Perché l’Italia deve celebrare anche la Resistenza palestinese

17192949__bb54641acb03d640a6fd33336c33fcd1Palestine Chronicle e PIC. Di Romana Rubeo. 

Qualche giorno fa, un’amica insegnante mi ha chiesto di fare una cosa molto bella: voleva che parlassi ai suoi ragazzi di ciò che avevo visto nel mio viaggio in Palestina.

Voleva che spiegassi loro che ciò che leggevano sui libri non era solo inchiostro su una pagina; che dietro quelle parole c’erano volti, storie di dolore, gioia e amore.

Sono entrata nell’“I.C. Eduardo De Filippo”di Villanova di Guidonia con una certa tensione: non sono un’insegnante, non sapevo se sarei riuscita a catturare la loro attenzione, a suscitare interesse nei confronti di fatti che accadono dall’altra parte del Mediterraneo.

Ho deciso di far parlare le immagini, i racconti, i volti.

Hanno visto cosa provano i Palestinesi costretti a stare in fila per ore a un check-point israeliano.

Hanno visto gli abitanti di Hebron, obbligati a montare una rete che protegga strade e botteghe del suq (mercato arabo, ndr) dal lancio di pietre e oggetti esercitato dai coloni illegali che vivono lì, protetti da uno schieramento di forze militari incredibile.

Ho mostrato loro la vita in un campo profughi palestinese a Betlemme e in Giordania.

Le strade riservate ai Palestinesi e quelle riservate agli Israeliani e il Muro della Vergogna che separa Gerusalemme dalla Cisgiordania.

Hanno visto Gaza al buio, al freddo o sotto le bombe; e i Gazawi disperati aspettare per ore al valico che separa Rafah dall’Egitto, per uscire da quella prigione a cielo aperto.

Hanno visto le foto in bianco e nero dei Palestinesi costretti a fuggire durante la Nakba, senza poter più fare ritorno.

In poche parole, hanno visto con i loro occhi l’atrocità della vita in un regime di occupazione militare.

Ma ho spiegato loro che i Palestinesi non corrispondono affatto allo stereotipo che li vede come vittime: perché resistono, perché si organizzano, perché si innamorano, hanno figli, pregano Dio.

Li hanno visti ballare la dakba, preparare la maklouba, l’hummus, il knafeh.

Quei ragazzi dovevano sapere che i Palestinesi amano la vita, anzi, “la insegnano”; la vita che, nonostante tutto, continua a scorrere come un fiume in piena, grazie alla resilienza che questo popolo indomito sembra dimostrare, a dispetto degli orrori dell’occupazione e della guerra.

La risposta dei bambini è stata sorprendente: erano tutti molto interessati, tanto che nei giorni seguenti hanno continuato a porre domande alla loro insegnante.

Ma soprattutto, hanno dimostrato immediatamente una qualità che forse gli adulti perdono con il tempo; quella che, secondo Ernesto Che Guevara, era la qualità più bella di un rivoluzionario: “sentire, nel più profondo, qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”.

Si chiedevano perché nessuno facesse niente per aiutare i Palestinesi, ma soprattutto, cercavano soluzioni. E mi ha sorpreso constatare che, ragionando a voce alta, hanno di fatto elaborato una soluzione molto vicina alla “one state solution”.

Per loro era naturale immaginare un unico Stato, con uguali diritti e dignità per tutti, mentre i nostri leader occidentali ancora si coprono dietro la formula vuota del “due popoli due stati”, più utile come mantra auto-assolutorio che a risolvere del problema.

Quella stessa sera, sono tornata a casa e ho letto la singolare dichiarazione di Matteo Orfini, Commissario del PD a Roma: “Il corteo dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) è diventato elemento di divisione quando dovrebbe essere invece l’occasione di unire la città intorno ai valori della resistenza e dell’antifascismo”.

Il Partito Democratico, dunque, ha deciso di non partecipare al corteo ufficiale del 25 aprile a Roma.

Una dichiarazione incomprensibile, senza quella successiva da parte della Comunità Ebraica di Roma, che annunciava il boicottaggio di un corteo dove sfileranno anche i rappresentanti palestinesi, definiti in tono sprezzante “eredi del Gran Muftì”.

Una dichiarazione che serve, di fatto, a strumentalizzare il ruolo della Brigata Ebraica nella lotta per la Liberazione dal Nazi-fascismo.

La deliberata decontestualizzazione dell’incontro avvenuto tra Amin al-Husseini e Adolf Hitler ha un duplice scopo: contaminare l’immagine dei Palestinesi e negare il fatto che Israele è oggi una potenza occupante e che i Palestinesi sono vittime di un’occupazione militare e di politiche neo-coloniali a cui tentano in ogni modo di resistere.

Le bandiere israeliane che sventolano durante il corteo sono la rappresentazione simbolica dell’occupazione e dell’oppressione ai danni del popolo palestinese.

In fondo, questo atteggiamento non mi sorprende: il revisionismo storico è uno dei tratti distintivi della propaganda israeliana, la cosiddetta hasbara.

E purtroppo, non mi sorprende neanche l’opportunistica dichiarazione di Orfini.

Il 25 aprile è una festa importante per quelle donne e quegli uomini che materialmente lottarono “sui monti” contro i fascisti e l’occupante tedesco.

Ma è anche la festa dei loro figli e nipoti e di tutti coloro che da quella lotta hanno appreso una lezione che è, prima di ogni altra cosa, una lezione di dignità. La dignità di un popolo in grado di resistere, di non piegare la testa, di costruire o di ricostruire un’identità nazionale sotto i valori della libertà e della giustizia.

Il PD ha già più volte tradito quei valori; lo fa sul piano storico, ogni volta che i suoi rappresentanti riabilitano “i ragazzi di Salò”, equiparando di fatto i partigiani ai repubblichini; ma anche ogni volta che fingono di non vedere il muro della vergogna, o che voltano la  testa dall’altra parte di fronte agli orrori dell’occupazione israeliana, al muro della vergogna, alle pratiche neocolonialiste; ogni volta che negano ai Palestinesi il diritto alla resistenza.

Commemorare la storia non ha alcun senso, se non siamo capaci di attualizzare le lezioni che dovremmo trarne.

E la sinistra non ha speranza, se usa Che Guevara come un simbolo capitalista da stampare su una t-shirt, ma non è in grado di “sentire, nel più profondo, qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo”, come hanno fatto i bambini di Villanova di Guidonia.