L’Intifada degli incendi?

bennettPalestine Chronicle. Di Jeremy Salt.

Naftali Bennett, esponente del partito fascista della Casa Ebraica, sostiene che gli incendi scoppiati in questi giorni nei territori palestinesi occupati e che hanno costretto migliaia di persone ad abbandonare le proprie case (niente a che vedere con i numeri del ’48, soprattutto perché questi sfollati potranno farvi ritorno) sono stati presumibilmente appiccati da “coloro a cui questo Stato non appartiene”.

Lo ringraziamo per averci ricordato che, qualora l’origine degli incendi fosse dolosa, i responsabili non potrebbero che essere i coloni sionisti, a cui questa terra non appartiene. Potete negarlo quanto volete, ma che vi piaccia o meno, ad eccezione di qualche piccolo appezzamento, questa terra appartiene ai Palestinesi, o agli ‘Arabi’, come amate definirli. Il passare del tempo non cancella il latrocinio. Sostenere che sia di vostra proprietà non è che il solito giochino di prestigio che i Sionisti praticano da sempre.

Chiaramente, questo rappresentante dei coloni, che hanno sottratto terre e diritti di intere popolazioni nel corso dei secoli, non voleva attribuire ai Sionisti la responsabilità degli incendi. Al contrario, i colpevoli sono ‘gli Arabi’. Gli atti di proprietà e l’ereditarietà non possono nulla contro i due astratti concetti sionisti: quello del ‘ritorno’ e quello del ‘diritto di proprietà’, in capo a un popolo che non ha alcun legame diretto con quella terra. La definizione di ‘Arabi’ spoglia i Palestinesi della loro identità, persino della loro lingua. Per Bennett e per i Sionisti in generale, sono solo “Arabi” o arabush, parole pronunciate con lo stesso tono sprezzante che in Sud Africa veniva usato per parlare delle persone di colore, etichettate come kaffir o macaca.

Netanyahu ha minacciato pene severissime contro i piromani, ammesso che esistano. Già sono stati condotti svariati arresti e sicuramente non saranno gli ultimi; purtroppo non possiamo sperare nella verità giudiziaria, perché i tribunali israeliani non svolgono la loro funzione in modo irreprensibile, quando sono coinvolti ‘gli Arabi’. Se l’imputato è palestinese, la tendenza è sempre quella di credere al poliziotto o al soldato, anche quando le prove dimostrano l’esatto contrario. L’iniquo sistema giudiziario ha grosse responsabilità nel tentativo di cancellare la presenza dei Palestinesi dalla storia.

Naftali Bennett è un ladro, un usurpatore; e lo sarà sempre, finché non riconoscerà i diritti del popolo Palestinese e non contribuirà a renderli effettivi, garantendo loro la possibilità di fare ritorno alle loro terre. Chiaramente, questo non accadrà mai. Perché dovrebbe agire in tal senso? Anche il solo parlarne sarebbe un’assurdità. Il solo pensiero lo farebbe sorridere, visto che può fare tutto ciò che vuole, al contrario degli ‘Arabi’; tuttavia, la ‘legge del più forte’ è un’arma a doppio taglio, che spesso può ritorcersi contro chi la usa. Di certo, non saremo clementi con lei, se un giorno dovesse accadere, Signor Naftali.

Non solo non riconoscerà i diritti dei Palestinesi; l’intenzione di Bennett è di distruggere anche quelli che sono rimasti. Ha giurato che non cederà neanche un centimetro di terra per lo Stato Palestinese; il suo obiettivo è l’annessione dell’area C della Cisgiordania, sotto il pieno controllo israeliano, e il trasferimento coatto dei Palestinesi che ci vivono nei ghetti urbani al di fuori degli insediamenti sionisti (sarebbe un vero scherzo del destino).

Bennett vorrebbe inviare un milione di coloni in Cisgiordania, per rendere la comunità palestinese una ristretta minoranza etnica che potrebbe mantenere qualche sua usanza, come quella di sorridere agli autobus di turisti giapponesi di passaggio. Esattamente come Weizmann, che nel 1948 si rallegrò nel vedere vaste porzioni di terra finire in mani ebraiche, senza un minimo accenno di rimorso, rimpianto o vergogna per i Palestinesi che ci vivevano, Bennett sogna un’area C popolata solo da coloni ebraici, con case ebraiche, strade e autostrade ebraiche, semafori, cartelli, pomodori, fiori e panchine ebraici.

Netanyahu ha parlato di terroristi piromani. È alquanto ipocrita, detto da un terrorista della sua specie. Senza doversi spingere troppo indietro nella storia, l’intero impianto ideologico sionista è terrorista; lo sono le bugie di Weizmann e dei suoi compagni. Sin dal principio, l’intenzione era quella di cacciare i Palestinesi dalle loro terre e l’unica strategia per riuscirvi era terrorizzarli. Le pratiche di esproprio erano implicite e solo raramente ammesse in pubblico; l’unico modo per concretizzare l’obiettivo era seminare il terrore, sotto forma di una ‘guerra di indipendenza’ che in realtà fu la guerra di conquista da parte di una minoranza di coloni. Non si sarebbe mai potuta raggiungere una conclusione pacifica del ‘conflitto’ in Palestina, semplicemente perché, senza guerra, lo ‘Stato ebraico’ non sarebbe mai potuto sorgere. Senza guerra, non si sarebbero potute evacuare quelle terre. I Palestinesi non avrebbero mai ceduto volontariamente. Senza guerra, i Sionisti non avrebbero potuto sequestrare il 20% in più di territorio rispetto alle condizioni della risoluzione. Per loro, il pericolo non era costituito dalla guerra, ma dalla pace.

E i Sionisti hanno continuato a giocare sul terrore. Non sarebbe stato possibile, altrimenti, mantenere il possesso sui beni illecitamente sottratti. Ogni tentativo di recuperarli da parte dei legittimi proprietari o dei loro sostenitori doveva essere respinto con estrema violenza. I Palestinesi e gli Arabi che intralciavano i loro piani andavano distrutti. Ogni minaccia ai confini, che non sono ancora stati dichiarati, doveva essere affrontata con carri armati, aeroplani, stragi e assassini. Se appiccare un incendio è un atto terroristico, cosa sono quelli elencati sinora?

La lista di morte e distruzione ad opera dei sionisti inizia negli anni ’30, quando le prime bande si infiltrano dal Libano e uccidono gli abitanti dei villaggi o lanciano barili bomba negli affollati mercati palestinesi, allo scopo di uccidere più persone possibili e terrorizzare il resto della popolazione, una strategia che continua, sotto forme diverse, ancora oggi. Da 70 anni, la filosofia che ispira le azioni dello Stato sionista è sempre quella: uccidere gli Arabi o impartire loro una lezione che non dimenticheranno facilmente. Il bombardamento di scuole e fabbriche in Egitto, i massacri condotti in Giordania, in Libano, a Gaza: non si tratta forse di terrorismo su larga scala, tale da far impallidire persino lo Stato Islamico? Le uccisioni, gli assassini, le stragi, la distruzione di interi complessi residenziali e di campi profughi hanno il solo scopo di impartire una lezione, ma, a giudicare dai continui atti di resistenza, i Palestinesi sono cattivi scolari. Dovrà alzare la posta, signor Naftali, e non abbiamo dubbi in tal senso.

Disarmati, confinati, ingabbiati dietro fili spinati, muri e check-point, i Palestinesi si sono ridotti a usare coltelli, forbici, persino le proprie vetture come armi contro l’occupazione. Adesso, secondo la versione del regime sionista, ‘gli Arabi’ avrebbero scelto di ricorrere ai fiammiferi o agli accendini. Chissà? Forse si chiederà loro di consegnare tutti i coltelli, le forbici, i fiammiferi e gli accendini e di sostituire i forni con fornelli che si avviano in automatico.

Dagli anni ’30 ad oggi ci sono state diverse intifada (sollevazioni), senza contare le insurrezioni degli anni ’20 e le ‘sommosse’ provocate dagli ‘estremisti’ sionisti. Il 1936 è l’anno dello sciopero generale e della prima rivolta. Poi, l’intifada delle pietre, negli anni ’80, e quella di Al Aqsa, nel 2000, dopo la ‘passeggiata’ sulla Spianata delle Moschee da parte di Ariel Sharon; infine, l’intifada dei coltelli. Adesso, se le autorità sioniste hanno ragione, potremmo vedere le prime fiamme dell’Intifada degli incendi, intifada al nar: chiunque potrebbe combatterla, basterà recarsi in un bosco o in una riserva naturale con una scatola di fiammiferi o un accendino. A quel punto, l’unico modo per arginare il fenomeno sarebbe vietare agli ‘Arabi’ e a coloro che gli somigliano (Eritrei, sudamericani, maltesi ecc) di accedere a boschi, riserve naturali e parchi situati nei territori israeliani e in quelli sequestrati nel 1967.

Si potrebbe anche pensare di recintare i boschi con filo spinato e cancelli, per consentire l’ingresso solo alle persone autorizzate. Ricordiamo che questi boschi non sono lì a caso: gli alberi sono stati piantati su territorio palestinese, in molti casi sulle rovine dei villaggi per cancellare le prove dei crimini commessi e rimodellare il paesaggio per trasfigurarlo. I pini di queste foreste sono estranei alla Palestina, più o meno come gli stessi coloni. Sono piante con un significato politico, messi a lì a sostituire gli ulivi originari, che sono stati tagliati: a loro è concesso di vivere su queste terre, ma non ai palestinesi e alle loro piante. Lo Stato si dice sconvolto dalla distruzione di questi alberi per via degli incendi, mentre continua a giustificare la morte dei Palestinesi uccisi dai soldati e dai coloni, che non vengono mai puniti per i loro crimini.

In oltre 70 anni di occupazione, i Palestinesi hanno avuto tante perdite in termini di vite umane; hanno perso le loro case, i beni in esse contenuti, i mobili, i tappeti, i libri, i giocattoli dei bambini. Hanno perso il diritto di essere sepolti nella terra dei loro antenati; si sono visti portar via la storia e la cultura, le moschee, i frutteti, i giardini e gli alberi di ulivo; i campi di grano e gli aranceti; i fiumi, i torrenti e il mare; hanno perso i diritti, gli edifici pubblici, le strade, i ponti costruiti dai loro avi. Hanno perso il diritto di accedere alla Spianata delle Moschee e a Gerusalemme, presto anche il richiamo alla preghiera potrebbe essere vietato. Non hanno più armi, non hanno più nulla e l’unica cosa certa è che nei prossimi anni le cose non faranno che peggiorare. Ormai non possono far altro che difendersi con coltelli e forbici; se le accuse dei loro oppressori sono fondate, anche con fiammiferi e accendini. Ma bisognerebbe essere oggettivi e non fare confusione da un punto di vista terminologico. Bisognerebbe chiamare le cose con il loro nome. Non si parla mai di terrorismo quando un pilota lancia missili su una città piena di rifugiati; o quando un soldato spara alla testa di un bambino in strada, o quando un marinaio apre il fuoco contro dei bambini che giocano sulla spiaggia. Non si parla di terrorismo quando un carrarmato mira contro un complesso residenziale. Gli uomini in divisa, i militari, i poliziotti non sono mai terroristi. Non sono terroristi i coloni che si aggirano per le città palestinesi con dei mitra in spalla. Non sono terroristi i politici che danno ordini in tal senso.

I terroristi siete voi, voi palestinesi, reietti della terra, impoveriti, bombardati, uccisi, massacrati, umiliati, intimiditi, minacciati, cacciati dalle vostre terre, chiusi dentro un recinto o confinati dietro un muro, costretti ad affrontare un esercito con carri armati, aeroplani, missili, bulldozer e persino armi nucleari, con le armi a vostra disposizione, che fanno infuriare il nemico: una pietra, un coltello, un paio di forbici, un accendino e adesso (a detta loro) una scatola di fiammiferi.

Traduzione di Romana Rubeo