A coltellate. Di Gilad Atzmon

Di Gilad AtzmonChi era tanto ingenuo da pensare che la lotta tra israeliani e palestinesi fosse un «conflitto politico» deve rivedere le sue posizioni. Le immagini di israeliani e palestinesi religiosamente motivati che si accoltellano con pugnali e cacciavite rivelano una verità semplice e innegabile: stiamo assistendo a un colossale conflitto etnico e religioso. Diversamente dalle «dispute politiche», le dispute etniche e religiose solo raramente si risolvono: per lo più esse possono essere temporaneamente soppresse. L’attuale conflitto in Israele è violenza a livello primariamente personale. Tragicamente, questo fenomeno è un tema ricorrente che attraversa la storia ebraica.
Lo Stato ebraico è nato, in parte, per dare rifugio agli ebrei. Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento gli ebrei europei vennero brutalmente perseguitati e impunemente uccisi. Il sionismo promise di porre rimedio a questa situazione e di reinventare l’Ebreo, facendone una persona amabile e civilizzata per mezzo di una patria. Ma il fallimento del sionismo si è fatto sempre più evidente. Israele non solo non è riuscito a fornire merci; Israele è il solo Paese al mondo in cui gli ebrei sono cacciati per le strade e accoltellati per il solo motivo di essere ebrei. Inoltre, Israele – che intendeva presentarsi al mondo come esempio eminente di esistenza ebraica etica collettiva – ha dimostrato di essere esattamente l’opposto. Israele è manifestazione radicale di razzismo ebraico. Esso è una mostruosa amplificazione dei sintomi ebraici. Il sistema legale ebraico è un sistema a sfondo razziale e profondamente suprematista. Le politiche israeliane sono spesso politiche criminali sull’orlo del genocidio. E le politiche israeliane secolari sono coerenti con l’interpretazione più radicale dello sciovinismo giudaico tribale.
Se la politica è comunemente intesa come sforzo istituzionalizzato per proporre particolari idee e obiettivi, in Palestina assistiamo, al momento, al fenomeno opposto; a un’espressione terminale di stanchezza per la politica e per i politici. I giovani, arabi ed ebrei, si prendono a coltellate. Se la politica intende incanalare le aspirazioni personali in un pensiero collettivo, l’individualizzazione della violenza è sintomo di esasperazione nei confronti della politica stessa. Il giovane shaid (martire) palestinese sacrifica il proprio futuro e a volte la propria vita sull’altare della liberazione definitiva – l’emancipazione da una realtà senza speranza imposta dal razzismo ebraico.
I laureati alla Scuola di Francoforte e i mercanti di prospettive politiche potrebbero a questo punto intromettersi per offrire il loro cliché preferito: «il personale è politico». La realtà in Palestina però suggerisce il contrario. Per i palestinesi il personale è un vicolo cieco fine a sé stesso. Il semplice atto privato di violenza è sia la fine che il mezzo, e ha poco a che vedere con la politica. Esso è il rifiuto totale della politica – la violenza offre un riscatto eroico dalla politica inutile che non porta a niente.
Da una prospettiva palestinese, accoltellare offre il martirio. E’ tanto eroico quanto letale. Ma israeliani e palestinesi dovrebbero chiedersi perché questo stia accadendo di nuovo. Perché si accoltellano per la strada? Perché non sono riusciti a diventare amabili l’un l’altro? Perché l’antisemitismo è nuovamente in crescita?
La risposta è semplice. Per la riuscita del sionismo gli ebrei hanno dovuto emanciparsi dall’’ebraicità’ (supremazia tribale); ma ci sono riusciti? Sono riusciti a formare un’entità giudaica priva di ‘ebraicità’? Sono riusciti a liberare sé stessi da sé stessi? A quanto pare la risposta è categoricamente negativa. Israele è condannato dal primo giorno, e tutte le altre forme di raggruppamento politico ebraico, sionisti o anti sionisti, non sono in gran forma.

Traduzione di Stefano Di Felice