Apatia popolare e molto scetticismo sul voto di settembre

Di Akram Atallah Alaysa*

Ma'an. La maggior parte dei palestinesi dei diversi ambiti politici, intellettuali e sociali, fanno spesso un collegamento tra la Dichiarazione di Indipendenza (Doi) di Yasser 'Arafat pronunciata nel 1988 e l'attuale battaglia per il riconoscimento del proprio Stato in sede Onu.

Malgrado ciò, la distinzione è importante e facile da spiegare. La prima fu una semplice espressione del desiderio di libertà e di indipendenza nonostante la presenza dell'occupante sulle terre prese nel 1967.
Sebbene questa dichiarazione non condusse a Oslo, né godeva di alcun fondamento di diritto internazionale, era ancora supportata da circa cento nazioni.

In caso di successo, l'approccio attuale porrebbe la questione palestinese in una posizione completamente differente nell'ambito della comunità internazionale. Ovvero, trasformerebbe lo status giuridico della questione palestinese in quello di Stato occupato e di popolo occupato.
Si tratta di una trasformazione dei confini che permetterebbe ai palestinesi di perseguire i propri diritti attraverso il sistema giuridico internazionale, qualsiasi cosa ciò possa comportare.

Resta, comunque, il timore sugli effetti che questo progetto politico può avere sulle rivendicazioni nazionali palestinesi. Quale sarebbe l'effetto sul Diritto al Ritorno? O sulla capacità dell'Organizzazione di Liberazione della Palestina (Olp) di rappresentare il popolo?

Aldilà di quali siano le differenze tra gli status giuridici di entrambi gli eventi storici, il punto chiave è: perché la nuova manovra diplomatica manca così tanto del supporto popolare, specialmente se messo a confronto con l'immortale dichiarazione di 'Arafat? Perché accade questo nonostante il fatto che la Doi all'epoca mancasse di legalità internazionale mentre l'Onu equivale a garanzia del riconoscimento statale?

Bene, c'è una ragione fondamentale dietro l'apatia nel sentimento popolare verso la “missione di settembre”.

Questa differenza è che la Doi fu il risultato dello straordinario sforzo rivoluzionario della Prima Intifada quale suo catalizzatore. Fu un evento senza precedenti che non era solo un atto della rappresentanza ufficiale del popolo (l'Olp), ma proveniva dal popolo stesso. Era nella natura orizzontale, anziché gerarchica, della Prima Intifada nella quale si riconosceva l'intero spettro politico e sociale palestinese. Inoltre, la Prima Intifada è stata la manifestazione della sollevazione popolare con pratiche della non violenza, mentre si sopportava il carico della macchina militare israeliana. Dopo quello, il sentimento internazionale ha iniziato a considerare la causa palestinese in modo più favorevole.

Non c'è dubbio che la lunga lotta che la società civile e politica palestinese ha intrapreso ultimamente sia da lodare. Si tratta di uno sforzo di una tale dedizione ed efficacia da aver causato instabilità nell'élite politica israeliana alla quale la stessa non è abituata. La classe politica israeliana si è mobilitata per raccogliere consensi in Europa e negli Stati Uniti, puntando su un raggio più ampio da che si ricordi, nel tentativo di fermare gli sforzi palestinesi. Ironicamente, lo sforzo palestinese è stato vincente e il supporto internazionale per la causa è cresciuto. Ma intanto, l'opinione pubblica palestinese resta scollata dalla propria classe politica. Perché questo?

In primo luogo, le istituzioni palestinesi si sono concentrate sul miglioramento si sé con l'obiettivo della scadenza di settembre. Senza dubbio, ciò è di fondamentale importanza perché è la chiave per convincere l'Onu della validità delle richieste palestinesi e della capacità dell'Autorità palestinese (Anp) di sopportarne il peso.
Questa attenzione integra ha portato all'alienazione del concetto di liberazione dalla sua base popolare. La liberazione è stata marginalizzata e ha perso la sua caratteristica popolare mentre è diminuito il generale entusiasmo pubblico verso di essa. Il popolo vede la “missione di settembre” come un dovere delle istituzioni ufficiali palestinesi, non del popolo. La maggior parte dei palestinesi crede che la responsabilità sia dell'Anp e non della gente, diversamente dalla Doi del 1988.

Questo stesso pensiero, pieno di difetti com'è, si è esteso a tutti gli altri aspetti dell'arena politica. Inoltre, la sempre crescente percentuale di impiegati nel settore pubblico palestinese hanno cambiato la prospettiva. Essi sono dipendenti dell'Anp e quindi distanti dal pensiero originale rivoluzionario proprio dell'Olp. In tal modo, il ruolo delle fazioni nell'arena politica è venuto meno, specialmente quello di Fatah, dal momento che ora è visto come un partito che impone regole piuttosto che un “Movimento di Liberazione”.

In secondo luogo, la popolazione non ha solo perso il legame con i partiti, ha anche perso ogni fiducia nelle loro azioni, come confermato da diversi sondaggi effettuati negli ultimi anni.
Questo sentimento non è casuale, ma è il risultato dei vuoti che la gente ha riscontrato nella propria leadership.
Un esempio dal più vicino passato e' la reazione dei funzionari palestinesi al rapporto Goldstone su Gaza. Nel caso del rapporto, la società civile palestinese e le organizzazioni giuridiche si sono espresse per mesi sulla scena internazionale accusando Israele dell'efferatezza dell'assalto furioso su Gaza nel periodo a cavallo tra il 2008 e il 2009.
In quel frangente, l'Anp ha ritrattato la sua posizione a Ginevra dietro le minacce di Israele di sospendere i versamenti delle entrate fiscali palestinesi e quelle Statunitensi di sospendere gli aiuti finanziari a favore della stessa Anp.
Alla luce di ciò, ci si chiede se le minacce di questo tipo – quelle del “bastone grosso”  di Israele e Usa, possano portare i palestinesi a ritirare la proposta di riconoscimento all'Onu.

Terzo punto, in caso di fallimento della “missione di settembre”, o di successo, i funzionari palestinesi parlano dell'esistenza di alternative strategiche. Sono comunque molti, se non la maggior parte, i settori della società palestinese a non ritenersi complici di questo processo, n'è appoggiano queste alternative.
L'opinione pubblica vede il processo tutt'altro che trasparente e flessibile. La gente non è mai stata consultata o informata riguardo alla struttura del progetto. Così agendo, il popolo non appoggerà un piano del genere.

Aldilà di quale sia la natura elitaria della “missione di settembre”, l'appuntamento all'Onu e' fra pochi giorni e si avvicina anche rapidamente. Ritirarsi di fronte alle minacce economiche di Israele e quello di un quasi-certo veto Statunitense non è una possibilità praticabile.

Il ritiro dell'istanza all'Onu porterebbe indietro i palestinesi, verso negoziati caotici con i quali si gestirebbe la crisi, senza risolvere nulla in pratica. Questo sfocerebbe anche in ulteriori divisioni della posizione palestinese, non sarebbe d'aiuto alla ricostruzione della riconciliazione nazionale, ma piuttosto la farebbe cadere nel baratro.
Si andrebbe ad acutizzare poi, la diffidenza tra il popolo e la leadership politica. Infine, minerebbe qualsiasi credibilità di cui gode l'Anp tra i 124 Paesi che hanno promesso di supportare la sua richiesta di riconoscimento dello Stato, vanificando anche qualsiasi richiesta in futuro.

La “missione di settembre ” è il tentativo ambizioso di recuperare vent'anni di negoziati inutili, mescolato a un alto grado di sfiducia verso i partiti politici e a quarant'anni di resistenza.

Non si tratta comunque di una soluzione dai poteri magici per la Diaspora palestinese.
Indipendentemente da quale sarà il risultato di settembre, Israele non smantellerà le colonie in Cisgiordania, né riconoscerà lo Stato di Palestina.

Una vittoria de facto sarebbe a settembre quella derivante da una missione di successo, con un popolo palestinese che appoggi il progetto invece di restare solo un soggetto osservatore.

*Akram Atallah Aalyasa è ricercatore presso l'Istituto Norvegese per gli Studi Internazionali Applicati – Fafo.

Traduzione per InfoPal a cura di Federica Daga

(Foto: Ma'an News Agency).

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