costato molto adattarci alle nuove condizioni di vita in tenda, e poi nella casa di fango: non si può paragonare la casa in cui abitavamo prima e quel che riuscivo a offrire ai miei figli a ciò che abbiamo adesso. Mio figlio è stato assassinato, la mia casa distrutta, e io non sono più in grado nemmeno di offrire un’abitazione alla mia famiglia. I giorni passano senza un senso, ci sentiamo così. Non ci può giovare nemmeno la psicoterapia. I miei figli, mia moglie ed io condividiamo un indescrivibile senso di oppressione”.

Omsiyat descrive come suo padre abbia fatto il suo meglio per rendere accogliente l’ambiente in cui vivono: “Papà installò una rete internet nella tenda in cui abbiamo vissuto, ci comprò un computer e sostituì la maggior parte dei dispositivi elettronici che avevamo a casa. Non ha potuto costruire una nuova casa perché non abbiamo i soldi. L’Unrwa ci ha fornito questa abitazione temporanea, e recentemente ci hanno fatto sapere di volerla demolire per costruire al suo posto una nuova casa definitiva. Ci stiamo preparando a ritornare in una tenda, e l’idea non mi disturba: rispetto al posto in cui viviamo ora una tenda sembra un lusso”.

Omsiyat amava disegnare paesaggi, ma oggi disegna solo scene di morte e distruzione. “Non vedo bellezza intorno a me. Disegno solo aerei da guerra, carri armati e funerali. Una volta disegnavo fiori, alberi e farfalle: ora se ho l’intenzione di disegnare un fiore, automaticamente disegno un carro armato, o una tenda, o una casa distrutta”.

La storia di Omsiyat è pubblicata in un recente rapporto del Pchr, “Il meglio deve ancora arrivare”, che raccoglie le storie di altri 14 bambini della Striscia di Gaza che hanno vissuto lutti, che sono stati feriti o i cui cari sono stati feriti, che hanno avuto la casa distrutta o che sono stati separati dal padre, detenuto per lunghi anni nelle carceri israeliane. Il rapporto è stato finanziato dall’Unicef.

I bambini palestinesi sono un soggetto particolarmente vulnerabile, e sono coloro che maggiormente subiscono le violazioni delle forze israeliane in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, che continuano dal 1967. Il diritto umanitario internazionale accorda all’infanzia due forme di protezione: innanzitutto la protezione generica dovuta a persone non combattenti, e poi una protezione speciale in quanto gruppo particolarmente vulnerabile in tempo di guerra o di conflitto armato (1).

In virtù del principio di distinzione, le parti in conflitto devono sempre distinguere i combattenti dai civili, e gli obiettivi militari da quelli civili. Le violazioni di tale principio costituiscono crimine di guerra, come definito, tra gli altri, negli articoli 8 (2)(b)(i), e (ii) dello Statuto del Tribunale criminale internazionale (2). A seconda della portata degli attacchi, e considerato se essi sono parte di un piano o di una linea politica, si può anche parlare di omicidio intenzionale, che vìola seriamente le Convenzioni di Ginevra (3).

Oltre a ciò, il diritto umanitario internazionale pretende la proporzionalità delle aggressioni. Un attacco che possa causare perdite accidentali della vita dei civili, ferire i civili, danneggiare proprietà civili o una combinazione di tali possibilità, risulterebbe eccessivo rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto. Inoltre, ai sensi del principio di precauzione, il diritto umanitario internazionale consuetudinario richiede che vadano prese tutte le misure precauzionali possibili al fine di evitare, o almeno minimizzare, le perdite accidentali di civili, il ferimento di civili o il danno a proprietà civili (4).

  1. Special requirements for the treatment of children in times of armed conflict are outlined in the Fourth Geneva Convention Relating to the Protection of Civilian Persons in Times of War, Articles 14, 17, 23, 24, 38, 50, 82, 89, 94, and 132; Additional Protocol I to the Fourth Geneva Convention Relating to the Protection of Civilian Persons in Times of War, Article 77.
  1. UN General Assembly, Rome Statute of the International Criminal Court (last amended 2010), 17 July 1998, Articles 8(2)(b)(i), and (ii).
  2. Fourth Geneva Convention Relating to the Protection of Civilian Persons in Times of War, Article 146.
  3. Additional Protocol I to the Fourth Geneva Convention Relating to the Protection of Civilian Persons in Times of War, Article 57.

 

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice