Apartheid dell’acqua – Betselem: stesso liquido, prezzi diversi
Da www.ilmanifesto.it del 19 luglio
Di Michele Giorgio
Gerusalemme, 19 luglio 2008
Piscine piene per i coloni, centinaia di migliaia di palestinesi
senza accesso alla rete idrica. Il controllo delle sorgenti da parte
di Israele, il Muro e gli accordi di Oslo hanno creato una
discriminazione inaccettabile.
«Non ci mancava nulla, avevamo tutto: la terra da coltivare, gli
alberi, l’acqua», dice Abdel Latif Khaled, volgendo lentamente lo
sguardo verso la campagna di Jayyus, nel nord della Cisgiordania
occupata. «Ora – aggiunge a voce bassa – c’è rimasto poco o niente.
Gli israeliani ci hanno tolto buona parte della terra e quando hanno
completato il muro (in questa zona) ci hanno tagliato fuori dai
nostri pozzi. L’acqua per irrigare i nostri campi un tempo era
abbondante, adesso dobbiamo comprarla». Jayyus ha sete, come tanti
villaggi palestinesi, ma può dirsi paradossalmente «fortunato».
«L’acqua per l’agricoltura quest’anno riusciremo ad averla grazie al
pozzo di Azun ma sappiamo che non potrà durare a lungo, ancora due-
tre anni e le terre che ci rimangono diventeranno deserti se Israele
non cambierà la sua politica», avverte Abdel Latif.
In altre aree della Cisgiordania, in particolare a sud di Hebron, la
situazione è disperata e da qualche settimana Tayyush,
un’organizzazione pacifista arabo-ebraica, esorta i suoi attivisti ad
acquistare acqua potabile e a distribuirla in quelle zone alle
famiglie palestinesi.
Un problema che non hanno gli abitanti delle vicine colonie
israeliane. Loro non solo hanno acqua sufficiente da bere, ma possono
permettersi anche un tuffo in piscina nelle ore più calde del giorno.
Dopo 41 anni di occupazione militare oltre 150 villaggi (220mila
abitanti) della Cisgiordania non sono collegati alla rete idrica
mentre un insediamento israeliano, non appena viene completato,
riceve immediatamente elettricità e acqua.
E così il problema dell’emergenza idrica nei Territori occupati si
ripropone ad ogni estate e ogni autunno. Ma anno dopo anno, quelli
che soffrono sempre di più sono i palestinesi, perché non hanno alcun
controllo su gran parte delle loro riserve di acqua che, gestiste
dall’israeliana Mekorot, vengono dirottate verso lo Stato ebraico e
lasciate solo in minima parte in Cisgiordania.
A Gaza la crisi è spaventosa, i coloni non ci sono più da tre anni,
ma le riserve riescono ormai a coprire in minima parte il fabbisogno
della popolazione e la differenza non è colmata dall’acqua che arriva
dal sistema idrico israeliano. A lanciare l’allarme, l’ennesimo senza
alcun risultato, è stato all’inizio di luglio il centro israeliano
per i diritti umani Betselem. «La cronica scarsità d’acqua (nei
Territori occupati palestinesi) è il risultato in buona parte della
politica discriminatoria che Israele attua nella distribuzione delle
risorse in Cisgiordania e dei limiti che pone all’Autorità nazionale
palestinese nell’aprire nuovi pozzi», ha denunciato in un rapporto
presentato nei giorni scorsi (www.btselem.org/english/water/
2008070_acute_water_shortage_i
n_the_west_bank.asp.).
«Il consumo medio per persona in Israele è 3,5 volte superiore a
quello dei palestinesi», ha aggiunto Betselem, precisando che
l’accesso all’acqua senza discriminazioni è sancito dalla legge
internazionale come un diritto umano fondamentale. Un palestinese in
media ha a disposizione 66 litri di acqua al giorno ma durante
l’estate – ha accertato Betselem – la Mekorot taglia ulteriormente le
forniture per garantire un flusso costante di acqua nelle colonie.
Così i 66 litri diventano, in non pochi casi, 22. Ma la compagnia
pratica anche tariffe «discrezionali»: un israeliano paga un metro
cubo di acqua per uso domestico circa un dollaro e per uso agricolo
40 centesimi di dollaro, mentre i palestinesi pagano un dollaro e
mezzo al metro cubo, senza differenza tra acqua potabile o per
l’agricoltura. «Per noi l’acqua è un miraggio, è di fronte a noi
abbondante, nelle colonie israeliane, che circondano il nostro
villaggio ma per averla, per darla alle nostre bestie, dobbiamo
pagarla a caro prezzo, un prezzo che nessuno di noi può permettersi»,
commenta Mahmud, un pastore del piccolo villaggio di Mufaggra, sulle
colline a sud di Hebron.
L’estate 2008 sarà persino più asciutta delle precedenti a causa di
un inverno che è stato breve e con scarse piogge. Nei mesi scorsi le
precipitazioni nella Cisgiordania settentrionale sono state appena il
64% della media stagionale, in parte meridionale appena il 55% e
l’Anp sa che non potrà disporre di almeno 70 milioni di metri cubi
d’acqua per soddisfare il fabbisogno di 2,4 milioni di palestinesi.
Per questo si è rivolta alla Mekorot chiedendo un aumento della
fornitura e la compagnia israeliana non ha respinto la richiesta ma
ha precisato che non sarà in grado di soddisfarla proprio a causa
della mancanza di quella rete idrica efficiente che l’occupazione
israeliana si è rifiutata di costruire nei villaggi palestinesi in
più di quarant’anni.
«Sappiamo che non hanno abbastanza acqua ma non c’è modo di aumentare
le forniture perché la rete non esiste in molte zone», ha spiegato
candidamente l’ingegnere della Mekorot, Dani Sofer, aggiungendo che
la sua compagnia già fornisce ai palestinesi una quantità di acqua
superiore a quella stabilita dagli accordi di Oslo (1993).
Quelli senza acqua hanno ben poche possibilità di dissetarsi. Chi ha
un reddito adeguato – pochissimi – compra l’acqua potabile a costi
superiore anche tre volte a quelli normali. Gli altri si arrangiano e
qualcuno utilizza persino acqua contaminata. Il numero di queste
persone, ha messo in guardia l’agenzia Unrwa (Onu) sta aumentando con
il passare delle settimane. A Burin, ad esempio, prendono l’acqua
anche da fonti impure, esponendosi a frequenti malattie virali. «Non
abbiamo scelta, la facciamo bollire ma evidentemente non basta, ci
dispiace per i nostri bambini ma questa è l’acqua che abbiamo a
disposizione e dobbiamo accontentarci», spiega Abu Abed Saade, uno
degli abitanti.
Gli esperti si affannano a spiegare che il problema è più ampio e più
grave. Se da un lato, dicono, Israele non può continuare con la sua
politica discriminatoria, dall’altro tutte le parti coinvolte devono
muoversi, e in fretta, per cercare soluzione sul lungo periodo.
Altrimenti non ci sarà più acqua per nessuno.
Ma anche in questo caso il più forte fa la parte del leone. Israele,
con risorse adeguate, pianifica la costruzione di un numero crescente
di impianti di desalinizzazione mentre l’Anp non sa come muoversi, è
paralizzata dall’impreparazione e dall’impotenza. L’unico accesso
palestinese al mare è a Gaza ma non ci sono i fondi la
desalinizzazione, molto costosa, ed in ogni caso portare acqua da lì
alla Cisgiordania, passando per il territorio israeliano, è una
possibilità remota.
Nel frattempo gli esperti del centro indipendente Palestinian
hidrology group esortano a porre rimedio immediato ai gravi errori di
valutazione sul fabbisogno d’acqua inclusi nell’articolo 40 degli
accordi di Oslo. «Quell’articolo è un ostacolo ad una soluzione
soddisfacente – mette in guardia il centro in un documento – perché
non consente di aumentare il consumo palestinese e non prevede la
riduzione di quello israeliano. Soprattutto non chiede la fine della
colonizzazione della Cisgiordania che assorbe buona parte delle
riserve idriche locali».