Ancora in attesa di assistenza sei anni dopo l’offensiva israeliana

E.I. Sei anni sono una considerevole quantità di tempo. Tuttavia, quando si tratta dell’ultimo importante attacco militare israeliano a Gaza, sembra sia passato non più di un sol giorno. Questi sei anni trascorsi non sono infatti in grado di cancellare dalla mia memoria nemmeno il più minuscolo dei dettagli.

Ovviamente, è il dolore che più di tutti si fa sentire. Ma non tanto per le morti più terribili, anche se il loro ricordo è marchiato per sempre dentro di me. È il dolore di tutti coloro che sono stati abbandonati, che mi ritorna continuamente alla mente.

Ed oggi, quel che mi tocca maggiormente è il sacrifico di queste persone che per sopravvivere si adattano a tutto, si adattano a situazioni in cui i bambini sono costretti a crescere troppo in fretta, in cui le promesse fatte alle famiglie sulle indennità non vengono mantenute ed in cui le restrizioni a causa del Coronavirus colpiscono di nuovo, e duramente.

Nel 2014 ho lavorato al quotidiano locale al-Resala. Il nostro turno di emergenza è stato pesate in quei giorni, tra tre giorni in ufficio e 12 ore a casa. Quel turno è durato per i 51 giorni dell’offensiva israeliana.

Dopo il quinto giorno di attacchi, il 12 luglio, stavo tornando a casa dopo un turno lungo e stancante. Era quasi mezzanotte quando un’esplosione ha sconvolto il nostro quartiere.

Sono corso fuori per vedere da dove provenisse lo scoppio e ho notato del fumo dalla casa di un amico, Bilal Qandil. Quella sarebbe stata la prima volta che assistevo con i miei occhi ad un massacro, non da uno schermo o sentendone parlare in un’intervista.

Ho visto cinque corpi distrutti nel giardino della casa di Qandil vicino ad un tavolo sventrato, una teiera ed un mazzo di carte, tutto coperto di sangue. Ancora oggi non riesco a capire che cosa abbiamo fatto di male queste persone per essere uccise con tanta brutalità mentre giocavano a carte nel loro cortile.

Promesse non mantenute.

Tra le vittime c’è Husam al-Razayna che lavorava in un’officina di riparazione di motociclette. L’officina era l’unica fonte di reddito di Husam, sua moglie e i suoi nove figli. Il più giovane aveva solo due settimane quando Husam è stato ucciso. Il più grande, Deeb, è stato costretto a prendere le redini della famiglia e a farsi carico di tutte le spese. Ma quando l’offensiva israeliana terminò, non c’era lavoro e le famiglie non avevano alcun reddito.

“Mio padre ci ha lasciati senza niente. I suoi guadagni erano legati solo al lavoro. Non aveva nulla da lasciarci. All’inizio abbiamo dovuto fare affidamento sull’assistenza finanziaria e alimentare” ha confessato Deeb al The Electronic Intifada. La famiglia sperava che la loro situazione finanziaria migliorasse una volta che l’Autorità Palestinese avesse iniziato a pagare le indennità alle famiglie che avevano perso un parente durante le aggressioni.

Per decenni l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, in seguito AP, ed ora nuovamente la PLO, hanno offerto supporto finanziario alle famiglie di coloro che venivano imprigionati, feriti o uccisi da Israele.

Israele ha cercato di descrivere tale pratica come una ricompensa per la violenza, argomento che ha guadagnato grande sostegno negli Stati Uniti, in particolare.

Tra i palestinesi invece la questione non è per nulla controversa. Molti tra coloro che hanno conosciuto direttamente l’offesa israeliana, hanno perso la principale fonte di sostentamento e l’indennità che gli viene conferita è vista semplicemente come una sicurezza sociale per una popolazione assediata che vive sotto occupazione militare.

Secondo vari gruppi di difesa delle famiglie vittime di lutto nel 2014, l’Autorità palestinese ha promesso un sostegno di circa 400 dollari al mese per ogni famiglia, sebbene non ci sia mai stato un annuncio formale.

Ma sei anni sono passati e l’assistenza non si è mai concretizzata.

Nonostante i ripetuti tentativi, l’ANP non ha voluto commentare il motivo di questo lungo ritardo.

In tutto, circa 900 famiglie hanno perso il loro principale capofamiglia durante l’attacco di Israele nel 2014, secondo Alaa al-Barawy del comitato delle famiglie dei martiri di Gaza, un’organizzazione no-profit che sostiene le famiglie che hanno perso i parenti durante il conflitto.

Circa 1.850 famiglie avrebbero dovuto avere diritto all’assistenza.

Un anno dopo la morte di Husam, fu chiaro a Deeb che qualsiasi desiderio di istruzione, andava accantonato.

Deeb stava studiando alla al-Quds Open University per diventare un’insegnante, ma ha sospeso gli studi. Ha invece cercato la vecchia bottega di suo padre ed ha iniziato a lavorare là. Con un guadagno di soli 8 dollari al giorno, provvede alla sua famiglia.

“Ho pensato che avrei sospeso temporaneamente i miei studi fino a quando non avessimo iniziato a ricevere l’indennità mensile dal governo”, ha detto Deeb a The Electronic Intifada. “Ovviamente i soldi che stavo guadagnando non erano sufficienti per fare entrambe le cose, sostentare la mia famiglia e studiare.”

La madre di Deeb, Mirvar, ha detto che è sempre stata contraria al fatto che suo figlio interrompesse gli studi ma si rese conto che c’era poca scelta.

“Se suo padre fosse ancora vivo, a quest’ora si sarebbe laureato.”

Non deboli ma indifesi.

Deeb ha continuato a lavorare nell’officina di motociclette fino a quando il governo di Gaza non ha imposto le restrizioni sull’epidemia di COVID-19. Ad eccezione di una breve tregua durante l’estate, quando il blocco è stato allentato, l’officina è stata chiusa e la famiglia è tornata a non avere alcuna fonte di reddito.

Il mese scorso, Deeb ha cercato di uccidersi. La sera prima, aveva trascorso una serata cercando di consolare i suoi fratelli più piccoli che piangevano dalla fame.

“Non potevo più vederli andare a dormire a stomaco vuoto. Mi sono sentito in trappola e ho perso la speranza di migliorare la mia situazione “.

Deeb stava per darsi fuoco ma, all’ultimo momento, mentre si stava versando del carburante addosso, uno zio e alcuni vicini sono intervenuti per fermarlo.

“Se l’Autorità Palestinese avesse pagato le indennità di mio padre, la mia vita avrebbe preso una svolta diversa”, ha detto Deeb. “Non sono debole, ma mi sento impotente.”

Secondo Sami al-Amassi, capo della Federazione generale dei sindacati a Gaza, circa 160.000 lavoratori occasionali sono stati danneggiata dai blocchi a Gaza, per aver perso completamente il lavoro o per aver perso le uniche fonti di reddito per periodi di tempo significativi.

“Questa è una vera tragedia umana”, ha detto al-Amassi a The Electronic Intifada. “Ci dovrebbe essere un sostegno specifico per queste famiglie”.

La storia di Deeb mi ha fatto interessare ad un’altra famiglia che ha perso alcuni parenti in quel massacro nel nostro quartiere sei anni fa.

Reem Qandil, 41 anni, ha perso il marito Yousef e il figlio maggiore Anas, che all’epoca aveva 17 anni.

Yousef, un operaio edile, era l’unico che manteneva economicamente la famiglia. Reem aveva poca fiducia nell’ANP e si rese presto conto che sarebbe spettato a lei dar da mangiare ai suoi cinque figli sopravvissuti. Per questo, ha iniziato a cucinare dolci su ordine e a venderli fuori casa.

“Non guadagno molto, ma almeno posso sfamare la mia famiglia e non faccio affidamento sull’assistenza”, ha detto Reem a The Electronic Intifada.

Purtroppo, le restrizioni COVID l’hanno colpita molto duramente. La richiesta di dolci è diminuita e qualsiasi celebrazione o festa per cui avrebbe potuto aspettarsi grandi ordini, come compleanni o matrimoni, è fuori discussione.

In un clima di questo tipo, ha detto Qandil, può capire quanto sia disperato Deeb.

“Non sono rimasta sorpresa quando Deeb ha cercato di uccidersi. Da quando ho perso mio marito, nessuno mi sta aiutando. Il fardello è troppo grande da sopportare”.

Proteste vane.

Prima della pandemia di coronavirus, Qandil era solita protestare ogni settimana insieme a centinaia di famiglie davanti all’ufficio dell’OLP, affinché le famiglie delle vittime del conflitto ricevessero gli indennizzi promessi.

Ma non è stato ottenuto nulla con le proteste e Intissar al-Wazir, ex ministro degli affari sociali dell’Autorità Palestinese, una figura di spicco dell’OLP, la prima donna membro di Fatah e ora il capo della fondazione delle famiglie dei martiri, ha detto che non sa spiegare perché gli indennizzi non sono stati pagati.

“Abbiamo preparato lunghi elenchi di famiglie di martiri e li abbiamo presentati alla presidenza”, ha detto a The Electronic Intifada. “Fino ad ora non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Solo promesse. “

Mustafa al-Sawaf, ex redattore del quotidiano Falasteen, quotidiano affiliato ad Hamas e attento osservatore dei movimenti politici islamisti, ritiene che il blocco dei pagamenti delle indennità sia di natura politica.

“Non c’è giustificazione per tale procrastinazione”, ha detto a The Electronic Intifada. “Questo fa parte delle misure punitive dell’Autorità palestinese contro Gaza che risalgono al 2017”.

Nel 2017, l’Autorità palestinese ha imposto una serie di tagli di budget per Gaza, incluso il taglio degli stipendi degli ex dipendenti dell’Autorità palestinese e la fine dei finanziamenti per pagare l’elettricità. L’Autorità palestinese si è difesa dicendo che stava semplicemente rispondendo alle pressioni di bilancio, ma a Gaza è stata vista come una misura punitiva contro Hamas.

Alaa al-Barawy vede il rifiuto di pagare gli assegni alle famiglie come un’altra conseguenza della divisione palestinese tra l’Autorità palestinese della Cisgiordania dominata da Fatah e Hamas, che controlla la Striscia di Gaza.

“Abbiamo chiesto più e più volte che questo problema fosse separato dalla politica”, ha detto al-Barawy.

Per Deeb è una questione di sopravvivenza. “Spero che l’Autorità palestinese riconsideri la nostra situazione, almeno in tempo di COVID. Non so per quanto tempo potrò ancora andare avanti così “.

Traduzione per InfoPal di Sara Origgio