Analisi: cosa sta fermando la terza intifada?

Ma’an. Di Al-Shabaka. Il ripetuto fallimento dei negoziati bilaterali mediati dagli Stati Uniti al fine di fermare e far indietreggiare il colonialismo aggressivo di Israele, alimenta regolarmente delle speculazioni su una terza intifada (rivolta) contro l’occupazione israeliana.
Ma una terza intifada dipende dall’interazione tra due serie di processi: da una parte dalla repressione collettiva e dalle condizioni disumane di vita sotto l’occupazione, e dall’altra dai cambiamenti avvenuti all’interno della società palestinese nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza, così come dal movimento politico palestinese in generale.
Processi che spingono verso una terza intifada
Sotto la copertura degli accordi di Oslo, Israele ha costruito uno stretto sistema di apartheid in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, segnato dalla sottomissione nazionale dei palestinesi, dalla negazione dei loro diritti collettivi, dalla loro umiliazione e dall’impoverimento di un numero di loro crescente.
I meccanismi utilizzati per mantenere questa sottomissione collettiva sono noti: il controllo e la colonizzazione di terre e di altre risorse naturali; il controllo dei confini, del commercio esterno e del rifornimento idrico ed elettrico; la violenza quotidiana dei coloni israeliani nei confronti  dei civili palestinesi e delle loro proprietà e la mancanza di rispetto per la santità dei luoghi sacri dei musulmani e dei cristiani, tra gli altri.
Inoltre, da Stato coloniale, Israele si è annesso Gerusalemme e dintorni, e sta svuotando sia Gerusalemme che l’area C creata a Oslo dai loro abitanti palestinesi, rimpiazzandole con ebrei israeliani. Vent’anni dopo Oslo, una persona su quattro, in Cisgiordania, è un colono.
Israele ha frammentato, e continua a frammentare deliberatamente la Cisgiordania e la Striscia di Gaza in «bantustan», con il sistema di strade israeliane che connettono direttamente gli insediamenti israeliani con le città israeliane all’interno della linea verde, con la costruzione del muro di separazione, di posti di blocco e blocchi stradali e con lo spietato assedio di Gaza.
L’occupazione israeliana ha anche creato e mantenuto le condizioni di dipendenza economica e finanziaria della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da aiuti esteri e crediti, creando un’economia controllata presso le due autorità palestinesi autonome in Cisgiordania e a Gaza, e un alto tasso di disoccupazione.
I palestinesi sono continuamente esposti a situazioni ad alto rischio, che comprendono limitazioni di movimento, demolizioni di case, coprifuochi e blocchi, arresto e detenzione, assassinii, incursioni militari e invasioni complete, come avvenne nel 2002 in Cisgiordania e nel 2008-’09 e nel 2012 a Gaza. Il milione e ottocentomila palestinesi imprigionati a Gaza affrontano anche il taglio del rifornimento elettrico, la scarsità di acqua potabile e le rigorose restrizioni nel rifornimento di carburante, di materiali da costruzione fondamentali, medicinali e altri beni e servizi necessari alla sopravvivenza quotidiana.
Tutto ciò ha costretto i palestinesi all’interno e all’esterno della Palestina storica a riconoscere la mancanza di prospettive per l’esistenza di uno Stato sovrano indipendente con Gerusalemme Est come capitale nel prossimo futuro, né alcun’altra forma di autodeterminazione significativa, per non parlare di una significativa messa in atto del diritto al ritorno per i profughi palestinesi ai loro paesi d’origine – anche considerando l’ignobile fallimento dei negoziati dell’aprile scorso, mediati dal Segretario di Stato Usa John Kerry.
Bisognerebbe osservare che gli accordi di Oslo non hanno sortito alcun cambiamento nella politica israeliana nei confronti del popolo palestinese dei Territori occupati del 1967. Anzi, essi si sono dimostrati una continuazione della politica coloniale di Israele dalla sua creazione nel 1948, delle pratiche di spopolamento di palestinesi indigeni e rimpiazzo con coloni israeliani, di demolizioni di abitazioni e altre violazioni dei diritti umani da entrambe le parti della linea verde.
Il processo descritto sopra sembrerebbe favorire la condizioni per una terza intifada, ma altri potenti processi in Cisgiordania e a Gaza le contrastano: il diffondersi dell’individualismo, il declino della mobilitazione politica e l’enfasi delle diseguaglianze socioeconomiche
L’individualismo e la perdita di sicurezza politica
Il diffondersi dell’individualismo significa che sempre più palestinesi legittimano, promuovono e proteggono i loro interessi e le loro preoccupazioni personali prima degli interessi e le preoccupazioni della comunità. Questo è l’esito di diversi fattori.
Il primo è l’adozione di un regime economico neoliberista da parte dell’Autorità palestinese (Ap), che non sorprende in quando l’Ap venne istituita all’apice dell’era globale neoliberista e fu promossa dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. L’approccio neoliberista si conquistò l’appoggio dei maggiori finanziatori dell’Ap e di molte Ong palestinesi che dipendono dagli aiuti esteri.
Sotto il regime neoliberista al settore privato venne garantito il ruolo di determinare l’economia palestinese, e la dipendenza dell’Ap dagli aiuti esteri e dal tasso di cambio con Israele fu saldato. Questa dipendenza ha reso l’Ap vulnerabile alle pressioni politiche e ha alimentato la diffidenza degli impiegati nel vasto settore pubblico relativamente ai rischi legati a qualsiasi cambiamento nelle loro fonti di sostentamento.
L’individualismo è stato anche il risultato dell’accresciuto ruolo delle Ong in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza subito dopo l’istituzione dell’Ap, nel 1994. Molte Ong, e in particolare le maggiori, dipendono da donazioni, nonostante la predilezione politica di stampo chiaramente neoliberista e la priorità dei donatori di mantenere ad ogni costo il «processo di pace» scaturito da Oslo. La significativa espansione numerica e di tipi diversi di Ong ha significato, nella maggior parte dei casi, la sostituzione delle associazioni rappresentative e di volontariato con associazioni professioniste prive del mandato di rappresentanza degli interessi di una specifica parte costituente.
Un terzo fattore legato al processo di individualizzazione è stato il declino dell’influenza e della credibilità delle organizzazioni politiche e la fondazione della burocrazia dell’Ap e di istituzioni formali, nell’illusione che ciò avrebbe portato in breve a uno Stato palestinese indipendente. La cultura politica ampiamente egalitaria di «fratelli e camerati» e l’accesso relativamente facile ai leader secondo i ranghi e le fila precedenti agli accordi di Oslo sono stati rimpiazzati da istituzioni pseudo-statali caratterizzate da una struttura gerarchica e da una comunicazione rigide.
Ora ci sono ministri, direttori generali e altri ranghi civili e militari, ognuno con i suoi privilegi e incarichi specifici. Ciò ha significativamente diminuito le capacità delle organizzazioni politiche – compresi i due più ampi movimenti palestinesi, Fatah e Hamas – nella mobilitazione popolare su temi nazionali. Molti quadri di Fatah e Hamas sono stati assorbiti nelle istituzioni burocratiche formali istituite dai due movimenti in Cisgiordania e a Gaza.
La marginalizzazione delle istituzioni nazionali palestinesi è più evidente negli ostacoli delle istituzioni dell’Olp che hanno rappresentato le comunità palestinesi all’interno e all’esterno della Palestina storica. La perdita delle istituzioni dell’Olp riguarda molte, se non tutte, organizzazioni popolari e sindacati che sono stati separati dai loro ranghi e dalle loro circoscrizioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e tra altre comunità palestinesi.
I palestinesi non solo hanno perso l’Olp, istituzione nazionale rappresentativa e onnicomprensiva, ma si sono ritrovati con un’Ap divisa, con due autorità indipendenti sotto l’occupazione coloniale e in un soffocante assedio. I palestinesi sono stati le pedine della strategia di frammentazione istituzionale e geografica giocata da Israele.
Chiara conseguenza è la perdita di sicurezza politica e di una popolazione mobilitata che possa condurre una nuova intifada contro lo stato coloniale.
Le organizzazioni politiche, i sindacati e le organizzazioni di massa furono fondamentali allo scoppio della prima intifada, e la perdita di capacità della popolazione a sostenerla minano le potenzialità di una terza intifada.
La nuova classe media e gli operai: nessuna intifada in vista
La classe dirigente dell’Ap ha condotto significative trasformazioni di classe in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Diseguaglianze strutturali si sono acuite tra regioni, città, paesi, campi e famiglie.
Una considerevole classe media è emersa in gran parte per il gran numero di assunzioni nei diversi ministeri dell’Ap e in apparati di sicurezza, in agenzie di donatori, Ong e nel crescente settore privato orientato al profitto, compreso in nuovi settori economici quali le comunicazioni, l’elettronica, le assicurazioni, banche e finanza, pubblicità e marketing. Ciò è coinciso con una grande espansione nel campo dell’istruzione a tutti i livelli, in campo sanitario e nel numero di professionisti quali avvocati, ingegneri e architetti, tra gli altri.
La nuova classe media ha un chiaro interesse a non fare affondare la nave. Una crescente fetta della nuova classe media è intrappolata nel sistema di mutui accesi per nuove case, automobili, mobili e beni simili. Il venir meno dei salari dall’Ap o da altre fonti lascerebbe esposta quest’ampia fetta della popolazione, com’è successo in più di un’occasione dalla seconda intifada.
La maggior parte della classe media palestinese in Cisgiordania e a Gaza esita ad appoggiare una rivolta finché teme la perdita dei propri mezzi di sostentamento.
Né, ovviamente, sono in una posizione tale da lanciare un’intifada gli operai dal reddito inferiore di Cisgiordania e Gaza, al contrario degli operai tunisini, che nel 2011 attuarono la rivolta attraverso i loro potenti sindacati. Come i tunisini prima della rivolta, essi hanno minori garanzie sul lavoro, minori salari, minori diritti sociali della nuova classe media e i più alti tassi di disoccupazione di qualsiasi altro gruppo, eccetto i laureati.
Ma soprattutto, gli operai palestinesi sono sparpagliati in decine di migliaia di piccole o piccolissime imprese, la maggior parte delle quali non sindacalizzate: la classe media (insegnanti, avvocati, ingegneri, impiegati pubblici, impiegati Unrwa) è invece più sindacalizzata degli operai. Inoltre, circa il 10% della forza lavoro della Cisgiordania è impiegata in Israele e nelle sue colonie, in base alle statistiche dell’Ufficio centrale palestinese.
Vale la pena osservare che le differenze di classe e di condizione basate sul benessere e sulla posizione non sono mai state così evidenti come negli ultimi anni, così come l’accesso a beni di consumo quali automobili costose, ville, negozi, ristoranti e hotel a 5 stelle. Nella prima intifada le differenze lampanti erano quelle tra l’occupante e l’occupato. Ora esse sono molto nette tra i diversi segmenti della popolazione occupata e assediata.
Alcuni analisti ritengono che il crollo dell’Ap, dovuto a una decisione da parte palestinese di dissolverla, o per pressioni da parte di Israele e Stati Uniti, porterà a una nuova intifada. Altri analisti hanno valutato le ripercussioni di un crollo dell’Ap, ed hanno fornito raccomandazioni diverse in base alle diverse prospettive. Rimane una domanda aperta se il crollo dell’Ap condurrà a una nuova intifada o piuttosto ad azioni deliberate di sfida e di ribaltamento delle limitazioni all’azione collettiva.
Un’intifada contro l’Ap stessa come si configura in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è improbabile, in parte perché la questione nazionale continua a prevalere su questioni locali. I sondaggi suggeriscono l’esistenza di appoggio pubblico alla sopravvivenza dell’Ap, nonostante i sentimenti che da essi emergono siano contrastanti. La maggior parte dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza ritengono che le istituzioni palestinesi siano corrotte: il 77% in Cisgiordania e il 68% a Gaza. Ciò nonostante, sono mi molti a non volere lo scioglimento dell’Ap.
Ciò a cui con più probabilità assisteremo è una continuazione delle dimostrazioni e di altre forme di pressione sulle due autorità indipendenti, come le proteste contro il carovita, la disoccupazione e il ritardo nei pagamenti degli stipendi. Ciò probabilmente non porterà a un’accelerazione di una nuova intifada contro le due autorità palestinesi.
Da un lato una tale azione potrebbe venir giocata da Israele, e dall’altro entrambe le autorità sono ben equipaggiate (in quanto a sicurezza) da poter reprimere simili tentativi. Va osservato che le autorità rivali  hanno incoraggiato le proteste nei rispettivi territori avversari, nonostante i molti accordi per porre fine alle divisioni. In quanto all’esito dell’accordo dell’aprile 2014 per porre fine ai contrasti, resta ancora tutto da vedere.
Quanto è sconfortante il futuro?
Per il prossimo futuro i palestinesi sotto occupazione continueranno a barcamenarsi tra il bisogno di un’azione collettiva per la libertà, l’autodeterminazione e la sovranità, e gli sforzi creati dall’economia neoliberista, la dipendenza dagli aiuti e l’atomizzazione politica.
Questa realtà è supportata dalle diverse opinioni espresse dalle élite politiche dal pubblico generale. Per esempio, un sondaggio pubblico del novembre 2013 dimostra che il 60% degli intervistati in Cisgiordania e a Gaza si aspettavano una terza intifada nel prossimo futuro, ma solo il 29% la avrebbe appoggiata.
Riguardo a una rivolta contro l’Ap, un sondaggio del settembre 2013 rivolto ai giovani palestinesi – la fascia considerata più a favore di un’insurrezione – rivela che solo il 30% dei giovani di Gaza si è espresso favorevolmente a un appoggio di una rivolta nella Striscia di Gaza, mentre il 63% si è detto contrario. In Cisgiordania solo il 21% dei giovani si è detto favorevole, contrario il 72%.
La repressione, la discriminazione e l’umiliazione dei palestinesi da parte di Israele, nonché il saccheggio e la negazione dei loro diritti storici, nazionali e civili, non sono mai stati forti come oggi, mentre i negoziati sono a un punto morto e la resistenza militare ha dimostrato i suoi limiti.
Ciò nonostante è chiaro, dalla presente analisi, che la frammentazione geografica e politica del popolo palestinese, la crescita dell’individualismo, le inasprite ineguaglianze promosse in Cisgiordania e a Gaza dall’economia neoliberista, e la dipendenza dagli aiuti esteri, rendono urgente un’azione che aiuti a porre fine all’occupazione israeliana.
Siamo propensi a immaginare una continuazione delle proteste e degli esempi di resistenza visti negli ultimi tre anni: confronti locali con il potere coloniale e i suoi coloni in Cisgiordania, e sfide militari a intermittenza nella Striscia di Gaza, oltre a esplosioni di sdegno contro la situazione generale in entrambi i territori. La situazione resterà altamente volatile ed esplosiva, ma continuerà a mancare una regia necessaria a una rivoluzione di massa.
Un cambiamento nelle dinamiche attuali può venire solo da strumenti organizzativi per un’azione collettiva contro il potere coloniale, e dei coloni, da parte dei palestinesi che vivono sotto occupazione, da quelli che sono cittadini israeliani e da quelli profughi ed esiliati.
Ciò richiede un processo democratico e rappresentativo che punti a ricostruire le istituzioni nazionali palestinesi, in particolare quelle dell’Olp, quelle professionali e quelle popolari. Ci vuole anche lo sviluppo di una strategia nazionale chiara che coinvolga tutti i segmenti del popolo palestinese, e che faccia superare l’impasse creata dal concentrarsi in modo limitato sui negoziati e/o sul confronto militare come sole strade percorribili per ampliare i diritti dei palestinesi.
Davvero, i palestinesi devono capire che la resistenza è una strategia olistica che va oltre la resistenza militare, e che ricopre tutte le forme di impegno, comprese le strade della legalità, della diplomazia, politiche, culturali ed economiche, o il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni a Israele invocate dal movimento del Bds. In quanto al settore privato, esso necessita di essere orientato sì che esso promuova un’economia capace di funzionare sotto l’occupazione israeliana e di resistervi, venendo incontro, allo stesso momento, ai bisogni dei palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, nella loro lotta per la sopravvivenza.
C’è anche la necessità ovvia e urgente di una strategia che rovesci, senza esitazioni, il potere coloniale creato da Oslo, e che ridefinisca le funzioni dell’Ap – se verrà presa una decisione nazionale di mantenerla, in un modo o nell’altro – e, in particolare, il ruolo e le funzioni delle sue forze di sicurezza, in linea con una strategia nazionale esauriente, guidata da un’Olp riformata e ristrutturata. Inoltre i partiti politici palestinesi necessitano di riguadagnare la propria rappresentatività e la capacità di mobilitare le potenzialità del popolo palestinese.
 
Se ci sarà una nuova intifada, i suoi obiettivi, le sue strategie, forme e sedi, dovranno essere oggetto di delibera nazionale e di appoggio nazionale affinché essa possa raggiungere gli obiettivi prefissati.
Traduzione di Stefano Di Felice