A Ein Hilwe una Nakba senza fine

il manifesto del 16 Maggio 2008

A Ein Hilwe una Nakba senza fine

La «Catastrofe» del ’48 rivissuta in un campo profughi del Libano,
paese dove i palestinesi hanno pagato di più, stretti fra la guerra di
Israele e il rifiuto violento dei libanesi

Michele Giorgio
Inviato a Ein Hilwe

Non è un giorno come gli altri ad Ein Hilwe. E’ il 60esimo
anniversario della Nakba e decine di bambini con berretti e piccole
uniformi militari prendono parte alla sfilata organizzata da una
quindicina di associazioni e Ong nella malandata strada principale del
campo profughi. Gli adulti cantano e battono le mani. Non c’è nessun
luogo che simboleggi meglio dei campi per rifugiati in Libano la
«Catastrofe» nazionale che per i palestinesi è coincisa con la
proclamazione dello Stato di Israele, il 15 maggio 1948, e l’esodo,
spesso sotto la minaccia delle armi, di almeno 700mila uomini, donne e
bambini. Tante sono state le sofferenze patite anche dai palestinesi
finiti in Siria o in Giordania o a Gaza e in Cisgiordania. Ma nessuno
tra i profughi ha pagato un prezzo tanto alto come quelli in Libano,
vittime delle campagne militari israeliane e allo stesso tempo del
rifiuto violento di una buona fetta dei libanesi. «Qui ci sono
palestinesi che sono diventati profughi tante volte», spiega Nuha
Masri, responsabile per il Libano del «Palestine Relief Fund». I suoi
genitori furono costretti a lasciare da Mekker (Acri) nel 1948 da dove
finirono prima nel campo di Tell al-Zaatar, assediato e distrutto
negli anni Settanta dalle milizie dell’estrema destra libanese, e poi
ad Ein al Hilwe. «E’ la vicenda della mia famiglia ma potrebbero
raccontartela tanti», aggiunge.
Sono tante le storie che potrebbero riferire le povere case di Ein
al-Hilwe troppo spesso macchiate dal sangue di chi le abita. Ma la
Nakba non è solo memoria per i profughi. E’ anche l’occasione per
pensare al futuro. «Non smetteremo mai di chiedere i nostri diritti ma
sappiamo che non rivedremo la nostra terra», dice con occhi
malinconici Almaza Sharqawi, direttrice del Women’s Program Center, un
ong locale che garantisce ogni anno formazione professionale a un
centinaio di ragazze e ragazzi. «Spero solo di poter rivedere un
giorno mia sorella» aggiunge, accennando un sorriso. «Lei 25 anni fa
si sposò con un palestinese di Gaza e da allora non ci siamo più
incontrate. Non può venire qui in Libano e io non posso andare a
Gaza». Sara Said, 18 anni, invece la speranza di poter tornare in
Palestina non l’ha perduta. «Mia nonna e mio padre mi hanno raccontato
tutto – dice – veniamo da un piccolo villaggio vicino al Lago di
Tiberiade che gli israeliani hanno distrutto nel 1949. Quando posso
guardo le foto (del Lago) in internet e leggo storie della Nakba. Lo
sento, un giorno saremo di nuovo in Palestina». Persino più convinto
di ciò è Mustafa Abu Atieh, responsabile delle pubbliche relazioni del
piccolo ospedale di Ein al Hilwe. «Sappiamo che i nostri fratelli (nei
Territori occupati) sono depressi e demotivati ma dobbiamo resistere e
raccontare la Nakba ai nostri figli», spiega lanciando uno sguardo
alla sua assistente e moglie, Cristina, cubana, giunta una decina di
anni fa ad Ein Hilwe per «aiutare la rivoluzione palestinese». «Gli
umori nei campi qui in Libano sono davvero diversi, non è semplice
dare una lettura omogenea di quello che pensano i profughi», afferma
il sociologo e scrittore Jamil Hilal, in questi giorni a Beirut per
completare una ricerca. «Quelli che hanno più di 40 anni credono con
meno convinzione di prima alla risoluzione 194 (il diritto al ritorno,
ndr) mentre i più giovani sono fiduciosi, non si rassegnano. Ciò
dimostra che la narrativa palestinese e la memoria della Nakba
coinvolgono le nuove generazioni». Un punto sul quale tutti sono
concordano è il rifiuto di un ritorno «dalla finestra», ovvero nel
mini-stato palestinese che potrebbe sorgere in Cisgiordania come
risultato di un accordo tra Israele e l’Anp di Abu Mazen. «Tornerò
soltanto a Mekker, non voglio passare dalla prigione dei campi
profughi in Libano a uno Stato palestinese sotto il controllo di
Israele», dice in modo secco Nuha Masri rappresentando il pensiero di
molti. Il dottor Amr Summak, direttore dell’ospedale di Ein Hilwe e
attivista del Fronte popolare per la liberazione della Palestina,
sostiene che la determinazione dei profughi nel rifiutare «soluzioni
intermedie» come il «ritorno» in Cisgiordania e forse Gaza, è forte ma
che allo stesso tempo occorre seguire con attenzione quelle che
saranno le politiche volte a «spostare la questione della Nakba dal
piano politico a quello sociale». «Con ogni probabilità – prevede –
nei prossimi anni verranno presentate (ai profughi in Libano) proposte
di insediamento in vari paesi sostenute da donazioni internazionali
nonché progetti di riunificazioni familiari in altre parti del mondo,
ovunque ma non nella nostra terra».E se il domani non si annuncia
incerto, l’oggi per i profughi palestinesi presenta non pochi rischi
legati proprio alla fragilità del quadro politico interno libanese.
«Non vogliamo essere coinvolti in nuova guerra civile, la prima è
stato un bagno di sangue per tutti e in special modo per i
palestinesi», afferma Summak. Sul terreno però le cose potrebbero
andare diversamente. «I palestinesi stanno con Hezbollah e la
resistenza. Tuttavia – spiega Adnan Abu Khias, un profugo di 45 anni
che ha visto morire il padre e il fratello durante la guerra civile
libanese (1975-90) – non si può non considerare che siamo sunniti e
che (il leader sunnita) Saad Hariri ha conquistato consensi tra i
nostri giovani elargendo soldi e facendo promesse di lavoro.
D’altronde se Hezbollah piace è anche vero che tanti palestinesi in
Libano odiano altre forze dell’opposizione, come Amal che ci ha
massacrato negli anni Ottanta». Stati d’animo diversi che si
riflettono anche a livello politico. Se il rappresentante dell’Anp in
Libano, Abbas Zaki, insiste sulla «neutralità assoluta», Sultan Abu
al-Anayn, uno dei leader di Fatah nel sud del Libano invece non
nasconde le sue simpatie per Hariri che, si dice, avrebbe gli promesso
l’annullamento di un ordine di arresto nei suoi confronti. «Stiamo
lontani dalla politica libanese – ammonisce Mustafa Abu Atieh –
abbiamo già versato tanto sangue in questo paese».

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