Ancora una volta, Hamas si distingue dal resto del mondo arabo

Memo. La conferma che Khaled Mesha’al non ricorrerà per un altro mandato alla guida del movimento di resistenza islamica, Hamas, ha dato luogo a molte speculazioni circa il suo probabile successore. Il processo di transizione è stato evidentemente ostacolato dopo il trasferimento dell’Ufficio politico di Hamas da Damasco. Il quadro, però, è sempre più completo. Per motivi pratici, sembra che il nuovo leader arriverà dai ranghi esterni del movimento. Una volta completato, questo passaggio di consegne sarebbe l’ennesima affermazione della maturità del movimento, e la sua capacità di adattarsi alle enormi sfide da affrontare in patria e all’estero.

Non vi è alcun dubbio che il carismatico Abul Walid, come viene chiamato affettuosamente Mesha’al, sarà un esempio difficile da seguire: nel corso degli ultimi 16 anni, egli ha guadagnato il rispetto e l’ammirazione non solo dei membri del movimento, ma anche di capi di Stato in tutta la regione e anche oltre. In Palestina, egli viene soprannominato il “martire vivente”, essendo sopravvissuto a un tentativo israeliano di assassinio nel 1997.

Il tentativo di avvelenare Mesha’al ad Amman, da parte degli agenti del Mossad, era stato considerato dal defunto re Hussein come l’ennesimo atto di tradimento da parte del primo ministro israeliano di allora, come ora, Benjamin Netanyahu. Il Re dichiarò agli israeliani: “Se Mesha’al muore in territorio giordano, il trattato di pace sarà in gioco. Paul McGeough, nel suo libro, Kill Khalid (Uccidere Khaled) racconta  in dettaglio come Netanyahu sia stato umiliato e costretto a consegnare l’antidoto al veleno.

Da allora, Mesha’al ha guidato con successo Hamas attraverso uno dei suoi periodi più difficili. Quando si dimetterà dal suo incarico attuale, egli continuerà a servire la causa per la quale ha dedicato tutta la sua vita. Anche se ora è troppo presto per parlare di eredità, è possibile intravedere un messaggio sobrio indirizzato ai politici palestinesi in particolare, e agli arabi in generale. L’atto di Khaled Mesha’al smentisce l’opinione diffusa, che da questa parte del mondo, i leader politici lasciano l’incarico solo quando muoiono o quando vengono rovesciati.

Questo non è il caso di Mesha’al. Da quando aveva annunciato la propria intenzione di dimettersi alcuni mesi fa, molti si sono appellati a lui perché restasse per un altro mandato di quattro anni. Il regolamento interno di Hamas lo permette, tra l’altro. Di fatto, dei rapporti indicano che subito dopo la rivoluzione egiziana del 25 gennaio 2011, al Cairo ebbe luogo un incontro tra Ahmad al Ju’bari e Mesha’al, durante il quale il primo trasmise il messaggio di Muhammed Dayf, il comandante dell’ala militare del movimento, spiegandogli la “necessità di rimanere nella sua carica”, e confermandogli  il pieno sostegno delle Brigate di Izz al-Din al-Qassam.

Nessuna di queste richieste ha avuto successo. Dati i cambiamenti politici in corso nella regione, Abu Walid ritiene che sia giunto il momento di iniettare del “sangue nuovo nel movimento”. Anche se la sua decisione è al quanto rara, se non l’unica tra i leader palestinesi: essa somiglia notevolmente ai cambiamenti avvenuti nei vertici della Fratellanza musulmana d’Egitto. Infatti nel 2009, l’allora  guida suprema del movimento, Mohamed Mahdi Akef, si dimise lasciando il posto a un nuovo leader. Nonostante questi progressi, i critici del movimento islamico sostengono ancora che il suo successo alle elezioni nazionali la porterà alla dittatura.

In assenza di una infrastruttura organizzativa e istituzioni funzionali, la deriva verso l’autocrazia è fin troppo facile. Tuttavia Hamas si è distinta per aver dimostrato di possedere dei meccanismi abbastanza maturi per generare i suoi nuovi leader. Nel suo vecchio ufficio di Damasco, Mesha’al appendeva le foto dei leader del movimento, che sono stati assassinati dagli israeliani. Tra questi, spicca il suo fondatore, Shaykh Ahmad Yassin, oltre a Salah Shehadah, Abdul Aziz al-Rantissi, Jamal Mansour e Ismail Abu Shenab. La loro morte non ha paralizzare il movimento, al contrario, anche gli israeliani hanno compreso che per ogni leader di Hamas ucciso, altri dieci sono pronti a prendere il suo posto.

Con il cambio imminente della leadership, Hamas sembra trovarsi in una posizione relativamente sicura, sia a livello regionale che a livello internazionale. Le iniziative personali e diplomatiche di Mesha’al hanno sollevato la coperta di isolamento politico che Israele e i suoi alleati hanno cercato di imporre al movimento.

Col senno di poi, 16 anni trascorsi a capo di un movimento di resistenza sono sufficienti a rivelare gli alti e i bassi. I critici sottolineano che il movimento ha pagato un prezzo troppo alto per le elezioni parlamentari del 2006. Nonostante esso abbia vinto in maniera convincente, le conseguenze sono state molte: la fine della resistenza in Cisgiordania, il contenimento del movimento nella Striscia di Gaza, e peggio ancora, la pericolosa divisione per la causa nazionale palestinese è stata accentuata.

Naturalmente la transizione avviene in un momento molto delicato della storia della Palestina e di Hamas. Tuttavia, con la sua struttura organizzativa e la sua leadership solida, proveniente dalla Cisgiordania, da Gaza e dall’estero, Hamas  è pronta per  imbarcarsi in una nuova era di continuità e cambiamento.

Anche in questi ultimi giorni, gli sforzi per convincere Abu Walid a restare non si sono arrestati, senza possibilità di successo. Egli è convinto che la sua decisione sia in linea con la tendenza generale in tutta la regione di istituzionalizzare una transizione regolare e pacifica del potere politico. Il suo stretto collaboratore Ezzet ar – Reshaq afferma che Mesha’al ha stabilito un esempio da seguire per gli altri leader.  Pochi, però, sembrano avere una tale forza di carattere che permette di abbandonare le alte cariche quando si è al culmine del potere.