Storie da Gaza: “Spero di essere sepolto a casa mia, a Isdod”

Gaza – Pchr. L’ottantacinquenne Mohammed Timan di anni ne aveva 19, quando, il 20 dicembre 1948, lui e la sua famiglia furono stati costretti a lasciare la loro casa a Isdod, conosciuta oggi come Ashdod. Vittime della Nakba (la “catastrofe”), essi fuggirono assieme all’intero villaggio di 8500 abitanti. Da un po’ di tempo a Isdod arrivavano centinaia di abitanti di altri villaggi, con le loro storie terribili di massacri di cui erano stati testimoni in posti quali Qibla, Basheet, Deir Yassin o la moschea di Dahmash. Non più al sicuro dalla minaccia di attacco da parte di gruppi ebraici, con l’esercito egiziano che si ritirava dalla zona, circa 30 mila persone si incamminarono per giorni, fino a raggiungere una relativa sicurezza.

Mohammed ricorda il giorno in cui la sua famiglia fu fatta sfollare: “Avevamo tanta paura di essere uccisi. Già 48 abitanti erano stati assassinati, tra loro mio fratello Ahmed, ucciso dai coloni ebrei durante la sua attività nella resistenza. Altri 15 abitanti erano stati arrestati. Io presi nota dei nomi di tutte le vittime e delle persone arrestate, che conservo ancora. Quel giorno mio padre mi mandò a parlare con il comandante egiziano, per chiedergli cosa avrebbero fatto. Non potei vederlo, ma chiesi a un soldato egiziano se sarebbero rimasti a difenderci o se si sarebbero ritirati. Mi rispose di non sapere, ma che si sarebbe informato. Entro le 4 del pomeriggio non c’era più nessun militare, e i gruppi ebraici del vicino insediamento di Nizanim erano bene armati. Avevano armi, carri armati e aerei. Noi non avevamo nulla: dovemmo andarcene”.

Il viaggio verso sud fu difficile: “L’intero paese abbandonò le proprie case: uomini, donne, bambini. Io e la mia famiglia riuscimmo a prendere solo un po’ di farina per fare il pane e qualche vestito. Passammo una notte a Hamama, una a Al-Majdal (ora nota col nome di Ashkelon) e la terza a Herbiya. Dormivamo sotto gli alberi, e avevamo paura di venire attaccati. Non avevamo cibo. Alla fine, dopo quattro giorni raggiungemmo Khan Younis, dove abitavano degli amici. Nel caos di quei giorni alcuni membri della mia famiglia si dispersero, ma a Khan Younis ci ritrovammo. I nostri amici avevano un riparo di paglia dove potemmo sistemarci, e nello stesso luogo, alcuni anni dopo, io costruii una casa. Abbiamo vissuto lì 15 anni in tutto”.

Mohammed era sposato da poco e dovette lottare per iniziare una nuova vita con sua moglie, Basima. “Trovai un po’ di lavoro nell’agricoltura, ma guadagnavo solo 10 piastre al giorno, che a quel tempo corrispondevano a un chilo di zucchero. La nostra figlia più grande, Turkiyya, nacque nel 1949: mia moglie non stava abbastanza bene da poterla allattare, così dovemmo comprare il latte da un vicino che possedeva una vacca. L’anno seguente mia madre morì, mentre stavamo ancora nella capanna di paglia. Fu una vita amara e difficile, la povertà era diffusa. Io mi davo da fare per sostenere la mia famiglia lavorando i campi e vendendo qualche prodotto. Avevo le mani ruvide e screpolate per il gran daffare. Dopo 15 anni di sofferenze, nel 1963 l’Unrwa ci fornì un ricovero presso il campo profughi di Khan Younis, dove tuttora viviamo. L’anno successivo iniziai a lavorare per una famiglia del posto che aveva un commercio di abbigliamento”.

Durante la guerra dei sei giorni del 1967 Mohammed e la sua famiglia furono costretti ad abbandonare il campo profughi per un breve periodo: “Eravamo molto spaventati. Ci spostammo nella zona di Al-Mowasi, vicino al mare, e ci nascondemmo sotto gli alberi. Dopo sette giorni gli aerei dell’esercito israeliano lanciarono dei volantini dove ci veniva spiegato di tornare al campo profughi sventolando una bandiera bianca. Tornammo lì, ma dopo la guerra mi ritrovai disoccupato. Il nostro tenore di vita era sotto zero, così il fratello e la sorella di mia moglie, che vivevano in Israele, a Lud, mi mandarono un invito a raggiungerli e mi trovarono un lavoro come operaio”.

Dopo 20 anni Mohammed tornò a nord, al luogo natio: “Quando arrivai a Lud chiesi se mi potevano accompagnare a vedere il mio villaggio. Quando rividi Isdod risi e piansi contemporaneamente: ero contento di rivedere il mio paese, e triste di vederlo occupato”. La famiglia Tuman era una famiglia di agricoltori e proprietari terrieri, proprietari di 1200 ettari di terreno vicino al villaggio, prima di essere sfollati. Mohammed lavorava la terra con i suoi quattro fratelli e con suo padre. “Girando per i campi trovai una vecchia chiave sul terreno. La riconobbi, era la chiave che serviva ad avviare il motore del pozzo, motore nel frattempo rubato. Mi portai la chiave a Khan Younis”.

Mohammed ha continuato a lavorare in Israele fino al 1978: “A quel tempo era molto facile per i Palestinesi spostarsi da e per Gaza, per lavorare in Israele. Quando mio figlio Turkiy divenne abbastanza grande, mi raggiunse lì, e ogni due settimane o una volta al mese si tornava a Khan Younis per alcuni giorni. A Gaza non ci potevo restare, mancava il lavoro. Avevo una grande famiglia – quattro figli e cinque figlie – di cui dovevo occuparmi. In quegli anni andavo spesso a visitare il mio paese, Isdod. Poi, dopo 20 anni, tornai a Khan Younis e aprii un negozio”.

Per Mohammed è doloroso parlare delle recenti offensive israeliane sulla Striscia di Gaza, l’operazione Piombo Fuso del 2008-’09, e l’operazione Colonna di difesa del novembre 2012: “Tutta Gaza si è trovata in pericolo durante quelle settimane, e si aveva anche più paura che durante le guerre precedenti. Israele possiede una Forza militare potente, dotata di armi moderne, bombe e aerei da combattimento. Non c’era alcun luogo sicuro, a Gaza; io sono vecchio, costretto da tre anni sulla sedia a rotelle: non posso fare nulla per resistere all’occupazione”.

Più di 64 anni dopo essere stato costretto ad abbandonare la propria casa, Mohammed spera di poter ritornare alla sua Isdod. “Spero ancora di potervi ritornare. Lascerei tutto, tutto ciò che ho e ogni casa che ho abitato da quella volta, pur di ritornarvi. Sono nato lì e lì ho i miei legami. Il futuro dei miei 9 figli e dei miei 42 nipoti dipende dal nostro ritorno in Palestina. Spero di essere sepolto a casa mia, a Isdod”.

Si stima che almeno 700 mila palestinesi siano stati fatti allontanare con la forza dalle loro case, durante la Nakba del 1948. In base alla definizione che ne dà l’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione), i rifugiati palestinesi sono coloro il cui luogo di residenza si trovava in Palestina tra il giugno del 1946 e il maggio del 1948, e che hanno perduto la casa e i mezzi di sostentamento in seguito al conflitto arabo-israeliano del 1948. I discendenti dei profughi palestinesi originari possono essere ammessi anch’essi negli elenchi. Al 1 gennaio 2012, 4 milioni 797 mila 723 rifugiati palestinesi erano registrati presso l’Unrwa: tra questi, 1 milione 16 7mila 572 vivono nella Striscia di Gaza.

Secondo il diritto internazionale tutte le persone hanno il diritto fondamentale di ritornare a casa propria se il motivo dello spostamento è avvenuto per motivi al di fuori del loro controllo. L’obbligo degli Stati al rispetto del diritto individuale al ritorno è una norma consuetudinaria del diritto internazionale. Il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi è affermato in maniera specifica nella risoluzione 194 del 1948 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che prevede che ai rifugiati “sia consentito al più presto possibile far ritorno alle loro case e vivere in pace con i loro vicini”. La risoluzione prevede anche che i rifugiati che non desiderino ritornare alle loro case, o che abbiano subito danni o perdita delle loro proprietà, siano compensati dalle autorità competenti”.

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano di Felice