Israele: no secco alle richieste di Trump di tenere a freno gli insediamenti

120302ts14EI. Giovedì 23 marzo, la Casa Bianca ha affermato che durante quattro giorni di “intense discussioni” con il governo di Israele, alti funzionari statunitensi “hanno riportato le preoccupazioni del presidente Trump riguardanti il proliferare degli insediamenti nel contesto di un riavvio dei trattati di pace”.

Tuttavia, alla fine di queste discussioni nessun accordo è stato raggiunto per limitare il problema.

Sorpresa

I leader israeliani hanno acclamato l’elezione di Trump, credendo che egli avrebbe dato il via libera all’acceleramento della colonizzazione delle terre palestinesi.

Tutti gli insediamenti israeliani sono illegali secondo il diritto internazionale.

I leader dei coloni israeliani hanno ricevuto un caloroso benvenuto in occasione della cerimonia di insediamento del nuovo presidente, avvenuta a gennaio; in più, una delle prime nomine-chiave fatte da Trump è stata nei confronti di un ambasciatore, il quale aveva personalmente contribuito a raccogliere milioni di dollari destinati a costruire insediamenti in Cisgiordania.

David Friedman, attualmente citato in giudizio da cittadini statunitensi e palestinesi per il suo ruolo in questa espropriazione di terra, è stato confermato, giovedì 24 marzo, come ambasciatore dal senato statunitense, controllato dal partito repubblicano. Il voto finale (52-46) ha rimarcato una divisione tra le linee di partito.

Nonostante questi segnali, però, l’amministrazione statunitense ha sorpreso i leader israeliani quando, dopo pochi giorni dal suo insediamento, ha lanciato pubblicamente un avvertimento contro un’eventuale accelerazione nella costruzione di nuovi insediamenti israeliani.

Quando lo scorso mese il primo ministro Benjamin Netanyahu si è recato in visita alla Casa Bianca, Trump ha ripetuto che “Mi piacerebbe vedervi indietreggiare un po’ sulla questione degli insediamenti”.

Un piccolo cambiamento

L’insistenza di Trump volta a limitare in qualche modo gli insediamenti israeliani sottolinea come la sua politica differisca poco da quella del suo predecessore, che come Trump si era battuto, ma solo a parole, per la questione degli insediamenti.

Il Washington post afferma che il desiderio di Trump di limitare gli insediamenti sarebbe una “precondizione” perché l’Arabia Saudita e altri stati arabi cosiddetti “moderati” “si uniscano in un processo di pace regionale”.

Infatti, l’amministrazione Trump finge di voler aprire un dialogo anche con i giovani palestinesi e di voler “conoscere le loro esperienze quotidiane”.

La dichiarazione della Casa Bianca ha aggiunto che la delegazione israelo-americana ha discusso della possibilità di incrementare l’economia in Cisgiordania e della “necessità” di onorare le promesse di aiuto internazionale per la ricostruzione di Gaza “secondo modalità che portino beneficio alla popolazione senza aumentare il potere di Hamas o altre organizzazioni terroristiche”.

Anche questo dista poco dai tentativi dell’amministrazione precedente di promuovere “la pace economica” per placare gli animi della popolazione palestinese vittima di occupazione e sostenere i leader appositamente scelti dall’amministrazione statunitense.

Anche gli israeliani hanno fatto caso alle somiglianze. Il quotidiano di Tel Aviv, Haaretz, ha riportato lunedì che “un ministro che sedeva nel gabinetto diplomatico di sicurezza aveva detto di aver incontrato Netanyahu quella settimana e di averlo trovato molto preoccupato”. Il motivo: Donald Trump.

“C’è enorme pressione su di lui per la questione degli insediamenti da parte di Trump”, ha rilasciato il ministro. Vista la dipendenza politica di Netanyahu dal movimento dei coloni, da lui supportati durante tutta la sua carriera politica, il primo ministro è alle strette.

Il mese scorso il parlamento israeliano ha approvato una legge che facilita l’esproprio dei terreni palestinesi per la costruzione di nuovi insediamenti.

“Ecco anche perché non andrà alla conferenza AIPAC a Washington che si terrà alla fine del mese”, ha dichiarato il ministro ad Haaretz, in riferimento alla influente lobby israeliana. “Per il momento non ha nulla da portare a Trump. La mia sensazione è che la lobby stia iniziando a sentire la mancanza di Obama”.

La via del fallimento

Nonostante gli anni di demonizzazione di Barack Obama da parte di Israele e i suoi seguaci, questa è una tacita ammissione di un fatto palese: egli era, in realtà, il presidente più a favore di Israele di tutta la storia.

Mesi prima di lasciare il suo incarico, Obama firmò un accordo che avrebbe incrementato gli aiuti militari statunitensi verso lo stato di Israele raggiungendo il record di 3,8 miliardi l’anno a partire dal 2019.

E siccome la politica di Trump è molto simile a quella di Obama, egli si ritroverebbe su una pista già battuta e fallimentare per quanto riguarda il dichiarato obiettivo di firmare un accordo di pace.

Trump afferma di essere il perfetto ‘dealmaker’, pronto a capovolgere relazioni di lunga data con amici e rivali allo stesso modo, se questo è ciò che piazzerebbe “l’America per prima”.

Trump ha persino minacciato la Cina di abbandonare anni di politica statunitense basata sul non riconoscimento di Taiwan se Pechino non avesse accettato i suoi termini in materia di scambi commerciali.

Ma nella sua prima proposta – che taglia l’assistenza verso i cittadini americani più poveri e i più vulnerabili – Trump ha assicurato che l’aiuto statunitense ad Israele rimarrà inviolato.

Ecco perché Trump è consapevole di non avere più influenza del precedente inquilino della Casa Bianca su Israele.

Mentre il dialogo tra Israele e l’amministrazione statunitense rimane “in corso”, secondo quanto dichiarato dalla Casa Bianca, tale è anche lo spietato esproprio delle terre palestinesi da parte di Israele.

Questo non cambierà finché Israele continuerà a non pagare per le sue azioni.

Traduzione di Michela Zani