Analisi: poniamo il caso che Gaza sia una donna

Maan. Di Heike Schotten.
Come segnalato su Ma’an recentemente, un dibattito sulla violenza sessualizzata è sorto con notevole evidenza, all’interno di Israele, in occasione del suo ultimo attacco su Gaza.
Dall’adorazione dell’eroe sessualizzato dei soldati delle Forze di difesa israeliane da parte delle donne israeliane, al locale, sciovinista controllo in chiave eugenetica delle relazioni sessuali arabo-ebraiche da parte dei criminali israeliani di destra, in seguito all’attuale genocidio di Gaza il «conflitto israelo-palestinese», com’è stato chiamato, viene sempre più visto, sia in Israele che nel resto del mondo, in termini sessualizzati.
Ciò può non sorprendere. La sessualizzazione del corpo femminile come invitante ma tossico, puro ma macchiato, ventre protettore del futuro della nazione ma traditore nelle fedeltà mutevoli e inaffidabili, è fin troppo familiare. Le femministe hanno portato all’attenzione tali logiche culturali sessiste da secoli.
Ciò che va sottolineato è l’affioramento di una particolare idea misogina sia a destra che a sinistra, nel più recente attacco di Israele: la metaforizzazione di Gaza in una donna. Ora, a seconda che voi siate pro o contro Israele, avrete una posizione diversa su ciò di cui Gaza ha bisogno: di più violenza e aggressioni, in un caso, o di protezione paternalista, nell’altro.
Ma stiamo attenti, questa metafora è condivisa dai commentatori di entrambi gli schieramenti sulla questione palestinese. A quanto pare immaginare Gaza come una donna vulnerabile, bisognosa di interventi, è una cosa su cui tutti sono d’accordo. All’inizio di quest’anno, ad esempio, il commentatore politico statunitense Bill Maher, conduttore televisivo e islamofobo, ha pubblicato l’ormai famoso tweet: «Avere a che fare con Hamas è come avere a che fare con una donna pazza che ti vuole uccidere, si può solo trattenere il suo polso prima di doverla schiaffeggiare».
Il tweet di Maher mi ricorda la scena, neanch’essa divertente, del film satirico degli anni Ottanta «Airplane», in cui i passeggeri si mettono letteralmente in coda per picchiare una donna in preda al panico, dentro un aereo, per farla calmare.
Grazie, Bill, per farci ricordare il brutto passato.
(Ironicamente, Maher sostiene l’«uguaglianza delle donne» per difendere la sua nota islamofobia, un femminismo che suona falso ed è evidentemente strumentale a servire il suo ben più sincero odio per i musulmani).
Recentemente, però, il fervente pro-Palestina Charles Edward Frith ha pubblicato, da sinistra, un tweet contrapposto a quello di Maher: «Israele è come il marito che picchia la moglie e passa inosservato, nonostante l’intero villaggio si accorga dell’occhio nero…».
Frith e Maher, sebbene agli antipodi riguardo l’ultimo massacro, sono pur tuttavia d’accordo su una cosa: Gaza è una donna.
La differenza è che Maher pensa che Israele la debba percuotere sonoramente, mentre Frith ritiene ch’essa vada protetta dalle botte.
Ovviamente le femministe hanno sempre criticato la soluzione alla violenza contro le donne data dal paternalismo patriarcale degli uomini che le proteggono.
Ma, messo da parte il femminismo (è irrilevante), e scansata la conseguenza bizzarra di Israele «marito» di Gaza della visione di Frith, ciò che risulta chiaro è che persino il tweeter «liberale» condivide con Maher il presupposto sessista dell’intrinseca debolezza, vulnerabilità e violabilità delle donne.
La differenza è che mentre Maher ritiene che le donne debbano essere mantenute al loro posto, Frith pensa che esse vadano protette dalla violenza del loro posto, ciò che non va a modificare il loro status di inferiorità – posizione di partenza che, come già abbiamo osservato, i due condividono.
Molto peggio di queste riflessioni da dilettanti è stata la vasta diffusione tramite Whatsapp, per mano degli israeliani, di un’immagine profondamente misogina e razzista: sopra di essa sta scritto «Bibi, finisci dentro questa volta», e sotto la firma «I civili per l’invasione».
Qui, di nuovo Gaza viene immaginata come una donna, ma in questo caso il ritratto non comprende solo la vulnerabilità e la violabilità femminili, ma anche una disponibilità sessuale a sfondo razziale. L’allegoria della vittoria, in guerra, può essere un orgasmo maschile per penetrazione, che rende esplicita la fusione di sesso, violenza, piacere e annientamento.
Il ritratto ambivalente di una Gaza femminilizzata – velata e svelata, «terrorista» e tentatrice, musulmana conservatrice e sessualmente disponibile – lascia aperta la questione se questa volta la fine della guerra sarà uno stupro, oppure – come vuole il senso comune patriarcale – qualcosa che lei in fondo voleva.
Ciò che colpisce è l’adesione della sinistra a questo discorso grottesco su Gaza come una donna violentata.
Yonatan Shapira, uno dei più illustri refusenik di Israele, e sostenitore del movimento del Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), ha riciclato questa idea almeno dal 2011, quando per la prima volta lo sentii utilizzarla durante una commissione plenaria presso un incontro per il tesseramento nazionale dell’organizzazione religiosa ebraica Jewish voice for peace.
Nonostante il consiglio mio e dei membri della commissione di evitare l’uso della metafora sessista, Shapira l’ha utilizzata di nuovo recentemente su Democratic now! Egli ha detto:
«Se dovessi usare un’allegoria, questo bisogno di autotutela mio e di Israele, legittimo desiderio di non essere bombardato e di poter essere al sicuro lo immaginerei come uno stupro di gruppo. Scusatemi se uso un linguaggio forte. Ma quando un gruppo di persone violenta qualcuno, e la vittima inizia a graffiare, la prima cosa che uno può fare per porre fine ai graffi è terminare la violenza. Ciò che Israele, l’Israele ufficiale, sta tentando di fare, è continuare la violenza e occuparsi dei graffi. Io dico, basta con la violenza. Basta con l’occupazione. Basta con l’apartheid».
Vero è che la Gaza stuprata di Shapira è (ora) di genere neutro (o per lo meno di genere non specificato). Ma il graffiare è una risposta stereotipata «femminile» all’aggressione fisica – tanto più femminile per la sua futilità in quanto arma-accessorio dei deboli.
Così, il genere di Gaza è una volta ancora chiaro. Il fatto che Shapira ritenga che lo stupro vada fermato non toglie che nel suo immaginario Gaza sia una donna violentata, e che almeno parte dell’oltraggio dato dagli assalti contro di lei – così come la giustificazione della sua resistenza – evochi impulsi protettivi associabili al vulnerabile, violabile, stuprabile corpo femminile.
Forse si è attratti da questa metafora perché, retoricamente, immaginare Gaza come una donna significa che i palestinesi sono dei sottomessi.
Se Gaza è una donna, allora essa è violata e violabile, debole e vulnerabile, evidentemente sotto una gerarchia di forza fisica impari.
Se Gaza è una donna stuprata, essa ha quel che si merita e probabilmente, in segreto, desidera (la visione conservatrice), oppure è priva di colpe e innocente innanzi all’efferatezza dei crimini che la colpiscono e che vanno fermati (la visione liberale).
Dando a Gaza il ruolo di donna si trasmette, tramite la gerarchia di genere, una gerarchia razziale e nazionale, che assegna agli arabi palestinesi e ai musulmani caratteri ipersessuali, effeminati, deboli, indifesi e di disponibilità.
Per Bill Maher e gli utenti israeliani di Whatsapp, tale gerarchia è appropriata, necessaria e anche sexy e divertente. Per Charles Frith e Yonatan Shapira, essa è sconcertante, giustifica l’intervento ed è perfino la causa del successivo conflitto. Per tutti loro, in ogni caso, essa è la base incontestata della loro idea di Gaza (e di Hamas).
E’ un luogo comune di sinistra di lunga data far notare che «il conflitto israelo-palestinese» non è in realtà una disputa tra forze omogenee, così come quest’ultimo assalto su Gaza non è una «guerra» tra combattenti con colpe paragonabili.
Invece, il «conflitto israelo-palestinese» è la lotta perenne di una popolazione indigena contro un potere colonizzatore. E’ la storia di un popolo che resiste quotidianamente agli espropri, all’occupazione militare e al lento genocidio inflittogli da Israele, visto come un potere di occupazione coloniale dotato di armamenti nucleari, più che come nazione accerchiata dotata di impavidi combattenti per la libertà.
Non serve il corpo femminile, più o meno violato, per illustrare la situazione. Utilizzare il corpo delle donne per spiegare la sofferenza dei palestinesi o la violenza degli israeliani rappresenta la sottomissione delle donne intercambiabile con la vittimizzazione dei palestinesi, rendendo sottomissione e vittimizzazione inevitabili.
A quanto pare è il caso di sottolineare che nessuna di queste interpretazioni è accettabile.
Heike Schotten è professore associato di Scienze politiche all’università di Boston, Massachussets, dove insegna teoria politica, teoria femminista e teoria queer. E’ attiva nel Movimento di solidarietà per la Palestina dal 2006.
Traduzione di Stefano Di Felice