Per non dimenticare la Nakba

nakba33A cura di Parallelo Palestina

Ayn al-Zaytun – 2 maggio 1948

Dei tre massacri il più conosciuto e quello di Ayn al-Zaytun perché sulla sua storia si basa l’unico romanzo epico che abbiamo finora sulla catastrofe palestinese, Bab al-Shams (‘La porta del sole’) di Elias Khoury. Ne troviamo la cronaca dei fatti anche nel romanzo breve, in parte di finzione, Between the Knots di Netiva Ben-Yehuda. Da Bab al-Shams fu tratto un film di produzione franco-egiziana. Le scene sullo schermo sono molto simili alle descrizioni di Between the Knots, che Ben-Yehuda ha basato in gran parte sui rapporti degli archivi militari o su racconti orali. Il film rappresenta fedelmente anche la bellezza del villaggio adagiato sul fondo di un canyon che tagliava in due le alte montagne della Galilea, sulla strada tra Mayrun e Safad, un villaggio abbellito dall’acqua fresca di un ruscello circondato da sorgenti termali minerali.

La sua posizione strategica, a poco più di un chilometro e mezzo a occidente di Safad, lo rendeva un obiettivo ideale per l’occupazione. Era anche ambito dai coloni ebrei del posto, che avevano cominciato a comprare le terre nelle vicinanze e che verso la fine del Mandato avevano rapporti difficili con gli abitanti del villaggio. L’operazione Ramazza fornì l’occasione, il 2 maggio 1948, all’unità d’élite dell’Hagana, il Palmach, non solo di epurare il villaggio in conformità con il Piano Dalet, ma anche di sistemare “vecchi conti”, cioè l’ostilità con cui gli abitanti palestinesi del villaggio avevano guardato e accolto i coloni.

L’operazione fu affidata a Moshe Kalman che nello stesso distretto aveva già diretto gli attacchi selvaggi a Khisas, Sa’sa e Husayniyya. Le sue truppe incontrarono ben poca resistenza perché i volontari siriani di stanza avevano abbandonato in fretta e furia il villaggio quando all’alba era iniziato il bombardamento: al fuoco pesante dei mortai seguì il lancio sistematico di granate. Le forze di Kalman entrarono nel villaggio verso mezzogiorno. Le donne, i vecchi e i bambini e alcuni dei ragazzi più giovani che non se ne erano andati con i volontari siriani uscirono dai loro nascondigli sventolando bandiera bianca. Furono immediatamente ammassati al centro del villaggio.

Il film poi ricostruisce la routine di perquisizione e arresto – in questo caso perquisizione ed esecuzione -, eseguita dalle unità speciali dei servizi segreti dell’Haganà. Cominciavano col portare un informatore incappucciato che esaminava gli uomini allineati sulla piazza del villaggio; venivano identificati quelli il cui nome era segnato sulla lista già pronta degli ufficiali dei servizi segreti. Poi gli uomini così selezionati venivano portati in un altro posto e fucilati. Se altri si ribellavano o protestavano venivano uccisi anche loro. In un incidente che il film coglie molto bene, Yusuf Ahmad Hajjar disse a chi l’aveva catturato che lui, come gli altri, si era arreso quindi “si aspettava di essere trattato con umanità”. Il comandante del Palmach lo schiaffeggiò e poi gli ordinò come punizione di scegliere a caso trentasette ragazzi giovanissimi. Mentre il resto degli abitanti veniva spinto a forza nel magazzino della moschea, i ragazzi, con le mani legate dietro alla schiena, vennero uccisi.

Nel suo libro Hans Lebrecht offre un’altra descrizione delle atrocità e spiega che “alla fine di maggio del 1948 l’unità militare in cui prestavo servizio mi ordinò di costruire un impianto temporaneo per la pompa dell’acqua e di deviare il torrente del villaggio “abbandonato” Ayn Zaytun per fornire l’acqua al battaglione. Il villaggio era stato completamente distrutto e tra le rovine c’erano molti cadaveri. In particolare trovammo molti corpi di donne, bambini e neonati vicino alla moschea. Io convinsi l’esercito a bruciare i cadaveri”.

Si trovano queste vivide descrizioni anche nei rapporti militari dell’Haganà, ma è difficile dire realmente quanti abitanti di Ayn al-Zaytun furono uccisi. Secondo i documenti militari furono fucilate in tutto, incluse le esecuzioni, settanta persone; altre fonti forniscono una cifra molto più alta. Netiva Ben-Yehuda faceva parte del Palmach ed era nel villaggio quando avvennero le esecuzioni, ma lei preferì raccontare la storia in modo romanzato. Tuttavia la sua storia descrive con dettagli agghiaccianti il modo in cui vennero giustiziati gli uomini del villaggio ancora ammanettati; le stime si aggirano intorno a parecchie centinaia:

Ma Yehonaghan continuò a urlare, e improvvisamente voltò la schiena a Meirke, e si allontanò furibondo, continuando a protestare: “E’ fuori di testa! Centinaia di persone a terra, legate! Andate a ucciderli! Andate a far scempio di centinaia di persone! Solo un pazzo uccide gente legata in questo modo e solo un pazzo spreca con loro tutte queste munizioni (…) Non so chi avevano in mente loro, chi viene a fare un’ispezione su di loro, ma so che ora è urgente, all’improvviso dobbiamo slegare i lacci intorno alle mani e alle gambe di questi prigionieri di guerra, e allora mi rendo conto che sono tutti morti, – problema risolto -” .

Secondo questo resoconto il massacro, come sappiamo da altre fonti, avvenne non solo come “punizione” per l”‘impertinenza”, ma anche perché l’Haganà non aveva ancora campi POW per tutta quella gente fatta prigioniera. Ma anche dopo la costruzione di questi campi, quando venivano imprigionati molti abitanti, si compivano lo stesso i massacri, come dopo il 15 maggio 1948 a Tantura e Dawaymeh.

Le storie orali che fornirono a Elias Khoury il materiale per Bab al-Shams rafforzano anche l’impressione che le fonti d’archivio non dicano tutto: sono carenti sui metodi impiegati e fuorvianti circa il numero di persone uccise in quel fatale giorno del maggio del 1948.

Come abbiamo già osservato, ogni villaggio servì come un precedente che sarebbe diventato parte di un modello che poi facilitava espulsioni più sistematiche. Ad Ayn al-Zaytun, la popolazione fu portata ai confini del villaggio e lì i soldati ebrei cominciarono a sparare in aria mentre gli ordinavano di fuggire. Furono applicate anche le procedure di routine: le persone venivano spogliate di tutti i loro averi prima di essere bandite dalla loro patria.

In seguito il Palmach prese un villaggio vicino, Biriyya, e come ad Ayn al-Zaytun ordinò di incendiare tutte le case per scoraggiare gli arabi di Safad. In quella zona rimasero soltanto due villaggi. Ora l’Haganà si trovava di fronte a un compito ben più complicato: come rendere omogenea, o piuttosto come “ebraicizzare”, la regione di Marj Ibn Amir e le vaste pianure che si estendevano tra la Valle e il fiume Giordano fino a Baysan già occupata a est, e su a nord fino alla città di Nazareth che in quei giorni era ancora libera.
Acri e Baysan – 6 maggio 1948

L’urbicidio continuò nel mese di maggio con l’occupazione di Acri sulla costa e di Baysan a oriente, il 6 maggio 1948. All’inizio di maggio, Acri diede ancora una volta la prova che non solo per Napoleone era difficile da sconfiggere: nonostante il terribile sovraffollamento dovuto all’enorme flusso di profughi dalla vicina città di Haifa, il pesante bombardamento quotidiano da parte delle forze ebraiche non riuscì a piegare la città dei crociati. Tuttavia, il rifornimento di acqua, dalle sorgenti di Kabri dieci chilometri a nord, attraverso un vecchio acquedotto di circa duecento anni, si rivelò il suo tallone di Achille. Durante l’assedio, furono sicuramente introdotti nell’acqua i batteri del tifo. Gli emissari locali della Croce Rossa lo riferirono alla loro sede centrale, facendo chiaramente capire chi sospettavano: l’Haganà. I rapporti della Croce Rossa descrivono un’improvvisa epidemia di tifo e, anche se con linguaggio prudente, indicano un avvelenamento esterno come unica spiegazione per questa epidemia.

Il 6 maggio 1948 fu convocata una riunione di emergenza presso l’ospedale libanese di Acri, appartenente alla Croce Rossa. Il generale di brigata Beveridge, capo dei servizi sanitari britannici, il colonnello Bonnet dell’esercito inglese, il dottor Maclean dei servizi sanitari e il signor de Meuron, il delegato della Croce Rossa in Palestina, si incontrarono con i dirigenti cittadini per discutere delle 70 vittime che l’epidemia aveva già causato. Essi conclusero che l’infezione aveva sicuramente origine dall’acqua e non era causata dal sovraffollamento o dalle cattive condizioni igieniche, come affermava l’Haganà. Per esempio, erano stati colpiti anche 55 soldati britannici, che vennero trasferiti all’ospedale di Port Said in Egitto. “Non e mai successo nulla di simile in Palestina”, disse il generale di brigata Beveridge a de Meuron. Nel momento in cui avevano capito che la colpa era dell’acquedotto, presero l’acqua dai pozzi artesiani e dai centri agricoli a nord di Acri. Anche i rifugiati di Acri, che si trovavano già nei campi a nord, furono visitati per prevenire la diffusione dell’epidemia.

Con il morale a terra sia per l’epidemia di tifo che per il bombardamento intensivo, i residenti diedero retta agli altoparlanti che urlavano: “Arrendetevi oppure suicidatevi. Vi distruggeremo fino all’ultimo uomo”. Il tenente Petit, un osservatore francese delle Nazioni Unite, riferì che appena la città cadde nelle mani degli ebrei si scatenò un saccheggio sistematico da parte dell’esercito, incluso il mobilio, l’abbigliamento e tutto ciò che poteva essere utile ai nuovi immigranti ebrei e la rimozione di quanto poteva scoraggiare il ritorno dei profughi.

A Gaza il 27 maggio fu sventato un tentativo simile di avvelenare la riserva d’acqua. Gli egiziani catturarono due ebrei, David Horin e David Mizrachi, mentre tentavano di iniettare i batteri del tifo e della dissenteria nei pozzi di Gaza. Il generale Yadin riferì l’incidente a Ben Gurion, allora primo ministro, che lo appuntò debitamente sul suo diario senza alcun commento. I due furono poi giustiziati dagli egiziani, senza nessuna protesta ufficiale da parte di Israele.

Ernest David Bergman, insieme con i fratelli Katzir menzionati in precedenza, faceva parte di una squadra che lavorava al potenziale bellico biologico israeliano, istituito da Ben Gurion negli anni Quaranta, chiamato eufemisticamente “corpi scientifici” dell’Haganà. Ephraim Katzir fu nominato direttore a maggio del 1948, quando il gruppo fu ribattezzato HEMED (‘dolcezza’, acronimo di Hayl Mada). Non diede un gran contributo alle campagne del 1948, ma la sua precoce costituzione era indicativa delle disinvolte ambizioni che lo Stato d’Israele avrebbe perseguito in futuro.

Approssimativamente nello stesso periodo nel quale Acri venne occupata, la brigata Golani prese la città di Baysan con l’operazione Gideon. Come a Safad, mossero verso la città dopo aver occupato numerosi villaggi nei dintorni. Le forze ebraiche, con il successo dell’occupazione di Haifa, Tiberiade e Safad alle spalle, erano molto sicure di sé e molto efficienti. Ormai esperte nelle epurazioni di massa, tentarono di indurre gli abitanti a una rapida partenza da Baysan emettendo un ultimatum che ordinava loro di abbandonare le case entro dieci ore. L’ultimatum fu consegnato ai “notabili cittadini”, una frazione del comitato nazionale locale. Questi notabili lo rifiutarono e tentarono di accumulare frettolosamente riserve alimentari in vista di un lungo assedio; fecero arrivare anche alcune armi, soprattutto due cannoni portati da volontari, in modo da respingere l’assalto imminente. Nahum Spigel, il comandante della brigata Golani, voleva un’offensiva rapida per catturare un certo numero di prigionieri di guerra in modo da poterli scambiare con quelli ebrei che le forze giordane avevano preso in precedenza durante il loro vittorioso tentativo sia contro il quartiere ebraico della Città Vecchia sia contro l’insediamento sionista di Gush Etzion. In effetti, la Legione riscattò i coloni di Gush Etzion dalle mani di infuriati gruppi paramilitari palestinesi che avevano attaccato l’isolata Colonia ebraica e il convoglio che doveva andare a salvarla (oggi Gush Etzion è un grande insediamento ebraico in Cisgiordania). Questi coloni, insieme agli abitanti del vecchio quartiere ebraico, furono tra i pochi prigionieri di guerra ebrei catturati durante la guerra. Furono trattati bene e rilasciati subito dopo, a differenza delle migliaia di palestinesi che in quel momento, secondo la legislazione internazionale, erano cittadini dello Stato d’Israele, ma che furono rinchiusi in recinti una volta fatti prigionieri.

Dopo pesanti bombardamenti quotidiani, anche aerei, il comitato locale di Baysan decise di arrendersi. L’organismo che prese la decisione era composto dal qadi, il sacerdote locale, dal segretario comunale e dal più ricco mercante della città. Essi incontrarono Palti Sela e i suoi colleghi per discutere i termini della resa (prima dell’incontro, chiesero il permesso di recarsi a Nablus per trattare della capitolazione, ma fu loro rifiutato). L’11 maggio, la città passò in mani ebraiche. Palti Sela ricordava soprattutto i due patetici vecchi pezzi di artiglieria che avrebbero dovuto proteggere Baysan: due cannoni antiaerei francesi risalenti alla prima guerra mondiale che ben indicavano il livello antiquato degli armamenti che i palestinesi e i volontari possedevano alla vigilia dell’ingresso in Palestina degli eserciti regolari arabi.

Subito dopo, Palti Sela e i suoi colleghi poterono dirigere “l’ordinata espulsione” degli abitanti. Alcuni vennero trasferiti a Nazareth – che a maggio era ancora una citta palestinese libera, ma non per molto – altri a Jenin, ma i più vennero condotti sulla riva opposta del Vicino fiume Giordano”. Testimoni ricordano quell’orda di gente proveniente da Baysan, in preda a un forte panico e atterrita, precipitarsi in direzione del fiume Giordano e da lì verso l’interno in campi improvvisati. Tuttavia, mentre le truppe ebraiche erano impegnate in altre operazioni nei dintorni, alcuni di loro riuscirono a tornare indietro; Baysan si trova vicino sia alla Cisgiordania che al Giordano, per cui fu relativamente facile sgusciare indietro inosservati. Riuscirono a restare in città fino alla metà di giugno, quando l’esercito israeliano li caricò, con le armi spianate, sugli autocarri e li condusse ancora una volta dall’altra parte del fiume.

 

 

Da La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappe – Fazi editore – Capitolo 5

Ilan Pappé è uno dei maggiori storici del Medio Oriente. Nato ad Haifa nel 1954 da genitori ebrei sfuggiti alla persecuzione nazista, si è laureato alla Hebrew University e ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel 2005 ha sostenuto il boicottaggio (incluso quello accademico) di Israele e per questo, dopo aver insegnato per anni a Haifa, si è dovuto trasferire in Gran Bretagna, all’Università di Exeter.