Attivisti di Fb nel mirino del governo israeliano (4a parte)

fBiz-intercept-1-1Attivisti di Fb nel mirino del governo israeliano (4a parte).

Zahda è stato il primo palestinese residente nella West Bank ad essere arrestato dall’esercito in seguito a quanto pubblicato su Facebook. Prima di lui, la polizia israeliana aveva arrestato palestinesi residenti in Israele, per via della loro attività su Facebook.

Tra questi c’è Razi Nabulsi, un palestinese arrestato nel 2013, per aver pubblicato un post in cui diceva di sperava che “l’incubo possa finire presto” e per averne scritto un altro contro i “terroristi israeliani” sostenendo i prigionieri palestinesi, secondo quanto riportato da Nabulsi e dai suoi avvocati. In tribunale, la polizia israeliana ha replicato che la causa contro l’imputato è segreta, nonostante questa fosse basata sui post di Facebook.

Verso la fine del 2014, la polizia ha arrestato otto palestinesi residenti a Gerusalemme Est per aver pubblicato contenuti che sostenevano la violenza contro gli ebrei israeliani. Omar Shalabi, uno degli otto detenuti, è stata la prima persona ad aver ottenuto una sentenza di condanna da un tribunale israeliano, in seguito alla sua attività su Facebook, e a maggio 2015 è stato condannato a nove mesi di carcere. Secondo il New York Times, dopo che due palestinesi uccisero cinque ebrei israeliani, Shalabi scrisse: “Chiedi alla morte di concederti la vita; la gloria spetta ai martiri”.

Le indagini condotte su quanto pubblicato dai palestinesi sui social media si concentrano intorno alle leggi israeliane, che avrebbero quale fine quello di limitare ogni forma di istigazione. Per coloro che ricadono sotto il codice civile israeliano, il procuratore generale si è appellato alla legge israeliana contro “l’istigazione alla violenza o al terrore”. La misura, adottata nel 2002, proibisce ai cittadini israeliani e ai residenti di Gerusalemme Est, che sostengono o incitano alla violenza e al terrorismo e che, come tali, potrebbero causare un attentato, di parlare. Avvocati per i diritti civili ritengono che questa legge scoraggi il dialogo e che essa venga applicata in maniera sproporzionata sui palestinesi israeliani e su quanti risiedono a Gerusalemme Est, molti dei quali non sono cittadini di Israele e, tuttavia, sono governati dal codice civile israeliano.

I palestinesi in Cisgiordania ricadono sotto la legge marziale israeliana, il cui campo d’azione contro varie forme di incitamento è molto vasto. Zahda è stato mandato avanti e indietro tra i vari dipartimenti delle forze di sicurezza israeliane: dapprima è stato arrestato dall’esercito, poi consegnato alla polizia e successivamente “riconsegnato” all’esercito. Il suo caso illustra chiaramente lo sconcertante stato delle cose in Israele, dove la collaborazione e la condivisione di informazioni tra agenzie che hanno livelli di giurisdizione diversi, rappresentano una pratica quotidiana.

Zahda è stato ufficialmente accusato di “costituire una minaccia nei confronti di un alto ufficiale delle forze di difesa israeliane” e di “aver invitato i cittadini residenti nella sua stessa area ad attaccare gli israeliani utilizzando molotov”, come è stato comunicato da un portavoce dell’esercito.

Tuttavia, prima di delineare tali accuse, la polizia stava investigando su Zahda per violazione del divieto di istigazione imposto sui cittadini israeliani, malgrado egli non fosse uno di questi, come ha spiegato il suo avvocato.

“Israele può ottenere tutto ciò che vuole, allo stesso modo in cui l’esercito israeliano può entrare in Cisgiordania e fare qualsiasi cosa liberamente… se i militari israeliani vogliono andare lì e scavare una fossa per inserire l’ennesimo cavo possono farlo e in questo modo possono continuare a tracciare la rete di comunicazione tra i palestinesi”, ha detto Amit Meyer, un ex membro della “Unit 8200”, l’equivalente israeliano dell’NSA.

Meyer racconta che la raccolta di informazioni dalle piattaforme dei social media era diventata una delle maggiori priorità nel momento in cui prestava servizio, dal 2010 al 2013. Gli utenti di Facebook, ha spiegato, condividono moltissime informazioni a cielo aperto e questo consente di tracciare più facilmente i palestinesi attraverso i social network. Facebook è, allo stesso tempo, una fonte aperta perché i contenuti sono accessibili liberamente dai servizi di intelligence, senza l’utilizzo di particolari strumenti. Articoli di giornale, tweet, spezzoni radiofonici, informazioni demografiche e pubblicazioni accademiche sono tutte fonti aperte pronte per essere sfruttate dalle agenzie di intelligence.

Nell’epoca precedente all’invenzione di Facebook, gli agenti dei servizi segreti dovevano recarsi sul posto per scoprire chi faceva parte di una data rete; oraFacebook ha semplificato il processo. “È tutto lì ed è perfetto per raccogliere informazioni”, dice Meyer. Naturalmente, la polizia israeliana raccoglie informazioni anche e soprattutto sui palestinesi. La differenza principale tra i vari dipartimenti risiede solamente nell’area da essi supervisionata. Lo Shin Bet e la Unit 8200 devono rendere conto esclusivamente al primo ministro e al ministro della Difesa israeliano, che conferiscono ampia libertà di spionaggio sui palestinesi. Al contrario, la polizia israeliana è autorizzata ad intercettare i telefoni e a raccogliere i dati di internet, solo previo ordine giudiziario. In altre parole, quando la polizia decise di indagare su Sohaib Zahda, si recò da un giudice; quando essa volle dimostrare che Zahda era il proprietario della pagina “Intifada al-Khalil”, la polizia ottenne un ordine giudiziario da inviare a Facebook.

La richiesta di fornire informazioni inerenti la pagina di Zahda è stata solo una delle 343 inoltrate dalle forze dell’ordine israeliane a Facebook nel 2014, in base ai dati dell’azienda; nel 2013, la polizia israeliana avrebbe visitato la sede di Facebook 242 volte. In questi due anni, l’azienda ha concesso informazioni per circa la metà delle richieste israeliane.

Traduzione per InfoPal di M.D.F.

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