Attivisti di Fb nel mirino del governo israeliano (3a parte)

fBiz-intercept-1Attivisti di Fb nel mirino del governo israeliano (3a parte).

Ho incontrato Zahda lo scorso Giugno a Hebron, nella casa di una famiglia palestinese che cucina cibo per gruppi di turisti. Lui è nato in questa città storica e sacra e la sua vita è stata segnata dall’Intifada del 1987, che egli ricorda come un momento in cui i soldati israeliani uccisero giovani palestinesi che si difendevano lanciando pietre, dalla speranza degli Accordi di Oslo, sottoscritti nel 1993, dall’amarezza che seguì al fallimento dei medesimi; e dalla violenza della seconda Intifada, iniziata nel 2000.

Le barriere israeliane erette contro la libera circolazione dei palestinesi, aumentate dopo la seconda Intifada, sono fonte di frustrazione per Zahda. Lui ama fare sport, e per questo ha studiato in Algeria, ma l’occupazione israeliana pone un limite anche alla sua passione. Zahda ha fondato un gruppo ciclistico palestinese ma “quando vogliamo percorrere 100 km in bici, per esempio, non possiamo perché dobbiamo passare attraverso i check-point”, dice. “Se vogliamo andare da Hebron a Gerusalemme, sono soltanto 30 km e ci sono più di due, tre check-point”.

La modesta abitazione dove ho intervistato Zahda è a 300 metri di distanza dal check-point di Bab al-Zawiya, dove un soldato nella sua uniforme verde oliva imbraccia la sua arma mentre controlla passaporti e carte d’identità. La casa è situata nella nota Shuhada Street, dove le porte di un verde sbiadito di quelli che un tempo erano negozi sono sigillate dal 1994, quando Baruch Goldstein, un colono israeliano nato a Brooklyn, uccise 29 palestinesi nell’ora della preghiera nella moschea Ibrahimi, a Hebron. Due delle vittime palestinesi erano i cugini di Zahda. In seguito, l’esercito israeliano chiuse centinaia di negozi situati su Shuhada Street, la principale arteria commerciale di Hebron, per tutelare la sicurezza dei coloni israeliani che vivevano in questa strada o nelle vicinanze. Oggi, quelle porte sono ricoperte da scritte nere di cattivo gusto: i coloni israeliani hanno scritto “a morte gli arabi” e le hanno contrassegnate con la stella di Davide. Gli abitanti del posto chiamano questa via “la città fantasma”. Zahda sottolinea che non ha mai incitato nessuno alla violenza ma nell’estate 2014, quando l’esercito israeliano impose un blocco sulla città di Hebron e iniziò a bombardare la Striscia di Gaza, amministrava una pagina Facebook chiamata “Intifada al-Khalil”- “the uprising of Hebron”. Zahda utilizzava questa pagina per fornire aggiornamenti sul conflitto ed incoraggiare le persone a manifestare.

“All’inizio la pagina aveva raggiunto un migliaio di “mi piace” ”, dice. Nel 2014, la ripresa delle violenze ha fatto montare la rabbia di Zahda. Inizialmente, la rabbia si era manifestata con alcuni militanti palestinesi che avevano in ostaggio, ma successivamente uccisero tre giovani israeliani vicino Hebron, quindi si diffuse a Gerusalemme dove per vendetta fu eseguito l’omicidio raccapricciante di un giovane palestinese e infine culminò in una guerra che per 51 giorni mise Gaza a ferro e fuoco, e durante la quale morirono più di 2.100 palestinesi e 72 israeliani. Zahda utilizzò Facebook per rivolgere le sue parole a Ghassan Alian, il capo della brigata Golani, che il 20 luglio 2014 bombardò il quartiere di Shuja’iyya a Gaza, uccidendo almeno 60 persone in 24 ore. La rabbia covata da Zahda era dovuta soprattutto al fatto che Alian fosse un arabo druso al servizio dell’esercito israeliano. Infatti, gli arabi cristiani e musulmani che vivono in Israele solitamente non prestano servizio nell’esercito, al contrario della gran parte degli arabi drusi che invece vi partecipano. Zahda scrisse numerosi post sulla sua pagina Facebook, dicendo che “le persone di Shfar’am – il villaggio settentrionale da cui proviene Alian – hanno accettato che i tuoi figli ci uccidessero in questa maniera” e che “il massacro dei bambini di Gaza, reso possibile da un druso di Shfar’am, passerà alla storia”.

La foto profilo della pagina mostrava immagini di armi in trasparenza, dietro la frase “Noi siamo con la resistenza”. Zahda ha spiegato che questa immagine era ampiamente diffusa tra i palestinesi durante la guerra. In aggiunta, egli chiese i numeri di telefono delle persone di Shfar’am che conoscevano la famiglia del carnefice, ma l’esercito interpretò quest’azione come una minaccia ad Alian. Zahda, invece, sostiene che la sua azione aveva quale obiettivo quello di invitare le persone di Shfar’am a mettere pressione su Alian affinché sospendesse la sua partecipazione nella guerra di Israele a Gaza. L’esercito ha anche accusato Zahda di aver pubblicato un post in cui rinominava la manifestazione di Hebron “la notte delle molotov”. Zahda fu costretto a chiudere la sua pagina dopo aver ricevuto minacce dall’esercito, ammonendolo che il suo giorno stava per arrivare se non avesse cancellato la pagina. L’esercito non ha risposto alle domande riguardo la presunta minaccia. Zahda ammette di aver scritto su Shfar’am in un momento di rabbia ma chiarisce che il commento inerente le molotov era stato scritto da altri palestinesi, non da lui.

In tribunale, tuttavia, l’avvocato di Zahda non ha contestato la versione dell’esercito sui post di Facebook, dopo aver notato che l’accusa non menzionava nessun’altra persona al di fuori di Zahda. Se avesse contestato quella versione, facendo riferimento alle attività degli altri sulla pagina Facebook, l’accusa avrebbe cambiato strategia utilizzando le attività dei sostenitori della pagina come parte integrante del processo contro il suo assistito.

In realtà, dal momento che gli utenti di Facebook condividono più di 2 milioni di contenuti ogni minuto, poteva esserci la possibilità che i post di Zahda passassero inosservati. Ma, secondo Ramati, i post di Zahda erano stati notati da un gruppo israeliano di destra che era alquanto irritato dal fatto che le forze dell’ordine quell’estate avevano annunciato la volontà di rilevare le istigazioni ebraiche, quando gli israeliani su Facebook inneggiavano all’uccisione degli arabi. Ramati dice che è stato tramite questo gruppo di persone che la polizia israeliana è venuta a conoscenza e quindi ha rivolto l’attenzione al gruppo creato da Zahda su Facebook. Il reparto informatico della polizia iniziò, quindi, a tracciare la pagina di Zahda e i relativi post, e il procuratore generale acconsentì ad un’investigazione sulle attività di Zahda. Mentre questo era detenuto, le forze dell’ordine israeliane ottennero l’accesso completo alla pagina attraverso un ordine del tribunale emesso nei confronti dell’azienda Facebook, con cui si richiedevano i dati comprovanti che la suddetta pagina fosse stata creata da Zahda. Sebbene la polizia avesse monitorato questa pagina nel corso della guerra, v’era bisogno di dati ufficiali forniti da Facebook per la conferma definitiva che il proprietario della pagina “Intifada al-Khalil” fosse proprio Zahda, un fatto che egli inizialmente aveva negato. Facebook eseguì la richiesta di fornire questi dati, secondo l’avvocato, e Zahda risultò essere il proprietario della pagina. Facebook non ha mai risposto alle reiterate domande sulla collaborazione con le forze dell’ordine israeliane in questo processo.

Traduzione per InfoPal di M.D.F.

Parte 1a

Parte 2a