43 anni all’attivo: una rivisitazione della guerra del 1967

Palestine-info.
di Khalid Amayreh.

Prima parte.

Durante il periodo in cui governarono sulla Palestina, ciò che contava di più per le autorità giordane era la fedeltà al re e alla famiglia hascemita.

Il re era una sorta di “Dio sceso in terra”; media, forze di sicurezza, popolazione e l'intero Paese orbitavano attorno alla sua figura.

Era usuale sentir dire che la Giordania fosse un re con un Paese piuttosto che il contrario.

Intrattenere rapporti con il re o con i mukhabarat (servizi d'intelligence) avrebbe automaticamente garantito posizioni di privilegio.

Gridare lo slogan “Ya'ish Jalalat al-Malik” (Lunga vita al re) avrebbe invece, assicurato un certificato di buona condotta.

Non sorprende insomma che si trattava di un regime basato su adulazione, favoritismo e nepotismo.

Il regime giordano non fece mai nulla di serio per respingere le frequenti incursioni e raid israeliani contro i centri palestinesi in Cisgiordania, lasciati da soli a liberare la Palestina occupata.

Non a caso, alla fine degli anni Quaranta, il Comandante dell'esercito giordano era un ufficiale britannico di nome John Bagot Glubb, al quale palestinesi e giordani (questi ultimi risiedevano ad est del fiume Giordano) diedero il 'titolo onorifico' di Glubb Pascià.

Chi mai potrebbe credere che un ufficiale britannico potesse avere un qualche interesse a combattere gli ebrei per conto degli arabi?

Certo, non intendo qui dire che l'esercito giordano non fece nulla durante la guerra del 1948. Tutt'altro.

Il maresciallo Habes al-Majali ad esempio, decimò le forze ebraiche a Bab al-Wad, ad ovest di Gerusalemme, fino a quando i suoi superiori britannici non gli lanciarono un avvertimento, quello di “fermarsi”.

Giordani e palestinesi furono fieri di avere un ufficiale arabo che finalmente avrebbe dato una bella lezione agli ebrei, capace di restituire la dignità che gli arabi avevano perduto nelle battaglie precedenti.

A Karak, città originaria di al-Majal, i beduini avrebbero cantato in suo onore la Dehyyeh – il loro canto tradizionale ritmato – così: “Sariyeh Qayedha Habes, Teheshel Akhdar welyabes”, un plotone guidato da Habes distruggerebbe ogni cosa troverebbe dinnanzi a sé.

La strategia giordana per assicurare sicurezza, sopravvivenza e continuità perpetue al regime era in testa all'agenda.

Con l'emergere del problema palestinese, la priorità per il regime era assicurare che, nessun palestinese o giordano fosse una minaccia per la sopravvivenza, sicurezza e stabilità della monarchia hascemita.

Se un palestinese fosse stato trovato in possesso anche solo di una cartuccia, sarebbe stato condannato a sei mesi di prigione.

Come avrebbero fatto in seguito anche gli israeliani, i giordani si preoccuparono di reclutare i 'makhatir' (capi clan) per fornire informazioni su ogni mossa o attività dell'opposizione o su qualunque disapprovazione verso il governo hascemita nella propria area di influenza.

Simili scelte crearono un'atmosfera di 'stato di polizia' in tutto il paese.

Quei palestinesi emancipati e disinibiti dal far sentire la voce della propria coscienza, erano perseguiti per legge e scaraventati nella famosa prigione al-Jafr, nell'est del Paese, dove si praticava la tortura, spesso fino alla morte.

Personalmente, ho sentito molte storie di palestinesi della mia stessa città che trovarono la morte a causa della propria affiliazione al Partito Comunista.

Con il beneplacito di Stati Uniti e Gran Bretagna, la tortura è una pratica ancora in voga in Giordania, questo si sa.

Coloro che sono 'sospettati di terrorismo', detenuti dalla CIA, sono trasferiti in segreto in Giordania per essere sottoposti ai “più clementi” interrogatori degli ufficiali giordani.

A metà degli anni Cinquanta, le forze di sicurezza giordane assassinarono diversi manifestanti che accusavano le politiche del governo giordane, perché influenzate dall'Occidente, e l'incapacità del regime a porre fine ai frequenti attacchi israeliani.

Coloro che furono interrogati sull'accaduto, i sostenitori del partito Ba'ath e di quello comunista, erano la maggioranza, perché considerati sovversivi per eccellenza della monarchia.

Per contrastare quelle correnti, in particolare quelle della Cisgiordania, il Re Hussein agevolò e permise alla Fratellanza Musulmana di operare in libertà.

Divide et impera

Con questa tattica, i comunisti avrebbero accusato la Fratellanza Musulmana di agire per conto dei britannici, mentre i musulmani avrebbero criticano la laicità dei primi.

I rapporti tra Hussein e i Fratelli Musulmani furono, più o meno, stabili fino a che il Re non morì.

Nel suo ultimo anno di vita introdusse la legge “un uomo, un voto” nel tentativo di ridurre al minimo il numero dei seggi parlamentari a disposizione per gli islamisti in caso di una loro vittoria.

Al di là di come andarono poi le cose in parlamento, la Fratellanza Musulmana o il Fronte di Azione Islamico restò il partito d'opposizione più forte, e questo nonostante le continue intimidazioni da parte del governo.

I Fratelli Musulmani non erano agenti dei britannici e di nessun altro potere. Miravano all'istituzione di uno stato islamico fondato sulla Shari'a, o legge religiosa.

In altre parole strategia ed obiettivi degli islamisti erano diametralmente incompatibili con quelli di comunisti e ba'athisti.

Tuttavia, bisogna ammettere che il regime giordano non fu mai minaccioso con i suoi cittadini al pari di altri regimi arabi.

Di norma, oltre alle questioni di politica e di sicurezza, il principio di legalità veniva rispettato e le dignità individuali venivano riconosciute fino a quando non si fossero sollevate critiche o non si fosse messa in pericolo la 'sicurezza del regime'.

Il Re Hussein fu un leader astuto.

Non fu vendicativo nemmeno con i suoi oppositori politici o contro chi ne pianificava l'assassinio.

Concesse il perdono in quasi tutti i casi, dimostrando di essere magnanimo, e in questo fu l'unico uomo coraggioso nella storia moderna dei Paesi arabi.

Pur restando un regime autoritario e dispotico, la Giordania non fece nulla in confronto alle persecuzioni alle quali, a partire dal 1967, fummo sottoposti dai nazi-israeliani.

I giordani non demolirono mai le nostre case, non devastarono le nostre campagne, o arrestarono qualunque palestinese detenendolo per anni senza accusa o processo come invece fa Israele.

Certo, chi 'contravveniva alla legge' finiva arrestato, processato e spesso torturato, ma non ci sarebbe stata alcuna ripercussione sulle sue famiglie. Abitazioni, campagne e proprietà non sarebbero stati rasi al suolo come fa Israele.

La Giordania ci riconobbe piena cittadinanza, almeno fino alla rescissione di ogni legame legale ed amministrativo decisa dal Re Hussein nel 1988.

L'eccezione è rappresentata dal “Settembre Nero”, quando l'esercito giordano affrontò i militanti dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) perché sospettati di voler rovesciare il regime.

Atrocità e morte per molti palestinesi e giordani.

Gli 'eventi di Settembre' possono essere considerati come una dolorosa anomalia o un triste capitolo nelle relazioni tra il Re Hussein e i palestinesi.

Possiamo affermare che il paragone tra l'occupazione nazista di Israele ed il periodo amministrato dai giordani non regga. I giordani non erano dei veri occupanti e mai si comportarono come tali.

Sotto molti aspetti, il Re fu anche il nostro Re, e la Giordana era anche il nostro regno.

Il regime fu generalmente repressivo ed autoritario, ma non può essere comparato alle barbarie e alla selvaggia realtà che è Israele.

La Giordania era (come è ancora oggi) un regno debole economicamente, politicamente e soprattutto militarmente.

Era consueto che l'esercito israeliano compisse dei raid oltre la frontiera in Cisgiordania prima del 1967, assassinando palestinesi innocenti. L'esercito giordano era troppo debole e mal equipaggiato per rispondere alle incursioni israeliane.

Il Re Hussein dovette pensare che mantenere un modus vivendi equilibrato con Israele, soprattutto per vie segrete, sarebbe stata la miglior garanzia per conservare il proprio potere e assicurarlo ai suoi successori hascemiti.

Credo che si sbagliasse.

La sua non ostilità verso Israele non ha impedito allo Stato ebraico di perseguire le sue politiche aggressive, culminate nel 1967 con l'occupazione della Cisgiordania.  Il Re Hussein ebbe intensi rapporti con Israele ben prima di quell'anno.

Ad esempio, il 24 settembre 1963, il direttore generale dell'ufficio del primo ministro israeliano, Yaacov Herzog, incontrò il Re a Londra, nella clinica del fisico ebreo Emmanuel Herbert.

Un altro incontro ebbe luogo a Parigi nel 1965 con Golda Meir, accompagnata da Chaim Herzog, e si suppone che il Re avesse altre relazioni con lo Stato israeliano attraverso l'ufficio studentesco dell'Università di Boston.

L'occupazione

Già prima del 1967, l'esercito israeliano attaccava la Cisgiordania con incursioni quotidiane, devastando case di una popolazione povera e assassinando civili, più o meno come fa oggi Israele in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Libano.

È vivido nella mia memoria il ricordo di quando carri armati e aerei da guerra israeliani attaccarono, nel 1966, la piccola città di Sammou', 25 km a sud ovest di Dura, distruggendo quasi tutte le case e assassinando numerosi cittadini palestinesi.

Nel giugno del 1967 avevo dieci anni e ricordo molto bene quando ci fu ordinato alzare bandiera bianca davanti all'esercito israeliano che circondò il nostro piccolo villaggio, Khorsa, 15 km a sud ovest di al-Khalil (Hebron).

Se non lo avessimo fatto, ci avrebbero sparato, ci dissero.

I soldati giordani sconfitti si diressero a est, qualcuno vestito da donna per camuffarsi, mentre Re Hussein, tramite Radio Amman, ci lanciava un appello: “Affrontiamo gli israeliani con le nostre unghie e con i nostri denti”.

“Unghie e denti per sconfiggere Israele!?!”

In tutta onestà, gli eserciti arabi non combatterono mai realmente gli israeliani.

Questi eserciti in fondo riflettevano il basso livello politico e morale, la decadenza ideologica e lo stato di bancarotta che caratterizzano gran parte dei regimi arabi contemporanei.

Mantenere in vita il regime restava la priorità delle elite dominanti del tempo.

Nonostante tanta retorica, combattere Israele e liberare la Palestina non faceva parte di quella priorità.

È interessante notare come oggi gli affari pubblici siano gli stessi di quaranta anni fa, dopo la grande disfatta araba della storia moderna.

Per anni, Israele ed alleati hanno sostenuto che nel 1967 furono gli arabi ad attaccare Israele e che quella dello Stato ebraico fu una risposta per la sua difesa e sopravvivenza.

Senza dubbio, si tratta di una grande menzogna, come in seguito hanno avuto modo di ammettere gli stessi leader israeliani.

In un'intervista rilasciata ad “Haaretz” nel 1972, il presidente israeliano Weizmann (che fu anche comandante dell'aviazione israeliana) ammise: “Non esisteva alcuna minaccia reale di distruzione… l'attacco contro Egitto e Siria riuscì comunque ad essere giustificato, ed oggi Israele può esistere in equilibrio”.

Noam Chomsky, nel suo libro “Il triangolo fatidico” (The Fateful Triangle), cita le parole del noto 'falco' israeliano, il primo ministro Menachem Begin: “Nel 1967 fummo di nuovo di fronte ad una scelta. La presenza dell'esercito egiziano nel deserto del Sinai non era la prova che Nasser fosse realmente intenzionato ad attaccarci. Bisogna ammetterlo. Abbiamo deciso noi di attaccare”.

Yitzhak Rabin, un altro Primo ministro della storia di Israele definì la “minaccia egiziana” a modo suo: “Non credo che Nasser volesse la guerra. Le due divisioni che decise di posizionare nel Sinai non sarebbero state sufficienti per una guerra offensiva da parte egiziana. Lo sapeva lui e lo sapevamo anche noi”.

Con questo non bisogna credere che gli arabi, in particolare Egitto e Siria, non fecero abbastanza per rovinare Israele.

L'intelligence dell'amministrazione Johnson, quella britannica e quella sovietica sapevano bene che quella di Nasser era solo pura retorica e niente di più.

Israele decise di attaccare per fini espansionistici, ovvero una costante al centro della strategia israeliana.

Di nuovo Chomsky cita qui le parole di un altro ex premier israeliano, quelle del primo dello Stato ebraico, David Ben Gurion: “L'accettazione della spartizione non ci obbliga a rinunciare alla Transgiordania. Nessuno può chiedere ad un altro di abbandonare la propria visione. Accetteremo uno Stato entro i confini attuali. Nonostante questo, le frontiere delle aspirazioni sioniste saranno la preoccupazione del popolo ebraico e nessun fattore esterno sarà un limite”.

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