Di Parallelo Palestina
Dopo l’anteprima nazionale di “Rabin, the last day”
Che Gitai abbia girato il film come atto poltico diretto contro il sistema israeliano più che per il suo pubblico?
Certo il film è la dimostrazione del marcio su cui è costruita l’unica democrazia del medio oriente.
Impareggiabile la sequenza in cui la corte che indaga sulla morte di Rabin respinge l’avvocato che contesta la responsabilità dei mandanti.
Come tutti i falchi israeliani Rabin è corresponsabile di molti crimini. Fu lui a volere l’assassinio a Tunisi di Abu Jihad, uno dei più grandi dirigenti di Al Fatah, la mente della prima Intifada.
Segue citazione da: Il terrorismo impunito, D. Siragusa, pag. 247
——————————
L’assassinio di Abu Jihad
“Gli ebrei banno commesso un grave errore tentando di imporsi in Palestina con l’aiuto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, tramite un palese terrorismo; io mi domando perché dipendono solo dai fnanziamenti americani per aprirsi una strada con la forza in una terra che non li vuole”
(Mahatma Gandhi. Citato in: Mario Capanna, Arafat; Rizzoli 1989, pag. 94)
Non è mai stata una particolare temperie politica che abbia convinto gli israeliani che il metodo dell’assassinio politico fosse necessario per ottenere un determinato risultato. L’analisi di tutti i crimini politici commessi dallo stato ebraico, in Palestina e all’estero, ha un denominatore comune: chiunque si opponga al progetto sionista o ne rallenti l’avanzata è da considerare un nemico ed in quanto tale egli deve essere eliminato. Nelle pagine precedenti, dedicate agli assassinii di Lord Moyne e del conte Bernadotte, ho insistito nella descrizione delle modalità di esecuzione e di preparazione dei crimini poiché lì vi sono le basi ideologiche, religiose ed escatologiche del fanatismo sionista e della sua efficacia quando deve armare le mani dei suoi seguaci che agiscono senza scrupoli morali nell’esecuzione di un omicidio, anche il più esecrabile. Questo non significa che l’eliminazione delle “teste pensanti” del movimento di resistenza palestinese produca un vantaggio immediato per gli scopi dello stato ebraico. I capi sionisti hanno sempre pensato che eliminando gli “intellettuali” palestinesi avrebbero decapitato la resistenza e assoggettato definitivamente un popolo di vittime che sono la testimonianza vivente della loro cattiva coscienza. Una delle teste pensanti della resistenza palestinese è sempre stato considerato il vice di Arafat, Khalil al Wazir, meglio conosciuto come Abu Jihad, il responsabile militare dell’Intifada. Risiede a Tunisi con la famiglia, in una villa a Sidi Bu Said e da qui dirige e organizza l’Intifada. E’ uno dei capi più amati dell’OLP. Il Mossad da tempo lo tiene sotto sorveglianza e ne analizza persino la scrittura che rivela una personalità precisa ed analitica, un perfezionista di elevata intelligenza. L’ordine di ucciderlo fu approvato dal governo 13 aprile 1988 e tre giorni dopo fu eseguito. L’unico ministro che disapprovò la proposta fu Ezer Weizman, gli altri furono tutti concordi soprattutto Rabin e i vecchi terroristi Shamir e Sharon. La scena dell’omicidio è ben descritta nel libro di Bassam Abu Sharif “Il mio miglior nemico” e sembra la sceneggiatura di un film di spionaggio. Il Mossad rileva l’ubicazione della villa dove abita Abu Jihad e le zone circostanti. Istruisce i suoi agenti prescelti facendoli esercitare in una villa simile, attrezza un aereo per la guerra elettronica e impiega una motovedetta lanciamissili da cui partono, con dei canotti pneumatici, i sicari dotati di passaporti libanesi falsi e che parlano arabo. E la sera del 16 aprile 1988, il commando di quattro uomini sbarca sulla spiaggia di Sidi Bou Said, si avvicina alla villa, uccide l’autista, una guardia e il giardiniere, entrano al primo piano e sorprendono Abu Jihad che non ha il tempo di reagire. I quattro gli sparano usando armi col silenziatore. Richiamate dal rumore, la moglie, Intissar, e la figlia sedicenne, Hanan, accorrono, vedono gli assassini che si avviano verso l’uscita e scoprono il corpo di Abu Jihad crivellato da settanta pallottole.
A bordo dell’aereo il generale Ehud Barak aveva diretto tutte le fasi dell’assassinio eseguito con precisione chirurgica e grande impiego di mezzi. Si racconta che una donna del Mossad filmò con una telecamera le terribili fasi dell’esecuzione. Quando la notizia il giorno dopo occupò i notiziari di tutto il mondo, la condanna si rivolse senza appello contro Israele e il Mossad i quali, con la consueta ipocrisia, dichiararono di esser estranei alla morte del vice di Arafat.
Il 16 aprile dell’anno dopo, in Cisgiordania e a Gaza, durante le manifestazioni per l’anniversario dell’assassinio di Abu Jihad, i soldati israeliani spararono sui ragazzi dell’Intifada che avevano trai 10 e i 15 anni: vi furono 6 morti e un centinaio di feriti.
Qualche anno più tardi, l’11 settembre 1993, mentre si avviavano i colloqui di pace e si tentava la reciproca legittimazione tra israeliani e palestinesi, un giornalista del Corriere della Sera intervista la moglie, Intissar, e la figlia maggiore di Abu Jihad, Hanan, che Studia Scienze Politiche all’università di Ginevra. Hanan dichiara: L’incubo di quel giorno terribile non mi abbandona mai, Sa che rosa vuol dire essere seduta sul letto del proprio padre, giocare con lui, scambiarsi il bacio della buona notte, poi andarsene a letto, svegliarsi pochi minuti dopo di soprassalto, e trovare papà disteso sullo stesso letto, in un bagno di sangue? E alla domanda se è disposta a perdonare l’assassino di suo marito quando un giorno ci sarà la pace, Intissar risponde: No. Non so se ne avrei la forza. Come si fa a dimenticare?