A proposito di boicottaggio culturale
Un doppio standard
La discussione sul boicottaggio culturale aperta sulle pagine del Manifesto alcune settimane fa da Ester Fano, alla quale hanno partecipato sui principali quotidiani, giornalisti, intellettuali e docenti (pochissimi) dellUniversità italiana, appare una manovra di manipolazione mediatica sempre più serrata che rischia ora di trasformarsi in una manifestazione violenta del potere (chi dissente viene stigmatizzato come intollerante, fanatico, fondamentalista e antisemita).
Questa campagna sta spostando strumentalmente lattenzione dellopinione pubblica. Dalla denuncia iniziale, da parte di alcuni, del fatto che attraverso liniziativa culturale veniva contrabbandata una vera e propria operazione di propaganda politica, di rimessa a punto dellimmagine di Israele dopo la disastrosa guerra del 2006, In occasione della ricorrenza del 60° anniversario della sua fondazione, Israele ha scelto Torino come la vetrina più adatta per . (era scritto nel sito Fiera Internazionale del Libro-Torino, ancora in data 18 dicembre 2007, ma ora è stato cancellato), e di celebrazione per i festeggiamenti del 60° anniversario dello Stato di Israele, dimenticando e negando la Nakba, la pulizia etnica della Palestina), ora si grida ovunque contro il boicottaggio della cultura.
Su questo tema una delle analisi più limpide è quella di Judith Butler, filosofa americana. Su Radical Philosophy del gennaio-febbraio 2006, dal titolo Israel/Palestine and the Paradoxes of Academic Freedom. Butler si chiede:
1) se la libertà accademica e la circolazione della cultura stiano al di sopra, come valore assoluto, dei diritti umani e di tutte le libertà umane fondamentali, sia che si tratti del diritto a vivere, della libertà da un governo coloniale e dalla soggezione ad esso, della libertà di spostarsi, di studiare, di perfezionare un ciclo di studi o di lavorare nelle Università senza continui blocchi o perdita di semestri o anni, come avviene attualmente nei Territori occupati di Palestina. Territori ridotti sempre più a poche enclave, con minime libertà di spostamento per la popolazione, soggetta a quotidiane incursioni, rastrellamenti, uccisioni, ferimenti e arresti da parte dellesercito israeliano doccupazione.
2) che tipo di libertà accademica e libertà della cultura intendono i critici?.
Scrive Butler:
"Come può funzionare (il concetto) di libertà accademica nei casi dove un colonialismo d’insediamenti pervade le istituzioni e l’apparato legale che governa un confine in movimento? Vogliamo veramente una teoria che ci permetta soltanto di dire che gli accademici dovrebbero essere liberi di impegnarsi in scambi internazionali ed essere così in grado di attraversare i confini nazionali, ma quegli accademici che non vivono in territori riconosciuti come stati-nazione, com’è sotto l’ Occupazione [dei Territori occupati di Palestina], non hanno il diritto (…) di sapere se possono regolarmente arrivare all’Università per insegnare a una classe di studenti, anch’essi con il diritto di arrivare? (…) Se la libertà accademica rimane liberale in modo restrittivo, non sarà in grado di vedere che al soggetto che voglia esercitare il diritto di tale libertà deve essere dato innanzitutto il diritto di viaggiare, di essere in grado di passare i confini senza blocchi o molestie. Questo significa che per esercitare tale diritto, noi dobbiamo presupporre un’opposizione al Muro, alle accresciute molestie dei militari ai confini, all’Occupazione stessa. Allo stesso modo se l’attacco conservatore alle libertà accademiche deve cadere, ci devono essere modi più robusti e sostanziali per mettere in relazione la libertà accademica agli ideali di democrazia che includono non solo il diritto alla libera espressione ma all’opposizione a forme di controllo che prendono di mira i punti di vista politici [qui ci si riferisce in particolare alle censure nei progetti accademici e culturali in genere]. Se ci deve essere un’ampia opposizione all’Occupazione, allora forse ciò richiede un boicottaggio su ampia scala." [n.d.r. traduzione e sottolineatura a cura di D.C.]
Non vogliamo qui entrare nel merito di un giudizio positivo o negativo sul boicottaggio, ma porre una prima questione.
Se si è contrari al boicottaggio culturale in generale, e in questo caso alla politica del governo, alle istituzioni e amministrazioni accademiche dello stato di Israele, allora si dovrebbe organizzare una denuncia, lunga, di tutti i boicottaggi culturali posti in opera dallo stato di Israele contro gli intellettuali che nel mondo hanno cercato di far emergere le responsabilità dei governi israeliani dal 1948. Responsabilità innanzitutto nei confronti del popolo palestinese (e libanese), con la violazione dei diritti umani, il non adempimento alle risoluzioni dellONU, la negazione della pulizia etnica di circa 800.000 palestinesi del 1948-49 (Nakba), con massacri, confisca degli averi e delle proprietà.
Vi sono state negli anni scorsi durissime critiche, minacce e contestazioni, che proseguono, in alcuni paesi europei sul boicottaggio culturale delle università israeliane e delle iniziative culturali che coinvolgono Israele, promosso dai sindacati del pubblico impiego e del settore educativo inglesi (UCU, University College Union e BRICUP, British Committee for Universities of Palestine) e canadesi (CUPE, Canadian Union for Public Employee), per le violazioni di Israele dei diritti umani, del diritto internazionale, per il Muro ecc. Critiche che hanno parlato di attacco alla libertà accademica, alla libera circolazione delle idee. Durissime anche le contestazioni fatte al boicottaggio culturale promosso nel 2005-06 dallappello per il BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) su richiesta di 172 associazioni della società civile palestinese nel luglio 2005, nei riguardi delle istituzioni israeliane. Contestazioni denunciate da alcuni docenti inglesi, come il prof. Haim Bresheeth, presente al seminario di Madrid (luglio 2007) e poi nella conferenza di Londra (novembre 2007) sul tema One Democratic State e BDS. (per altre informazioni v. www.onestategroup.net) che ha parlato di censure, minacce e richieste di dimissioni (spesso messe in atto molto efficacemente) da parte di influenti personaggi legati alle comunità ebraiche anglosassoni nei riguardi di quei docenti inglesi che avevano sottoscritto il BDS.
Rico
rdiamo che intellettuali israeliani dissidenti, come Ilan Pappe, come Tanya Reinhart, morta a New York nel marzo 2007, per citare i più conosciuti, siano stati boicottati dalle loro Università e costretti a dimettersi e rifugiarsi allestero per lavorare in luoghi più aperti al dialogo.
Ricordiamo come in tempi recentissimi, a fine gennaio 2008, un intellettuale pacifista come Arun Gandhi (nipote di Gandhi), presidente della Commissione del M.K. Gandhi Institute for nonviolence, Università di Rochester, sia stato costretto a dimettersi per aver scritto, e proposto alla discussione, un articolo in cui affermava come Israele fosse inscritto in una globale cultura di violenza.
Ricordiamo i durissimi attacchi contro Jimmy Carter, lanno scorso per il suo libro Palestine: Peace not Apartheid, New York, 2006, di critica allapartheid messa in atto da Israele.
Ricordiamo gli attacchi contro i due accademici. John J. Mearsheimer (Università di Chicago) e Stephen M. Walt, rei di aver scritto un lungo saggio e poi il libro The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy (ora in trad. italiana La Israel Lobby e la politica estera americana, Mondadori 2007), testo bloccato per oltre un anno e tacciato immediatamente di antisemitismo dalla Anti Defamation League e da molti editorialisti dei maggiori giornalisti statunitensi, con dure minacce anche di dimissioni dagli incarichi accademici.
Ricordiamo il boicottaggio dellarcivescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, alla University of St. Thomas, ununiversità cattolica di St. Paul/Minneapolis, nel Minnesota nellautunno 2007.
Ricordiamo lattacco al sociologo Edgar Morin, incriminato con altri, su iniziativa dellavvocato Gilles-William Goldnabel in nome di France-Israël e della sua associazione Avocats sans frontières, per apologia del terrorismo e antisemitismo per un articolo sul massacro di Jenin del 2002, condannato in appello in Francia per diffamazione razziale nel 2005, poi assolto nel 2006 dalla Corte di Cassazione.
E si può continuare con molti altri minori o più gravi esempi. Ovunque qualche intellettuale coraggioso o coraggiosa esprima critiche forti alla politica del governo israeliano, subito arriva laccusa-ricatto di antisemitismo. I media italiani ed europei, salvo pochissimi, quotidianamente, mettono a tacere quanti cercano di partecipare alle discussioni, selezionando gli articoli e i commenti più moderati o funzionali al discorso pubblico.
Ricordiamo infine, a livello locale torinese, (ed essendo alcune di noi state partecipi ne diamo qui informazione e testimonianza), che un libro di sussidio scritto nel 2006 Israele/Palestina, Palestina/Israele, sussidio informativo, Comune di Torino 2006, per un approfondimento sulla storia di Palestina/Israele, con un lungo contributo sulleducazione alla nonviolenza, curato e proposto per le scuole da alcuni gruppi pacifisti e ong torinesi che si occupano di quella particolare situazione, e pubblicato a cura del Comune di Torino con prefazione dellAssessore alle Politiche Giovanili con delega a Relazioni e Cooperazione internazionale, Michele DellUtri, è stato oggetto di forti critiche e poi di boicottaggio da parte di esponenti della comunità ebraica locale. Dopo un invio di alcune centinaia di copie (su 1500) a qualche associazione, è sparito dalla circolazione nei primi mesi del 2007, su richiesta dellambasciatore israeliano e risulta oggi introvabile.
In tutti questi casi il boicottaggio culturale ha funzionato e funziona benissimo. E prevalgono come uniche voci in rappresentanza di Israele quelle degli intellettuali del cosiddetto campo della pace, a partire dal trio letterario, secondo la definizione dello storico israeliano Tom Segev e dello scrittore israeliano Yitzahk Laor, portavoce allestero di unimmagine edulcorata del potere israeliano, e molto alla moda in Italia, come Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossman (per non parlare della propaganda più spicciola e volgare del giornalista Magdi Allam dalle pagine del Corriere, e di molti altri che si limitano a discutere e affermare i più vieti luoghi comuni), come pure in Francia Bernard Henry-Levy, Alain Finkelkraut, André Glucksman e altri. (Cfr. anche Yitzhak Laor, Le nouveau philosémitisme européen et le « camp de la paix », La fabrique éditions, Paris 2007)
Su queste palesi contraddizioni la maggior parte degli intellettuali e accademici italiani ed europei tacciono. Un vero double standard.
In questo modo, il discorso più diffuso nel mondo dei media, nellaccademia, fra i politici della sinistra, e anche in alcuni settori del movimento pacifista in Italia ed Europa, diventa, con ineccepibile conseguenza logica, che il boicottaggio culturale non funziona, non è segno di libertà e democrazia ecc. Senza possibilità di una discussione civile fra le parti, né di un dialogo che tenga lontano ipocrisie, distorsioni della realtà, menzogne, negazioni.
Su tutto ciò sarebbe necessario invece una riflessione profonda, onesta e coraggiosa, si potrebbe dire di impegno etico-politico, di rinnovata assunzione di responsabilità morale. Ma tutto ciò esiste ancora?
Viviamo in una fase in cui gli intellettuali, gli accademici (salvo pochissimi, come pochissimi,12, furono i docenti universitari che in Italia non firmarono il giuramento di fedeltà durante il regime fascista) e quanti hanno ruoli nelle amministrazioni locali e istituzioni culturali, sono sottoposti ad un vero e proprio regime di censura preventiva su alcuni temi, fra i quali in particolare quelli che riguardano la politica dei governi israeliani nei confronti dei Territori occupati di Palestina, le cui durissime condizioni sono state spesso denunciate, con pochi riscontri nei media internazionali, in pochissimi giornali in Italia, da alcuni giornalisti israeliani come Gideon Levy e Amira Hass.
E tutti tacciono anche sul boicottaggio totale di USA, Comunità Europea e Israele nei confronti del popolo palestinese, sul suo strangolamento economico, sociale e di libertà di movimento dopo le libere elezioni del 2006 e la vittoria di Hamas. Condizioni denunciate soltanto da alti funzionari delle Nazioni Unite come Alvaro De Soto, James D. Wolfensohn e John Dugard.
I pochi coraggiosi tentativi di discussione e denuncia da parte di alcuni nostri intellettuali sono stati immediatamente bloccati con ricatti di ogni tipo, anche economico, sospensione di fondi e altro, da parte dei poteri fo
rti nazionali e globali. Questi ultimi, inseriti nelle strategie più ampie del complesso economico industriale mondiale, violento e criminale, non lasciano più spazio di libertà a nessuno. Perché il mondo permette allo stato di Israele di fare ciò che fa? si chiede lo storico israeliano Ilan Pappe. Non possiamo dire di non sapere ammonisce Gideon Levy. E le analisi di Mearsheimer e Walt e quello di Naomi Klein (Shock Economy, Rizzoli 2007), fra i pochissimi che riescono a pubblicare, rispondono molto bene a questa domanda.
Crediamo che quello descritto sia il vero boicottaggio contro la libertà della cultura che deve essere denunciato e sanzionato come una effettiva violenza da parte del sistema comunicativo, messa in atto dal potere.
7 febbraio 2008
Franca Balsamo, Università di Torino
Diana Carminati, già Università di Torino
Amedeo Cottino, già Università di Torino
Vincenzo Tradardi, già Università di Parma