A proposito di Hamas e della sharia. A Gaza, in Palestina e nel mondo.

il manifesto del 29 Giugno 2007

A proposito di Hamas e della sharia. A Gaza, in Palestina e nel mondo
arabo
Michele Giorgio
Gerusalemme

Lo scontro violento tra Fatah e Hamas a Gaza, conclusosi il 15 giugno
con la presa del potere da parte del movimento islamico, ha riaperto,
tra l’altro, il dibattito sull’islamizzazione della società
palestinese e qualcuno è arrivato addirittura a parlare di «escalation
teocratica» nei Territori occupati. In tanti hanno denunciato lo Stato
islamico che pure Hamas non ha proclamato a Gaza. Altri si sono
affrettati a ricordare che il movimento islamico palestinese ha le sue
origini nella Fratellanza musulmana egiziana descritta, senza se e
senza ma, come la «madre» dell’islamismo più radicale, mescolando
nello stesso pentolone il teorico del Jihad più violento come Sayyed
Qutub e i leader di Hamas. Tutti uguali.
Argomentazioni non nuove che, tuttavia, dietro l’obiettivo ufficiale
dell’indagine sulla cosiddetta «islamizzazione dal basso» nei
Territori occupati, mira in realtà a spostare il fenomeno Hamas dal
conflitto israelo-palestinese al contesto del «jihad globale». E visto
che il movimento islamico è tanto popolare nei Territori occupati,
questi «analisti» lasciano intendere che i palestinesi hanno meno
diritto di prima alla sovranità e alla libertà. Non è peraltro
estraneo a questo ragionamento il ricordare sempre più di frequente –
lo ha fatto qualche giorno fa anche Liberazione – le simpatie per il
nazismo del Gran mufti di Gerusalemme Hajj Amin al Husseini.
L’equazione è semplice: se il mufti palestinese è stato nazista vuol
dire che tutti i palestinesi di quell’epoca hanno tifato per Hitler.
Una trovata perversa ma priva di qualsiasi logica. Sarebbe come
accusare il tutto movimento sionista di aver collaborato con il
nazismo solo perchè il suo alto funzionario Rezso Kasztner aveva avuto
strette relazioni con Adolf Eichmann.
L’ideologia di Hamas è nota. Il suo progetto sociale e giuridico,
fondato sulla sharia (il codice islamico), è assai lontano dall’idea
di progresso e di uguaglianza tra uomini e donne che a sinistra (anche
in Palestina) dobbiamo portare avanti. Ma i diritti delle donne e il
progresso in realtà non interessano ad un buon numero di coloro che si
scandalizzano di fronte alla società che ci fa intravedere Hamas.
Queste persone «tralasciano» il dato che la sharia è già fonte di
legge in tutti i paesi a maggioranza islamica e così anche in
Cisgiordania e Gaza. E questo, per quanto non ci piaccia, è accettato
dalla stragrande maggioranza delle popolazioni (uomini e donne) di
quei paesi, pur non mancando forze politiche (minoritarie) o individui
che vorrebbero una legislazione laica. Certo ci sono differenze tra
Stato e Stato, la Tunisia non è il Qatar, ma sul diritto di famiglia
queste diversità diventano, in gran parte dei casi, impercettibili.
Sotto l’autorità del moderato presidente Abu Mazen, oppure dei
filo-occidentali re Abdallah di Giordania o del presidente egiziano
Mubarak, una donna già oggi è gravemente discriminata. La famosa
scrittrice egiziana Nawal Saadawi è stata costretta a emigrare non
solo perché oggetto degli attacchi degli estremisti islamici ma anche
perché il regime presunto «laico» non le ha offerto alcuna protezione
(infatti è una esponente dell’opposizione) e perché, in ogni caso, non
è «difendibile» chi critica la sharia. Nessuno tra quelli che mettono
in guardia dal pericolo Hamas, punta l’indice contro Mubarak.
A differenza di Hamas, gran parte dei regimi arabi, che pure hanno le
prigioni piene di dissidenti ed oppositori e praticano la tortura, non
sono oggetto delle critiche della sinistra italiana preoccupata dalla
«nascente teocrazia palestinese», perché sono considerati governi
«amici» che tengono a bada gli islamisti e mantengono una linea
moderata verso Israele.
Poco importa se negano anche loro i diritti delle donne. Abu Mazen,
anche quando per oltre un anno ha controllato il parlamento, non ha
fatto nulla per modificare le leggi e permettere alle donne di
ottenere la custodia dei figli in caso di divorzio. Ma pochi tra
quelli che si pongono interrogativi sul progetto sociale islamico, si
sognerebbero di accusare il presidente dell’Anp di negare diritti
fondamentali a metà del suo popolo. Così come non si permetterebbero
di definire scandaloso il fatto che nel laico e democratico Israele
non esista il matrimonio (e il divorzio) civile e che gran parte del
diritto di famiglia sia regolato dalle corti rabbiniche (sono migliaia
le coppie ebree alle quali i rabbini rifiutano il riconoscimento
perché non sono sposate secondo il rito ortodosso).
L’attacco ad Hamas in realtà non avviene a causa della sua idea di
società, ma perchè il movimento islamico si rifiuta di riconoscere
l’esistenza di Israele, non è una forza politica amica e condanna la
politica statunitense ed europea in Medio Oriente. Lo dimostra
l’atteggiamento amichevole che i governi europei e l’amministrazione
americana hanno nei confronti dell’Arabia saudita, paese che
ugualmente non riconosce Israele, dove il wahabismo calpesta i diritti
più elementari delle donne e dove anche i divertimenti più innocui,
come fumare il narghilé o ascoltare la musica in pubblico, sono
considerati peccato. Il segretario di Stato americana Condoleezza Rice
ha dichiarato durante una visita a Riyadh che ogni paese ha i suoi
tempi di sviluppo e progresso, in risposta a chi, anche
nell’amministrazione, protestava per l’esclusione delle donne dal
voto. La monarchia saudita a differenza di Hamas si è guadagnata
l’impunità alleandosi con Washington e l’Occidente e rendendosi
protagonista dell’iniziativa di pace araba con Israele. Di conseguenza
può continuare a rendere le donne fantasmi e a tagliare a ritmo
quotidiano le teste di persone condannate a morte per possesso di
pochi grammi di hashish, senza sentirsi criticare. I leader
palestinesi non hanno motivo di preoccuparsi, dovranno solo essere
nostri «amici» e di Israele e in questo modo potranno fare come
vorranno: sharia, corruzione, abusi e tutto il resto.

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