“Amira”, il movie che attacca la resistenza dei prigionieri palestinesi e delle loro famiglie

InfoPal. A cura di Angela Lano. Il film “Amira“, selezionato come candidato giordano per il miglior lungometraggio internazionale alla 94esima edizione degli Academy Awards, ha suscitato aspre polemiche nel mondo arabo e islamico e, in particolare, in Palestina, in quanto prende di mira i prigionieri e la loro resistenza, attaccando la pratica dell’inseminazione assistita. Ne abbiamo parlato con l’arch. Mohammad Hannoun, presidente dell’API-Associazione dei Palestinesi in Italia.

Dott. Hannoun, il lungometraggio “Amira” sta suscitando dure critiche tra i Palestinesi. Di cosa si tratta e quali sono le ragioni delle reazioni contrarie?

“Il film è un atto di guerra israeliano contro i prigionieri palestinesi e loro familiari, che usa indirettamente arabi – regista, produttori e attori -, per attaccare la resistenza palestinese. Se fosse un film israeliano, l’operazione di intelligence sarebbe palese a tutti: usando, invece, palestinesi, giordani e egiziani dissimula e copre il piano volto a gettare fango su questa forma di resistenza palestinese. Sappiamo che Israele ha fallito nella sua guerra per spezzare la volontà e la determinazione palestinese – pensiamo soltanto agli scioperi della fame diffusissimi tra i prigionieri politici palestinesi -, e ora ha deciso di attaccare valori come l’amore, la relazione di coppia, la famiglia, la riproduzione e l’identità familiare.

“Le coppie palestinesi reggono, malgrado la separazione fisica, l’isolamento tra il prigioniero e la sua famiglia, e questo progetto di inseminazione assistita dimostra al mondo che noi amiamo la vita. Il fatto di portare il seme del marito prigioniero – molti sono ergastolani – al di fuori del carcere, alla moglie generando nuova vita e nuova speranza, evidenzia un grande atto di amore e fiducia nel futuro, che questo film, sionista nella sua sostanza, vuole infangare”.

Nel film, la diciassettenne palestinese Amira scopre che lo sperma di suo padre era stato sostituito con quello di una guardia carceraria israeliana. Questo è un terremoto nella vita di un giovane. C’è qualche base realistica, in questa storia? C’è qualche possibilità che siano avvenuti degli scambi o sostituzioni?

“Non c’è alcuna possibilità che avvengano scambi con soldati israeliani, come vorrebbe raccontare il film. E’ un vile tentativo di aggredire la volontà palestinese di continuare a vivere e amare, e a generare nuovi ambasciatori della vita e della resistenza, che nascono e crescono fuori dalle tenebre, per continuare il lavoro dei genitori.

“Il film vorrebbe attaccare la tradizione palestinese e spaventare queste creature – oltre 100 nate con la fecondazione assistita – per diffondere il dubbio: siete i figli dei vostri nemici e non dei vostri genitori? Questa creatura cresce nel dubbio sulla sua identità. E’ una guerra diretta alla famiglia e alla società palestinese. La mentalità alla base di questa squallida operazione è sionista ed è rivolta a colpire lo spazio più intimo e forte del prigioniero: l’identità familiare. Una volta crollato questo muro di protezione, crolla la resistenza e la sua immagine, quella del prigioniero che fa di tutto per difendere la Causa, anche dentro al carcere e anche con la fecondazione assistita. Chi ha ideato questo film è un nemico dei diritti del popolo palestinese e lavora per l’occupazione israeliana”.

Effettivamente, sembra un’operazione politico-sociale ben studiata, che mina alla radice la famiglia palestinese, e in generale araba, dalle fondamenta: l’identità patrilineare. Pare un’altra operazione coloniali israeliana…

“Sì, va contro la cultura, la morale, la società e la religione del mondo arabo, e contro la resistenza dei prigionieri nelle carceri israeliane. L’hanno studiata bene e hanno usato gli arabi per realizzare questo attacco. E’ un film tutto sionista. La raccolta degli spermatozoi non passa mai attraverso la polizia israeliana, ma direttamente dal prigioniero ai familiari – moglie o madre, avvocati. E’ tutto palestinese al 100%. Si tratta di un progetto nazionale palestinese su cui i prigionieri hanno discusso a lungo, prima di avviarlo, e il cui l’obiettivo è trasmettere amore e volontà di vita e risolvere alcuni problemi familiari: la moglie del prigioniero, condannato all’ergastolo (alcuni hanno diversi ergastoli) o a lunghi anni di carcerazione, ha il dono di un figlio dal marito. Un grande dono di amore, a lei che ha accettato di rimanere al suo fianco, nonostante la separazione fisica. E poiché i carcerieri israeliani proibiscono che i coniugi possano passare anche una notte sola insieme, i prigionieri hanno discusso tra loro per trovare questa soluzione. Inoltre, sono state individuate cliniche mediche per la fecondazione, dove tutto viene controllato accuratamente, anche con analisi del DNA. Non c’è possibilità di spacciare il seme di un soldato israeliano per quello di un palestinese: ci sono tutte le garanzie che la raccolta è corretta. Sono 102 i bambini nati in questo modo ed è un successo. Questo film, dunque, è una dichiarazione di guerra contro l’umanità e contro la tradizione islamica: si getta discredito anche sulle donne e sulla linea familiare”.

Come viene fatta passare la raccolta dei campioni?

“I prigionieri, ogni tot, incontrano i familiari – madri, figli, avvocati -, e in queste situazione si fa passare, in modo segreto, bypassando le telecamere, la raccolta. E’ una guerra di intelligence… Ovviamente, la fecondazione delle madri avviene in ospedale, dove ci sono controlli”.

In generale, sulle questioni riproduttive, quali sono le linee-guida dell’Islam? Per esempio, sull’utero in affitto e le donazioni di spermatozoi o ovuli da parte di terzi?

“Sono piuttosto chiare e totalmente contrarie. Lo spermatozoo, l’ovulo e l’utero devono essere elementi all’interno della coppia: non ci possono essere donazioni o “affitti” esterni. La fecondazione assistita tra spermatozoo del marito e ovulo e utero della moglie, in caso di problemi riproduttivi nella coppia, sono permesse, ma mai l’intervento di un donatore esterno. L’identità genetica deve essere della coppia di sposi”.