Viaggio tra i campi profughi palestinesi nel Libano: cittadini di serie zero

Di Angela Lano, da Beirut. 

Sono 400 mila i profughi palestinesi che vivono in Libano, generazione dopo generazione, da sessant’anni.

Sono sparsi in 12 campi profughi ufficiali e 25 clandestini. Non hanno diritti, né cittadinanza, non possono esercitare una lunga lista di professioni, hanno scarsi mezzi per curarsi e per studiare, sono spesso il capro espiatorio delle tensioni e dei conflitti interni libanesi e sono uno degli obiettivi privilegiati dei piani di destabilizzazione dei governi israeliani e statunitensi. I palestinesi, anche in Libano, sono le vittime sacrificali del progetto americano di un “Nuovo Medio Oriente”.  

Mercoledì 8 dicembre. Iniziamo (*) il nostro viaggio tra i rifugiati palestinesi in Libano  con la visita al campo profughi di Mar Elyas, a Beirut: è il “centro” della vita politica palestinese, in quanto è sede delle rappresentanze di tutti i partiti.

Ci riceve il leader locale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Marwan Abdel ‘Aal, e ci parla della difficile condizione di vita dei suoi connazionali in Libano: “La situazione sta peggiorando, sia socialmente sia a livello lavorativo e scolastico. Il rispetto dei nostri diritti qui è molto scarso. Una volta l’Olp si occupava dei profughi, ma ora se ne è disinteressata.

“Noi qui siamo il punto più debole delle leggi libanesi, che ci escludono da tutto, anche dalla possibilità di ottenere la cittadinanza”.

‘Aal viene dal campo profughi di Nahr al-Bared, centro della guerra civile del 2007: “Siamo stati strumentalizzati, siamo stati noi l’oggetto della guerra, scatenata da forze più grandi di quelle dello stesso Libano. C’è stata e c’è tuttora una volontà di destabilizzazione del Paese. Tali fenomeni, infatti, sono fomentati da ‘fuori’ attraverso elementi che si infiltrano all’interno di certe realtà. L’obiettivo di quel conflitto all’interno del campo di Nahr el-Bared era di far scoccare la scintilla della rivolta in tutti gli altri campi. I palestinesi dovevano essere usati per creare tensioni in Libano. Il risultato è che 40 mila persone sono state sfollate e sistemate in strutture provvisorie. Una tragedia nella tragedia”.

Usciamo dall’ufficio del Fplp e giriamo per i vicoli del campo: un labirinto di case, cortili, magazzini, uno addossato sull’altro, e sviluppato in verticale, a causa del divieto di edificare nuove abitazioni. La mancanza delle più basilari condizioni di igiene e sicurezza sono evidenti a tutti.

Ci dirigiamo verso la casa di Mohammad, uno dei 5000 palestinesi senza documenti, cioè, persone che per il governo libanese “non esistono”. Si tratta di una sorta di “clandestini”, anche se risiedono nel Paese da decenni. Non hanno documenti e quindi appena lasciano il campo sono arrestati. Sono la categoria più bassa della già tragica scala umana del profugo.

“Sono di Yafa (la Giaffa dell’occupazione israeliana, ndr) – ci racconta Mohammad – e, dopo la Nakba, con la famiglia mi sono rifugiato in Giordania, dove sono stato registrato come profugo. Sono andato in Libano a studiare, a metà degli anni ’70. Nel 1982, durante l’invasione sionista, ho abbracciato la resistenza: è questa la mia colpa, che pago con la mancanza di un qualsiasi documento che attesti la mia residenza e identità. Avevo un passaporto giordano, che non mi è stato più rinnovato.

“Nel 1983 mi sono sposato e ho avuto cinque figli che avevano bisogno di certificati anagrafici per poter frequentare le scuole, viaggiare, lavorare.

“Nel 2008 mi era stato detto che c’era la possibilità di regolarizzare me e tutti i miei familiari, così mi sono presentato per richiedere finalmente i documenti, ma mi hanno arrestato in quanto ‘clandestino’.

“Ai miei figli hanno dato permessi provvisori, di un anno, che non permettono loro di fare nulla. Uno di loro, che si trovava negli Emirati Arabi con visto scaduto, è stato fermato in aeroporto prima di partire per il Libano, e trattenuto lì dentro per otto mesi. È stato rilasciato a seguito di pressioni internazionali, e poi, appena ha potuto, se n’è andato Norvegia, dove ha chiesto asilo politico.

“Le autorità libanesi rifiutano intenzionalmente di trovare soluzioni al caso dei 5000 palestinesi senza documenti. Sanno bene che se vengono respinti alla frontiera, nessuno stato arabo li accoglierà, e che non possono tornare in patria, in Palestina”.

Mohammad ci spiega che esistono tre categorie di profughi: quelli registrati dall’Onu, nel ’49; quelli non registrati; i senza documenti. I primi sono in possesso di documenti libanesi che hanno validità di tre o cinque anni; i secondi hanno documenti (con scadenza annuale), ma non risultano nell’elenco dei profughi; gli ultimi sono persone inesistenti per il governo del Libano. Sono, cioè, gli ultimi tra gli ultimi.

(*) Dal 7 al 10 dicembre 2010, l'Abspp – Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese -, ha organizzato una delegazione italiana in Libano.

Erano presidenti Mohammad Hannoun, Api – Associazione palestinesi in Italia; Angela Lano, giornalista e direttore agenzia stampa InfoPal; Hamza Piccardo, editore e scrittore; Giovanni Sorbello, attivista umanitario; Dario Rossi, avvocato “Giuristi democratici”.

(segue…)

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