Abu Marzouk: Hamas non intende rispettare un trattato.
Abu Marzouk, vicepresidente dell’Ufficio politico di Hamas, dice di sentirsi pronto a nuovi rapporti con Israele.
In un’intervista esclusiva alla pubblicazione ebraica statunitense Jewish Daily Forward, Abu Marzouk ha parlato del suo futuro politico, del rapporto con Israele, dello statuto di Hamas e dell’impatto della Primavera araba sulla sua organizzazione.
Di Larry Cohler-Esses
Il Cairo – Qualsiasi accordo tra Israele e l’Autorità palestinese sarà oggetto di profondi cambiamenti, se Hamas prenderà il potere in uno Stato democratico palestinese, ha dichiarato l’alto membro di Hamas al Forward, in un’intervista esclusiva di ampio respiro.
Musa Mohammad Abu Marzouk, il funzionario che occupa il secondo più alto rango di Hamas, ha dichiarato che la sua organizzazione considererebbe un accordo tra Israele e l’Autorità palestinese – anche se ratificato con un referendum da parte di tutti i palestinesi – più una hudna, o un “armistizio”, una “tregua”, che un trattato di pace. “Una volta al potere – egli ha riferito – Hamas si sentirebbe libero di allontanarsi dalle disposizioni del contratto che parlano di ‘trattato di pace’, spostandosi, piuttosto, verso un rapporto di ‘tregua armata’”.
“Non riconosceremo Israele come Stato”, egli ha sottolineato. “Sarà piuttosto un rapporto simile a quello che c’è tra Libano e Israele, o tra Siria e Israele”.
La conversazione che segue riporta solo in parte i contenuti dell’intervista di cinque ore e mezza, svoltasi in due giorni diversi, tra Abu Marzouk e il Forward: si tratta della prima intervista approfondita rilasciata da un alto leader di Hamas a una pubblicazione ebraica.
Abu Marzouk, vicedirettore dell’Ufficio politico di Hamas, ha in gran parte colto l’occasione per argomentare le posizioni di lunga data di Hamas. Contrariamente a quanto dichiarato da alcuni media, egli non ha accennato ad alcuna possibilità di avvicinamento, da parte di Hamas, alle condizioni stabilite dal Quartetto per il Medio Oriente, relativamente al moribondo processo di pace. Ciononostante, Abu Marzouk non ha escluso la possibilità di un futuro rapporto più accomodante con Israele.
A prescindere dal contenuto delle sue osservazioni, diversi osservatori, veterani dell’organizzazione islamica, considerano il fatto stesso che l’intervista abbia avuto luogo, un grande segnale di sommovimento interno ad Hamas.
Secondo Shlomi Eldar, che ha curato la cronaca su Hamas da Gaza, per il canale televisivo israeliano Channel 10 e altri media, dal 1991, “il fatto che Abu Marzouk abbia accettato di parlarvi, indipendentemente da ciò che ha detto, è quasi più importante dei dettagli. Il suo obiettivo è far sì che gli ebrei americani convincano gli israeliani che Hamas non è una bestia intrattabile”.
Ma David Makovsky, direttore dell’Istituto per le politiche del vicino oriente di Washington, si è concentrato maggiormente sul contenuto. “Purtroppo – egli ha detto – è una conferma per tutti coloro che considerano Hamas lontano dal rappresentare un interlocutore palestinese legittimo”.
In alcuni casi, Abu Marzouk – uno dei tre principali candidati alle prossime elezioni interne per la carica al vertice di Hamas – si distanzia, nelle sue argomentazioni, dalla posizione e dal comportamento attuali dell’organizzazione. Nel suo appello per una hudna con Israele, egli sembra quasi una colomba supplichevole, anche se le condizioni e i dettagli suggeriscono un atteggiamento molto più rigido. D’altra parte, la sua giustificazione del diritto di Hamas a lanciare operazioni contro i civili corrisponde, di fatto, all’assenza di tali attacchi, negli ultimi anni, all’interno dei confini israeliani antecedenti al 1967.
Durante i due giorni di dibattito, Abu Marzouk ha toccato vari argomenti, dall’olocausto alla solidarietà degli ebrei americani con Israele, all’impatto della Primavera araba su Hamas e ai passaggi antisemiti nello statuto dell’organizzazione.
Ma il suo discorso è parso più appassionato nel sollecitare l’adesione a una proposta di hudna, idea che egli per primo propose nel 1994.
“Instauriamo una relazione tra i due Stati sul territorio storico palestinese, come una tregua tra le due parti”, egli ha proposto. “Sarebbe meglio della guerra, e meglio della resistenza continua contro l’occupazione. E sarebbe anche meglio dell’occupazione israeliana di Gaza e della Cisgiordania, causa di problemi e difficoltà per entrambe le parti”.
Incalzato sulle preoccupazioni che l’obiettivo di Hamas, anche in caso di tregua, possa rimanere la distruzione di Israele come Stato, e che un armistizio darebbe a Hamas il tempo di ricostruirsi un esercito a tal fine, Abu Marzouk ha dichiarato: “E’ molto difficile prevedere cosa ci sarà tra 10 anni da ambo le parti. Può darsi che la mia risposta, oggi, sul riconoscimento di Israele, sia completamente diversa da quella che potrei dare tra 10 anni”.
Ma alla domanda se egli si sentirebbe disposto, in caso di garanzie di incolumità fisica, a recarsi a Gerusalemme per negoziare con Israele, nei dettagli, il tipo di tregua, la sua risposta è stata negativa.
Hamas respinge i negoziati diretti con Israele. Abu Marzouk ha detto che sotto una precedente intesa con Fatah, la fazione che controlla l’Autorità palestinese in Cisgiordania, Hamas ha permesso i negoziati tra l’Autorità palestinese e Israele, nonostante le sue obiezioni. Egli ha poi ripetuto la richiesta della sua organizzazione relativa all’approvazione, tramite referendum, di qualsiasi risultato, da parte di tutti i rifugiati palestinesi, non solo di quelli di Gaza e della Cisgiordania. “Tutti i palestinesi dovrebbero votare”, ha spiegato.
Egli ha anche chiarito che un simile accordo dovrebbe comprendere il pieno diritto dei palestinesi al ritorno sui propri territori, occupati oggi da Israele.
E qui le cose si complicano. Secondo Abu Marzouk, lo stesso ipotetico accordo potrebbe essere considerato, dall’Autorità palestinese, come un trattato di pace, e da Hamas come una semplice tregua.
“Quando si raggiungerà un accordo, dal nostro punto di vista si tratterà di una hudna”, ha sottolineato.
Non si tratta solo di sottigliezze semantiche. Fatah e Hamas hanno un’immagine del rapporto da tenere con Israele profondamente diversa, come in un classico film di Kurosawa, nel quale due parti opposte osservano gli stessi eventi, interpretandoli in modo radicalmente diverso e, in definitiva, inconciliabile.
Per Fatah, un trattato di pace con Israele comprende il riconoscimento reciproco, gli scambi diplomatici, il commercio, il movimento delle persone attraverso i confini e la cooperazione regionale. Oltre a questo, esso include uno stato palestinese demilitarizzato e un limitato diritto al ritorno dei palestinesi.
E la visione che ha Hamas, dell’hudna?
Abu Marzouk ha risposto con una domanda: “Qual è il rapporto attuale tra Israele, Siria e Libano?” La risposta – confini chiusi, mancanza di rappresentanza diplomatica, armi puntate l’uno contro l’altro, in preparazione di una guerra possibile – potrebbe non essere così importante finché Fatah dovesse rimanere il partito al potere in uno Stato palestinese. Ma sia Fatah che Hamas concordano sul fatto che il loro nuovo Stato sarà una democrazia. Sorge spontanea la domanda: che ne sarà di un ipotetico trattato di pace negoziato da Israele con l’Autorità palestinese sotto Fatah, nel momento in cui Hamas dovesse raggiungere il potere?
“Rabin firmò il Trattato di Oslo”, ha risposto Marzouk. “E Natanyahu, ottenuto il potere, ne apportò numerose modifiche”.
Marzouk non considera possibile che alcun tipo di trattato possa eventualmente bloccare Hamas in futuro. “Basta leggere la storia”, egli dice.
Al momento Hamas, secondo quanto sostengono molti esperti, rappresenta l’ultimo palcoscenico sul quale si gioca il dramma rivoluzionario del mondo arabo. Il maremoto che ha colpito i dittatori a Tunisi e al Cairo, ha spinto i leader di Hamas a lasciare la storica sede di Damasco, dove la Primavera ha assunto tinte rosso sangue, per ottenere ospitalità altrove, nel Golfo persico, in Giordania e a Gaza, dove i funzionari democraticamente eletti si ritrovano a governare un territorio sotto assedio israeliano.
Abu Marzouk si è invece stabilito in una villa di tre piani a un’ora e mezza dal centro del Cairo, in un’area pianificata per le classi più elevate, chiamata New Cairo. Nelle ampie stanze ancora in parte disadorne, egli lavora tra un codazzo di guardie del corpo e assistenti. Sessantunenne dal tono di voce tranquillo, egli si sforza di parlare un’inglese arrugginito: sono lontani i tempi del master in gestione delle costruzioni conseguito presso l’università statale del Colorado, o quelli del dottorato in ingegneria industriale in Louisiana o i periodi spesi in varie parti degli Stati Uniti, dove tramite il suo lavoro, agli inizi degli anni Novanta, ha raccolto fondi milionari per Hamas.
“Lo chiamavano ‘il genio’”, ha dichiarato il giornalista Shlomi Eldar, il cui nuovo libro su Hamas sarà pubblicato a maggio in Israele. “Nel 1989 e nel 1992 egli ha salvato Hamas durante periodi di crisi. Con i fondi raccolti principalmente negli Stati Uniti e in Europa, tramite i collegamenti con il fondo islamico mondiale, ha permesso la costituzione dell’infrastruttura di Hamas a Gaza”.
In quel periodo Abu Marzouk ricopriva la carica di direttore capo dell’ufficio politico di Hamas. All’interno del movimento egli era considerato il protetto del fondatore, Sheikh Ahmed Yassin, dal quale fu scelto da giovanissimo e destinato a grandi cose. Con l’aiuto di Yassin gli è stato permesso di frequentare l’università ‘Ain Shams del Cairo, per poi proseguire gli studi e laurearsi negli Stati Uniti.
Israele sostiene – ma Abu Marzouk nega – che la sua raccolta di fondi sia stata in parte destinata al sostegno di azioni terroristiche. L’impresa tentacolare di Hamas comprende cliniche mediche, orfanotrofi, scuole e agenzie di servizi sociali, che sono fonte di lavoro nei territori occupati oggi, come lo sono stati in passato. A quei tempi la raccolta di fondi non era ancora considerata illegale. Fu solo nel 1995 che il governo degli Stati Uniti indicò in Hamas un’organizzazione terrorista.
La gratitudine sociale e le profonde radici maturate nel corso degli anni tra i palestinesi, hanno reso Hamas una forza formidabile al tempo della prima Intifada, nel 1988. L’attacco scagliato contro Israele fu alquanto inaspettato, essendo stato, il movimento religioso, fino ad allora incoraggiato da Israele in chiave anti-Fatah e in opposizione ad altri gruppi militanti dell’Olp.
Hamas si oppose risolutamente agli accordi di Oslo e agli sforzi compiuti dal suo acerrimo rivale, l’Olp, e da Israele, atti a ostacolare la soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese. Dall’inizio del processo di Oslo, Hamas si oppose con atti terroristici, bombardamenti e, infine, attacchi suicidi contro civili in Israele. Dalla sua fondazione, Hamas rivendica l’uccisione di 1365 militari sionisti – una statistica che probabilmente comprende combattenti e non combattenti, dal momento che il gruppo ha più volte dichiarato, in passato, di considerare tutti gli israeliani dei combattenti.
Nel 1993 Abu Marzouk lasciò gli Stati Uniti per trasferirsi in Giordania, dove raggiunse altri membri dell’ala “dissidente” di Hamas allo scopo di fondare il quartier generale del gruppo a ‘Amman. Il re di Giordania, Hussein, coltivava da tempo buoni e discreti rapporti con gli affiliati giordani della Fratellanza musulmana, e ad Hamas, fondato come ramo palestinese del movimento islamico, vennero offerti degli uffici nella capitale giordana al fine di impostare una linea politica proprio a ridosso di Israele.
Ma in seguito al trattato di pace firmato dalla Giordania con Israele nel 1994, i funzionari israeliani fecero pressioni su re Hussein, finalizzate all’espulsione del gruppo. Anche gli Stati Uniti si unirono alle pressioni, alle quali si aggiunse poi l’Olp, che vedeva in Hamas la più grande minaccia interna al proprio potere.
La risposta di re Hussein, che preferiva mantenere i potenziali nemici vicini, fu l’espulsione di Abu Marzouk, che ritornò negli Stati Uniti nel 1995, dove venne arrestato in quanto il suo nome era stato inserito in un elenco di terroristi sotto sorveglianza. Un’ispezione del suo bagaglio rivelò ciò che sembrava provare la detenzione di numerosi conti bancari off-shore e americani, e un’ispezione compiuta su sua moglie portò al sequestro di un’agenda contenente diversi nominativi di individui considerati, dalle autorità americane, estremisti mediorientali. Immediatamente dopo il suo arresto, Israele ne chiese a Washington l’estradizione, per processarlo con l’accusa di terrorismo.
In seguito a tali eventi, Abu Marzouk passò un anno e mezzo nel carcere metropolitano di Manhattan, mentre il suo avvocato, Stanley L. Cohen, cercava senza esclusione di colpi di impedire l’estradizione. Alla fine fu lo stesso Abu Marzouk, stanco di aspettare in carcere, a chiedere a Cohen di desistere negli appelli. Avrebbe accettato di recarsi a Gerusalemme, per affrontare gli israeliani in quello che prometteva di essere il processo del secolo.
Ma poi il governo israeliano cambiò idea. L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele comunicò a Washington che il neo-eletto governo Netanyahu non era sicuro di volersi occupare del caso, e, in un incontro tra l’inviato di Washington a ‘Amman e re Hussein, si delineò un’ulteriore via d’uscita. Hussein accettò di riprendersi Abu Marzouk.
Nel 1997 egli tornò quindi in Giordania, aspettandosi di essere accolto come l’eroe di Hamas, che aveva sfidato e battuto Israele. Ci si aspettava la pronta restituzione, da parte di Khaled Meshaal, un attivista di Hamas con radici in Kuwait, delle chiavi dell’ufficio politico che nel frattempo aveva gestito ad interim.
Ma nel settembre 1997, Netanyahu, forse senza intenzioni precise, capovolse il trionfo di Abu Marzouk: egli approvò un colpo del Mossad rivolto a Meshaal, che finì in modo orribile con la cattura dei sicari in fuga. Per liberare la squadra, Netanyahu fu costretto a rilasciare 70 detenuti palestinesi, compreso il prigioniero più importante: Yassin. Non solo, egli dovette anche impegnarsi a salvare la vita di Meshaal, fornendo l’antidoto contro l’agente tossico che gli era stato somministrato.
La stella di Abu Marzouk era affondata. “Il giorno in cui tentarono di assassinare Meshaal, fu il giorno in cui proprio Meshaal, divenne il leader”, scrisse l’influente giornalista Ranya Kadri. “L’uomo che morì quel giorno fu Abu Marzouk. Nessuno voleva più conoscere la sua opinione, fu un tripudio per Meshaal”.
Da quel momento Abu Marzouk è stato il vice-direttore di Meshaal. I due sono colleghi e rivali. Almeno in tre diverse occasioni Abu Marzouk ha tentato di riconquistare la posizione di leader, per mezzo di elezioni segrete tenute dal Consiglio della Shura, l’organo consultivo clandestino di Hamas. Ma ogni volta Meshaal ne è uscito vincitore.
Ma lo scorso gennaio, a sorpresa, Meshaal ha annunciato le proprie dimissioni. Non si sa se il Consiglio della Shura accetterà le dimissioni quando, in data segreta, ma prossimamente, si riunirà. I principali candidati ora sono tre: Meshaal, Abu Marzouk e Isma’il Haniyeh, eletto primo ministro dell’Autorità palestinese nel 2006 e, da allora, capo effettivo di Gaza. La sfida si svolge in un clima particolarmente teso tra Meshaal e Haniyeh.
Intanto, Shlomi Eldar fa sapere che Israele considera la questione irrilevante, dal momento che “il governo non ne vuole sapere di Hamas”.
Una serie di incontri tra i leader di Fatah e quelli di Hamas è stata seguita da ripetuti annunci di un accordo imminente. Ma tale accordo ancora non si è concretizzato, e Abu Marzouk ritiene che nessuna soluzione sia all’orizzonte, essendo per ora le due parti impegnate a risolvere difficoltà prioritarie sia nella Striscia di Gaza che in Cisgiordania.
Se l’appello di Abu Marzouk a una hudna suona alquanto moderato, la sua retorica sugli attacchi di Hamas contro Israele indica una aggressività che non corrisponde ai fatti.
L’ultimo attacco suicida attribuito a Hamas avvenne nell’agosto 2004, quasi 8 anni fa – un attacco su due autobus a Beersheba, che causò 16 vittime. Da allora, tuttavia, Israele sostiene di aver sventato attacchi terroristici sponsorizzati da Hamas in Israele, e alcuni attacchi, anche fatali, contro coloni ebrei in Cisgiordania si sono verificati.
Dall’operazione Piombo Fuso del 2008-2009 Hamas ha cessato di lanciare razzi da Gaza verso il sud di Israele, e, fino al mese scorso, l’organizzazione ha cercato di impedire il lancio di razzi da parte di altri gruppi. Il 9 marzo, tuttavia, Israele ha scatenato un attacco assassino a Gaza contro un militante di un gruppo accusato da Israele di pianificare un attacco. Ciò ha scatenato una raffica di circa 200 razzi esplosi su Israele da altri gruppi, che Hamas non è riuscito a controllare. L’escalation delle rappresaglie israeliane non si è fatta attendere, e grazie all’intervento egiziano è stata concordata una tregua.
Al termine degli scontri si sono contate 25 vittime palestinesi, in parte militanti e diversi civili. Nessuna vittima, invece, da parte israeliana.
Abu Marzouk ha annunciato l’intenzione di Hamas di abbandonare la resistenza armata contro Israele, per approdare a una resistenza popolare di massa contro il governo israeliano. Egli racconta che all’incontro del Cairo, nel novembre 2011, i gruppi coinvolti si sono chiesti quali possibili attività condividere. La decisione comune è stata la resistenza civile di massa.
“Una tale soluzione può rendere più facile la riconciliazione”, egli ha dichiarato. “Ed essa non equivale ad abbandonare il diritto e l’opportunità di condurre operazioni militari”, ha aggiunto con fermezza.
Uno sguardo attento a un report pubblicato da France Presse rivela alcune osservazioni importanti a quanto pare sfuggite al Time: “Possiamo ora lavorare su dei punti comuni”, ha dichiarato Meshaal. “Finché ci sarà un’occupazione sul nostro territorio avremo il diritto di difenderci con tutti i mezzi, compresa la resistenza militare”.
Parlando degli effetti della Primavera araba, in un altro contesto, Abu Marzouk ha aggiunto un’ulteriore considerazione: “In seguito alle elezioni del 2006, Hamas non è più lo stesso. In quanto partito di opposizione, non puoi dire niente; ma nessuno si aspetta che tu non faccia nulla. Ma dopo essere stato eletto devi operare in concreto, ed è molto difficile se non ottieni alcun risultato”.
Parlando di terrorismo, il leader ha poi difeso risolutamente le azioni dell’organizzazione contro i civili. Egli ha ricordato che le vittime palestinesi, danno collaterale del fuoco israeliano, sono state migliaia di più di quelle causate da Hamas. “Non è possibile paragonare i civili uccisi da Israele con quelli uccisi dalla resistenza: i numeri causati da Israele sono enormi, l’azione è azione. Ma non si possono confrontare le parole. L’assassinio è assassinio”.
In certi momenti Abu Marzouk è parso sostenere che i leader di Hamas che pubblicamente hanno celebrato tali uccisioni non stessero parlando per l’organizzazione, o che Hamas non abbia diretto e programmato essa stessa tali operazioni, o, almeno, che esse non fossero dirette contro obiettivi civili. “Non c’è un portavoce della resistenza. Ognuno parla delle proprie azioni come se si trattasse della politica della resistenza, e ciò non è corretto. La nostra politica è… contraria alle uccisioni di civili”.
Quando si verifica la morte di civili “non c’è alcuna pianificazione”, egli sostiene. “E’ molto difficile vendicarsi e sentirsi perfetti. Ma quando un tuo fratello o un tuo concittadino viene ucciso, senti il desiderio di vendetta, che è difficile da disapprovare”.
Mouin Rabbani, redattore di stanza in Giordania del Middle East Report, e profondo conoscitore di Hamas, è sorpreso di tali osservazioni, e si stupisce che Abu Marzouk “non abbia ripetuto le giustificazioni tradizionali”.
“In passato Hamas ha manifestato interesse a raggiungere un accordo bilaterale con Israele, in base al quale ci si impegna a non colpire civili o infrastrutture civili. Giustificazione ricorrente è sempre stata quella di considerare ogni israeliano un soldato, e sconfessare tali azioni è un comportamento alquanto sorprendente da parte loro”.
La prima cosa che ho chiesto ad Abu Marzouk è come mai egli avesse accettato di parlare in maniera estesa e approfondita a una testata ebraica.
“Noi non abbiamo nulla contro gli ebrei o contro la loro religione”, ha risposto. “Il fatto è che gli israeliani hanno cacciato la mia famiglia, hanno occupato la mia terra e ferito migliaia di palestinesi. Devo distinguere tra gli ebrei responsabili di tali atti contro il mio popolo e gli ebrei americani, come lei, che non ci hanno mai fatto nulla di male”.
Abu Marzouk ha evitato di affrontare la questione del forte sostegno e della simpatia elargita dagli ebrei americani allo Stato di Israele come Stato ebraico.
Ciò ha reso ancor più sorprendenti i commenti rilasciati il giorno dopo, in difesa dello statuto di Hamas, documento del 1988 contenente diverse sezioni che sono state ampiamente condannate come anti-semite.
Il primo di questi passi cita un hadith del Corano – un detto del profeta Maometto: Il Giorno del Giudizio non avverrà finché i musulmani combatteranno gli ebrei (uccideranno gli ebrei), i quali si nasconderanno dietro agli alberi e alle rocce. Alberi e rocce diranno “Oh musulmani, oh ‘Abdullah, c’è un ebreo dietro di me, venite ad ammazzarlo. Solo l’albero Gharkad non dirà nulla, poiché è uno degli alberi degli ebrei”.
La seconda parte cita dei passaggi dai Protocolli dei Savi di Sion, un falso dell’inizio del secolo scorso ora comunemente attribuito alla polizia segreta dello zar di Russia, che raffigurano il mondo ebraico come una nefasta forza internazionale che insidia la storia occidentale. Nei passaggi citati il “sionismo mondiale” è raffigurato come il responsabile, tra le altre cose, della rivoluzione francese e della rivoluzione comunista, del controllo dei media e della finanza mondiali, delle macchinazioni delle “società segrete” – tra cui la Massoneria, il Rotary Club e i Lions – in diverse parti del mondo, fondate con il “proposito di sabotare le società e raggiungere gli interessi dei sionisti”.
Abu Marzouk sostiene che lo statuto non governa l’organizzazione, e che “molte delle politiche di Hamas non considerano lo statuto”.
Alla precisa richiesta di modificare i passaggi contro gli ebrei, egli riconosce che tali rettifiche non sono previste, e difende l’hadith citato in quanto preso fuori contesto. “Il passaggio – egli spiega – non si riferisce a tutti gli ebrei, ma solo a coloro che si trovano in Palestina”.
In quanto ai Protocolli, “Sono stati i sionisti a scriverli, sebbene neghino di averlo fatto”.
Informato della falsità del documento, Abu Marzouk appare perplesso: “Davvero? E’ la prima volta che lo sento dire”.
Per un leader che è vissuto e ha studiato in occidente, una simile risposta sembra indicare un carattere alquanto isolato e parrocchiale, del movimento, pur se in cerca di una più vasta legittimazione.
L’influenza della Primavera araba è vista come una benedizione per l’organizzazione. La crescita dei gruppi islamici in Egitto e altrove può contribuire a mantenere la questione palestinese in primo piano, egli sostiene, anche se, per ora, i gruppi dei Fratelli musulmani si occupano primariamente di questioni nazionali.
Riguardo al dibattito scatenato dalla Primavera araba all’interno di Hamas, sull’eventualità di convertire il gruppo in un pieno partito politico, “personalmente ritengo che la natura di Hamas sia duplice: in parte partito politico e in parte resistenza, e in quanto tale, indivisibile”, egli ha specificato.
Ha poi dimostrato perplessità riguardo le tematiche emerse dalla Primavera araba, quali la resistenza civile e la domanda di apertura, la trasparenza e la democrazia, e la possibilità che esse possano influenzare Hamas.
Infine, potrebbe Hamas considerare di aprire uno spiraglio al dibattito interno al Consiglio della Shura, che si appresta a eleggere un nuovo leader senza che nessuno – nemmeno i presunti membri che lo compongono – sa chi siano gli altri membri?
“Questo non interessa per niente alla gente”, ha risposto Abu Marzouk.
Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice