Un anno di resistenza palestinese

1512955678Di Ramzy Baroud. Gulf News. Un anno di resistenza palestinese. La resistenza collettiva del popolo e dei suoi sostenitori ha dimostrato di essere troppo forte per essere piegata o distrutta.

“La speranza è il peggiore dei mali perché prolunga i tormenti degli uomini”, scriveva Friedrich Nietzsche; preferisco però fare riferimento a una definizione diversa, quella fornita dal Vescovo Desmod Tutu: “La speranza è la capacità di vedere la luce oltre le tenebre”. Sicuramente, la definizione di Nietzsche è più che valida da un punto di vista esistenzialista, ma, nel contesto palestinese, appare più calzante quella fornita da Tutu, nero sudafricano combattente per la libertà che, insieme a una generazione di uomini e donne, ha sfidato le tenebre apparentemente eterne generate dall’Apartheid e da secoli di colonialismo. Tutu non nega l’esistenza dei “tormenti degli uomini”, né tantomeno vi si sottomette; piuttosto, li sfida, con un manifesto ottimismo. La storia gli ha dato ragione.

La lotta contro l’Apartheid ha ispirato generazioni di palestinesi, e allo stesso modo, dovremmo lasciarci guidare dalle parole di Tutu in questo 2015, forti della speranza e decisi a realizzare azioni concrete, per porre fine ovunque ai “tormenti degli uomini” e delle donne.

Ho cercato di elencare alcune delle ragioni per cui il 2014, nonostante le immani sofferenze subite, può offrire ai palestinesi un motivo di speranza per l’anno nuovo.

L’altra unità palestinese

Sebbene ad aprile i due principali partiti palestinesi, Hamas e Fatah, abbiano raggiunto un accordo formale per un governo di unità, nei fatti la situazione non è cambiata. Certo, nel mese di giugno si è costituito ufficialmente un governo, che si è riunito per la prima volta a ottobre; ma Gaza continua a essere governata da Hamas, che ha avuto carta bianca nella Striscia dopo l’offensiva israeliana di luglio e agosto.

Eppure, nonostante il fallimento del tentativo unitario, l’attacco israeliano a Gaza ha dato nuovo impulso alla lotta in Cisgiordania. Le mire israeliane sui siti sacri nella Gerusalemme occupata, in particolare sulla Moschea di Al Aqsa, e il sentimento di rabbia generato nei palestinesi dal massacro di Gaza, stanno dando vita gradualmente a un’ondata di mini-rivolte. Non è importante, in questa sede, capire se nel 2015 si scatenerà o meno una terza Intifada. Ciò che conta è che il piano, a lungo orchestrato, per dividere i palestinesi, sta fallendo e che finalmente sta prendendo vita una nuova narrazione, che vede protagonista la lotta comune contro l’occupazione.

Il nuovo paradigma della resistenza

Il dibattito intorno a quale sia la migliore forma di resistenza per la Palestina non è stato istituito e incoraggiato da filantropi a livello internazionale, ma dagli stessi palestinesi, che sembrano orientati ad avvalersi di qualunque forma che possa costituire un deterrente contro le azioni militari di Israele, così come hanno già fatto concretamente i gruppi della resistenza a Gaza. L’ultima offensiva israeliana ha causato quasi 2.200 vittime e più di 11.000 feriti tra la popolazione palestinese, principalmente tra i civili, ma ancora una volta ha fallito uno dei suoi obiettivi dichiarati. È stata un’ulteriore dimostrazione del fatto che la bruta forza militare non è il fattore predominante che permea la politica israeliana nei confronti dei palestinesi. Mentre Israele massacrava i civili, tra le fila israeliane sono morte 70 persone, di cui oltre 60 erano militari: una prova importante della maturità della resistenza palestinese, che in precedenza, durante la seconda intifada, aveva preso di mira i civili, più in preda alla disperazione che mossa da una strategia vincente. La legittimazione della resistenza, per certi versi, si è riflettuta anche nella recente decisione della Corte Europea di rimuovere Hamas dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

In Cisgiordania, la Resistenza sta assumendo altre forme. Sebbene non sia ancora matura al punto da tramutarsi in una campagna duratura di attività contro l’occupazione, sta definendo una propria identità, in grado di determinare cosa sia più fattibile e funzionale. Il modello unico imposto finora per la resistenza sta perdendo terreno, a favore di un approccio più organico, concepito dagli stessi palestinesi.

Il BDS e la normalizzazione del dibattito

Un’altra forma di resistenza si sta cristallizzando nel Movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) che continua a crescere e ad arricchirsi, trovando nuovi sostenitori e raggiungendo nuovi traguardi. Nel 2014, il BDS non si è limitato a incassare il sostegno di numerose organizzazioni della società civile, di accademici, scienziati, celebrità e personalità di ogni campo; ha ottenuto un altro risultato, ugualmente importante: ha normalizzato il dibattito su Israele su molti fronti a livello globale, infrangendo finalmente il tabù che impediva di muovere critiche contro Israele. La discussione circa la moralità di Israele e il boicottaggio non sono più argomenti scottanti, ma tematiche affrontate su molti organi di stampa, in vari istituti universitari e su altre piattaforme.

Mai come prima, nel 2014 il boicottaggio contro Israele ha dominato nei media mainstraeam. Negli Stati Uniti non si è ancora formata una vera e propria massa critica, ma il movimento riscuote un’approvazione sempre più ampia tra studenti, clero, celebrità e gente comune. In Europa, poi, gode di un successo sempre più ampio.

I Parlamenti avvertono la pressione della società civile

Dopo gli accordi di Oslo, la posizione dell’Europa aveva assunto una piega sconcertante: si cercava una sorta di “equilibrio” tra la nazione occupante e quella occupata.  Di tanto in tanto, l’Unione Europea criticava timidamente l’occupazione israeliana, continuando tuttavia a essere uno dei partner principali di Israele, e a fornire al suo esercito armi usate per commettere i crimine di guerra a Gaza e per  perpetuare l’occupazione militare in Cisgiordania.

Questa politica dissennata è stata oggetto di critiche da parte dei cittadini in vari paesi europei. L’attacco ai danni di Gaza della scorsa estate ha portato alla luce le violazioni ai diritti umani e i crimini di guerra commessi da Israele come non era mai accaduto prima, rivelando al contempo l’ipocrisia dell’UE. Per alleggerire la conseguente pressione, alcuni paesi europei stanno prendendo una posizione più netta contro Israele, rivalutando la cooperazione militare e criticando più apertamente le politiche di destra del Primo Ministro Israeliano Benjamin Netanyahu. Conseguentemente, molti parlamenti hanno votato a larga maggioranza il riconoscimento dello stato della Palestina. Per quanto queste decisioni abbiano una natura prevalentemente simbolica, esse rappresentano un cambiamento innegabile  nell’atteggiamento europeo nei confronti di Israele. Netanyahu continua a scagliarsi contro l’“ipocrisia” europea, forte, probabilmente, del sostegno incondizionato di Washington. Ma ora che gli USA sembrano perdere il controllo su un Medio Oriente sempre più instabile, il primo ministro Israeliano potrebbe essere presto obbligato a riconsiderare la rigidità delle sue posizioni.

Il vero volto della democrazia di Israele

Per decenni, Israele si è definito uno stato democratico e ebraico. L’obiettivo era chiaro: mantenere la superiorità degli ebrei sui palestinesi, continuando al contempo a presentarsi come una moderna democrazia “occidentale”, anzi, come “l’unica democrazia del Medio Oriente”. I Palestinesi non erano i soli a non credere in questa farsa democratica, ma molti accettavano la dicotomia senza porsi troppe domande.

Israele non ha una costituzione, bensì un “codice”, la cosiddetta Legge Fondamentale. Siccome non esiste un equivalente di “modifica costituzionale”, il governo Netanyahu insiste per far promulgare una nuova legge dal Knesset, che contenga nuovi principi che vadano a definire la natura stessa dello stato. Tra questi, c’è la definizione di Israele come dello “stato della nazione ebraica”, che relegherebbe tutti i cittadini non ebraici a una condizione di inferiorità. Per quanto già attualmente, i cittadini palestinesi che vivono all’interno dei confini israeliani siano emarginati e discriminati in molteplici forme, tale inferiorità riceverebbe una conferma a livello costituzionale nella nuova Legge Fondamentale. Il paradigma che vedeva convivere la duplice natura ebraica e democratica sta decadendo, svelando così il vero volto di Israele.

Dolore e speranza

Il 2014 è stato un anno doloroso per la Palestina, ma anche l’anno in cui la resistenza collettiva del popolo e dei suoi sostenitori ha dimostrato di essere troppo forte per essere piegata o distrutta. Ed è in questo che dobbiamo trovare conforto.

Traduzione di Romana Rubeo