Attivisti e capi della comunità bersaglio delle espulsioni di Gerusalemme

Palestinians walk outside Damascus Gate leading into the old city of Jerusalem from their way from Friday prayers in the Al-Aqsa Mosque compound, Islam's third holiest site, on November 18, 2011. Photo by Mahfouz Abu Turk
Palestinians walk outside Damascus Gate leading into the old city of Jerusalem from their way from Friday prayers in the Al-Aqsa Mosque compound, Islam’s third holiest site, on November 18, 2011. Photo by Mahfouz Abu Turk

EI. In qualsiasi momento i Palestinesi difendano i loro diritti a Gerusalemme, è certo che Samer Abu Eisheh sarà là. E’ difficile immaginare una protesta nei pressi della Porta di Damasco – l’ingresso alla città vecchia di Gerusalemme – senza sentire la sua voce ruggente.

Ciononostante, sono i 28 anni di attivismo implacabile che potrebbero separarlo dalla sua casa. Dopo quasi tre mesi ai domiciliari, al produttore televisivo e capo della comunità è stato consegnato questa settimana un ordine di espulsione di cinque mesi da Gerusalemme. E’ stato emesso da un comandante di quartiere israeliano.

Abu Eisheh e un altro palestinese sono attualmente seduti presso gli uffici del comitato internazionale della Croce Rossa a Gerusalemme per protestare e ribellarsi all’ordinanza.

L’ordinanza segue il recente assottigliamento della politica israeliana di revoca dei diritti di residenza dei palestinesi a Gerusalemme. A settembre Silvan Shalom, il ministro degli Interni israeliano, aveva promesso di revocare i diritti di residenza a coloro giudicati colpevoli di “infrangere la fedeltà allo Stato di Israele”.

Da allora sono stati emessi cinque ordini di espulsione.

Israele ha occupato Gerusalemme Est nel giugno del 1967 e l’ha formalmente annessa nel 1989. La conseguenza è che  i palestinesi residenti sono stati etichettati come “residenti permanenti”, uno status che è vulnerabile di revoca.

Nel frattempo Israele ostacola il libero accesso alla città di palestinesi, le cui carte di identità li classificano come provenienti dalla Cisgiordania.

Secondo le leggi del diritto internazionale, l’annessione di Gerusalemme Est a Israele è nulla.

Tra il 1967 e il 2013 più di 14.300 palestinesi si sono visti revocare il loro stato di residenza, con le autorità israeliane che nella maggior parte dei casi adducono a ragioni amministrative. Solo un ristretto gruppo di palestinesi è stato minacciato di revoca per presunti atti di terrorismo.

L’ultimo mandato di arresto è arrivato il 18 Agosto per  Abu Eisheh. E’ stato detenuto e interrogato per più di un mese nel noto Russian Compound con l’accusa di visitare uno stato nemico. Era recentemente ritornato dal Libano.

Il 1° ottobre Abu Eisheh è stato mandato agli arresti domiciliari. Gli è stato consegnato l’ordine di espulsione per l’ultimo giorno dei domiciliari.

Tribunali illegali

Abu Eisheh è nato e cresciuto nella vecchia Gerusalemme e insiste che non la lascerà mai di sua spontanea volontà. Lo si poteva vedere sfidare le autorità israeliane il giorno dopo aver ricevuto l’ordine di espulsione, mentre se ne stava con gli amici nei pressi della porta di Damasco.

Può presentare una petizione contro l’ordine di espulsione al tribunale distrettuale israeliano, ma crede che un tale appello sarebbe facilmente respinto. L’ordine di espulsione, scritto in ebraico e arabo, afferma che Abu Eisheh costituisce un pericolo alla pubblica sicurezza.

“Tali ordinanze non vengono mai revocate perché per la magistratura israeliana la sicurezza sta prima di tutto”, ha raccontato a Electronic Intifada Mahmoud Hassan, il rappresentante legale di Abu Eisheh.

“Questi sono tribunali illegali dove la giustizia è sistematicamente rifiutata ai palestinesi”, ha aggiunto Hassan, che lavora con il gruppo Addameer per i diritti dei detenuti palestinesi.

“Dopo il rifiuto inevitabile del tribunale distrettuale, farò appello alla corte suprema”, ha detto Abu Eisheh. L’alta corte di Israele è anche corte suprema.

“Dopodiché userò ogni possibile canale internazionale per poter rimanere con mia moglie a Gerusalemme”, ha aggiunto.

Ma questo non riguarda solo lui. “Voglio che la mia situazione serva a rimarcare il tema dell’espulsione che devono affrontare gli abitanti di Gerusalemme. Dobbiamo mandare un messaggio contro l’occupazione, che noi non soccomberemo docilmente mentre cercano buttarci fuori a calci dalla nostra stessa città”.

Abu Eisheh crede che la politica di espulsione sia parte di un progetto più ampio per liberare la città dai suoi abitanti originari.

“Finora sono stati emessi cinque ordini di espulsioni da ottobre, ma ce ne aspettiamo molti di più”, ha detto “Tali espulsioni sono correlate da una chiara violazione delle leggi  internazionali e, come tali, non possiamo aspettarci che i tribunali israeliani le fermino. Dobbiamo portare questo caso all’interno dell’arena internazionale, inclusa la corte penale internazionale”.

Rischi

Abu Eisheh è pienamente supportato da sua moglie Rawan e dalla famiglia di lei nella sua decisione di battersi contro l’occupazione israeliana. I due si sono sposati nel 2012 e, nonostante il costante pericolo di arresto, la coppia è determinata a vivere a Gerusalemme.

Abu Eisheh trae conforto dal fatto di non avere ancora figli. Almeno, dice, nessun bambino avrebbe sofferto le conseguenze dell’espulsione, permettendo ad Abu Eisheh di assumersi maggiori rischi nella lotta.

Per Hijazi Abu Sbeih, padre di tre figli e l’unico a mantenere la famiglia, assumere tali rischi non era un’opzione fattibile. Anche ad Abu Sbeih è stato dato un ordine di espulsione di sei mesi l’8 dicembre, dopo che è stato fermato e perquisito in via Salah al-Din, a breve distanza dalla città vecchia.

Da allora ha vissuto nel vicino villaggio di al-Eizariya, spostandosi da una casa di amici all’altra.

“Ho lasciato mia moglie e i miei tre figli, perché loro non possono smettere di frequentare la scuola a Gerusalemme per seguirmi”, ha detto il 33enne Abu Sbeih al sito The Electronic Intifada.

La moglie di Abu Sbeih, Tahani, viene dalla Cisgiordania e vive a Gerusalemme con un permesso di residenza temporaneo che deve rinnovare annualmente. La sua domanda è stata rifiutata dal ministero dell’Interno israeliano dopo l’espulsione di suo marito, accumulando sulla famiglia una crescente incertezza.

La famiglia faceva  affidamento sul denaro che Abu Sbeih guadagna vendendo vestiti e dolciumi con suo fratello nella città vecchia . La sua espulsione ha significato dover dipendere dall’aiuto dei parenti.

“Ovviamente tutto ciò è insostenibile. Non ho veramente idea di come potremmo farcela per i prossimi sei mesi” ha detto Abu Sbeih.

Abu Sbeih crede anche che le espulsioni siano una tattica utilizzata da Israele per ripulire  Gerusalemme dagli attivisti politici palestinesi e dai leader delle comunità.

“Così come hanno proceduto con arresti in massa, detenzioni amministrative e arresti domiciliari per contenere la rivolta (dai primi di ottobre), ora ricorrono all’espulsione di giovani attivisti da Gerusalemme” ha detto.  Anche perseguendo questa tattica si avrà un esito negativo. “Stanno facendo pressione sulle persone sino a portarle ad un punto di rottura”.

Venerdì Abu Sbeih ha deciso  di ribellarsi all’ordine di espulsione, per ritornare  a Gerusalemme dove parteciperà ad un sit-in presso gli uffici del comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) a Sheikh Jarrah. E’ stato raggiunto da Samer Abu Eisheh.

Nel 2010 diversi parlamentari palestinesi di Gerusalemme, affiliati ad Hamas, hanno trovato rifugio presso gli uffici del CICR, in spregio agli ordini di espulsione. Israele alla fine li ha arrestati ed espulsi.

Catena umana

Nonostante la sistematica individuazione degli attivisti di spicco, quelli che rimangono portano avanti la protesta.

Sabato un gruppo di attivisti ha formato quella che loro stessi hanno definito come “la più lunga catena umana” intorno alle mura della città vecchia.

Centinaia di persone hanno partecipato nonostante la massiccia presenza di forze di sicurezza israeliane che hanno sparato bombe assordanti e gas lacrimogeno quando gli attivisti hanno iniziato a marciare attraverso la porta di Damasco.

La protesta è stata indetta per chiedere che Israele consegni ai familiari delle vittime i corpi di coloro che ha ucciso.

La volontà dei palestinesi di attuare provvedimenti diretti nonostante la stretta repressiva di Israele dimostra che Abu Sbeih ha ragione nel dire che né la deportazione né l’arresto indurranno al silenzio i palestinesi a Gerusalemme.

Ma certamente Israele sta rendendo la vita difficile nella città.

Muhammad Razem, 24 anni, ha visto completamente stravolta la sua vita da quando gli è stato consegnato l’ordine di espulsione il 24 dicembre.

Padre di un bambino di 11 mesi, Razem e sua moglie vivevano in affitto nel quartiere di Silwan. Negli ultimi mesi era stato bandito dalla moschea di al-Aqsa quattro volte. Sospettava si trattasse solo di una questione di tempo prima che venisse interdetto del tutto da Gerusalemme.

“Non sono stato espulso solo da Gerusalemme; la lista dei posti dove non posso entrare includono anche Abu Dis, un villaggio dove la nostra famiglia ha una casa e dove avremmo potuto stare”, ha raccontato Razem a Electronic Intifada. “I servizi segreti conoscono ogni cosa di noi e vogliono farci penare il più possibile. Per questo mi hanno interdetto dall’interno governatorato”.

Razem e la sua famiglia hanno affittato un appartamento ad Abu Ghosh, proprio fuori dalla città. Ma continuano a pagare l’affitto per la loro casa a Silwan ci ha raccontato, mentre faceva una pausa al sito di costruzione di Abu Ghosh dove lavora.

E’ qualcosa che deve fare. Israele preme affinché i palestinesi di Gerusalemme dimostrino che il loro “centro di vita” – istruzione, lavoro, casa – è in città, al fine di mantenere la loro residenza.

“Non pagare l’affitto della nostra casa a Silwan significherebbe non potere più, un futuro, abitare a Gerusalemme, che è esattamente ciò che Israele vuole”, ha detto. Il giovane operaio paga più di 3.000 shekels (700 dollari) di affitto solo per le due case. Il che è più di metà del suo stipendio mensile.

“La vita ad Abu Gosh è molto cara e non posso sempre andare a Gerusalemme o ad Abu Dis per comprare il necessario”, ci dice.

E’ stato prudente. Un ufficiale di polizia israeliano lo ha chiamato, ha detto, e lo ha minacciato di future ripercussioni se non obbedisce all’ordine di espulsione.

Ogni metodo di intimidazione

Il primo dei cinque palestinesi che a Gerusalemme ha ricevuto l’ordine di espulsione dai primi di ottobre è Anan Najib. Ora vive con moglie e figli a al-Eizariya.

Il più giovane di quelli che hanno ricevuto l’ordine è Obada Najib, appena 18 anni.

Secondo Amjad Abu Asab, il portavoce del comitato indipendente di supporto ai detenuti, i prigionieri di Fromer e le loro famiglie, sei palestinesi provenienti da Gerusalemme, sono stati espulsi alla fine del 2014. Due di loro sono stati arrestati in seguito con l’accusa di aver violato l’ordinanza, mentre gli altri quattro sono stati autorizzati a tornare a Gerusalemme allo scadere della stessa.

“Al di là delle espulsioni, una nuova tendenza che è riemersa durante queste insurrezioni è la detenzione amministrativa dei giovani palestinesi a Gerusalemme”, ha raccontato Abu Asab a Electronic Intifada

Secondo i suoi dati 31 palestinesi sono stati messi sotto detenzione amministrativa, reclusi senza accusa né processo, da ottobre. Il numero include quattro minori, più di recente il 17enne Muhamman al-Hashlamoun, messo sotto custodia agli inizi della scorsa settimana.

Al-Hashlamoun è stato prima arrestato e interrogato per venti giorni al Russian Compound. E anche se una corte israeliana ha deciso di rilasciarlo dopo che nessuna prova era stata trovata per incriminarlo, il ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon ha approvato per lui un ordine di detenzione amministrativa.

Secondo la sua famiglia, al-Hashlamoun è stato duramente picchiato quando è stato prelevato dalla sua abitazione a Ras al-Amoud, nel quartiere Silwan, all’inizio di dicembre. La famiglia, che aveva raccolto per il suo rilascio una cauzione di 5.000 shekels (1.300 dollari), si è detta meravigliata della telefonata della polizia israeliana che gli comunicava che il figlio non sarebbe stato scarcerato.

“L’emissione di un ordine di detenzione amministrativa per i residenti di Gerusalemme è piuttosto complesso perché richiede l’approvazione del ministero della Difesa israeliano”, racconta Abu Asab. “Ma dall’inizio delle rivolte ciò è divenuto una mera formalità. Israele sta letteralmente utilizzando ogni singolo metodo per intimorire i palestinesi a Gerusalemme e per punirli per l’insurrezione”.

Samer Abu Eisher è pienamente consapevole del fatto che non è strano per i palestinesi essere costretti all’esilio. Gli sradicamenti durante la Nakba, la pulizia etnica della Palestina nel 1948, e l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza nel 1967 non hanno ancora permesso di tornare a casa.

“Sappiamo che se non reagiamo a queste espulsioni – ha detto -, il nostro destino potrebbe essere molto simile a quello dei nostri nonni, che sono stati allontanati con la forza e ancora sognano di tornare”.

(Foto: la porta di Damasco a Gerusalemme, dove le dure misure restrittive  di Israele sono finalizzate a reprimere qualunque resistenza organizzata nella città sotto occupazione).

Traduzione di Marta Bettenzoli