Al teatro di Annapolis torna in scena la road map.

Israele-Palestina
Al teatro di Annapolis torna in scena la road map
Michele Giorgio

Lo spettro della Road Map si aggira di nuovo per il Medio Oriente. Dopo aver obiettato, intimato, minacciato, il presidente palestinese Abu Mazen si prepara ad andare all’incontro di Annapolis, previsto a fine mese, sulla base delle condizioni poste dal governo di Ehud Olmert. I negoziatori israeliani ieri hanno annunciato che sono stati fatti «progressi importanti» sulla dichiarazione congiunta che le due parti si sono impegnate a sottoscrivere in terra americana.
Abu Mazen e i suoi più stretti collaboratori, in sostanza, hanno accettato il principio secondo cui i progressi ad un futuro tavolo di trattative dipenderanno dal rispetto degli obblighi palestinesi fissati nella prima parte della Road Map, vale a dire quelli relativi al disarmo e allo smantellamento dei «gruppi terroristici». Appena qualche settimana fa il presidente dell’Anp minacciava di rimanere a casa, invocava la conclusione entro sei mesi del negoziato e lasciava intendere che, di fronte a un fallimento dell’incontro, avrebbe dato le dimissioni. Ora è pronto ad accettare un piano come la Road Map, frutto dei pesanti diktat di Israele, che lo scorso luglio anche una decina di ministri degli esteri europei, tra cui l’italiano Massimo D’Alema, avevano dichiarato impraticabile e paralizzante. Siamo al deja vu. Stessi volti dei protagonisti dell’ennesima kermesse diplomatica – a cominciare dal capo dei negoziatori dell’Anp, Abu Alaa – i dirigenti palestinesi che fanno la voce grossa e poi cedono di schianto, identiche le condizioni poste da Israele. Paramnesia che rischia di trasformarsi in un incubo. Mentre Israele si astiene, dal fornire assicurazioni sul blocco immediato e totale della colonizzazione ebraica della Cisgiordania – che pure è un punto centrale della Road Map – il presidente palestinese accoglie il principio secondo il quale il nodo da sciogliere è quello della sicurezza, della fine di ogni forma di ribellione, armata o pacifica, all’occupazione.
Accetta la visione del ministro degli esteri israeliano, Tzipi Livni, che qualche settimana fa, incontrando i rappresentanti della Nato, ha spiegato che il conflitto israelo-palestinese non è generato dall’occupazione, né dall’oppressione di un popolo ai danni di un altro popolo, ma da uno scontro tra «moderati» ed «estremisti». Al contrario mette nel cassetto il principio, condiviso anche dai pacifisti israeliani, che solo il rispetto della legalità internazionale e la fine totale dell’occupazione possono portare a una soluzione che garantisca i diritti di entrambi i popoli e non solo quello più forte. La recente scelta di Nablus, storica roccaforte dell’Intifada, per avviare l’operazione «law and order» in Cisgiordania – fortemente voluta dagli Usa, pronti a donare un milione di dollari per sostenerla – è stata ovvia per un Abu Mazen, che non sembra aver tratto insegnamenti dall’esperienza e neppure analizzato le cause che hanno portato Hamas a vincere le elezioni legislative e a prendere il potere a Gaza a danno del suo partito, Fatah.
A Nablus la Road Map è già una realtà, viene applicata dalla guardia presidenziale che, sostituendosi alle forze armate israeliane, va a caccia dei militanti dei gruppi armati, inclusi quelli di Fatah, e tiene a bada Hamas. Intorno però non cambia nulla: i coloni israeliani dettano legge, il «muro di separazione» annette terre e nega diritti, l’acqua della Cisgiordania viene deviata in gran parte verso Israele. E se l’Anp accetta tutto questo, per il mondo arabo cosiddetto «moderato» sarà automatico fare altrettanto. Ad Annapolis la Siria invece non ci andrà. Del Golan occupato non si discuterà in alcun modo e perciò ha scelto di non partecipare all’operazione di pubbliche relazioni organizzata dagli Usa. La pace vera è ben diversa dal surrogato che mette in vendita l’Amministrazione Bush.
Da www.ilmanifesto.it del 10 novembre

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