Bambini di Palestina processati dal tribunale militare di Israele

israel-child-abuseMcc43. Di Sarah Champion(*).

Fa freddo. Davvero molto freddo. Il vento arriva come tanti colpi di frusta dall’aperta campagna e il compound militare che ho davanti è il primo ostacolo che trova nel suo corso. E’ la prima settimana di gennaio e io sono in Palestina, in coda per entrare dove potrò vedere di persona i bambini detenuti sotto processo e l’emissione della sentenza.
Sono fortunata. Abbiamo spedito i miei documenti agli Israeliani in anticipo e i due avvocati internazionali con me sono ben conosciuti, così bastano 10 minuti e siamo dentro. Non così fortunati i genitori che sono stati in coda a lungo già prima del nostro arrivo. Molto probabilmente partiti alle cinque per essere lì quando il primo caso sarebbe stato chiamato, alle nove. La Palestina è un paese molto piccolo, ha circa le stesse dimensioni di una contea inglese, non è la distanza o la mancanza di mezzi di trasporto pubblici a rendere i viaggi così lunghi: sono i posti di blocco.

Il sessanta per cento della West Bank della Palestina è designato Area C e praticamente è tutta sotto il controllo militare israeliano. In parole povere, la maggior parte della Palestina non è gestita dai Palestinesi, ma dall’IDF, l’esercito israeliano. E’ per questo che i bambini palestinesi che sono venuta a vedere qui oggi sono giudicati da un tribunale militare, non da uno civile, ed è anche il motivo per cui i genitori hanno impiegato cinque ore per percorrere poche miglia, poiché il loro percorso era disseminato di posti di blocco militari.
In linea d’aria, il Tribunale militare è solo un paio di miglia dal mio albergo in Ramallah, ma il viaggio mi ha portato via quasi un’ora con un’auto privata, avendo dovuto zigzagare, girare in tondo, ripassare cercando un posto di blocco aperto, che non avesse un’enormità di persone in coda e che fosse segnalato accessibile. Ed era un’auto con targa israeliana! Immaginate cosa dev’essere se si è Palestinesi, su un autobus palestinese, cercando di percorrere venti miglia, disperatamente in ansia per poter vedere il vostro bambino.

Una volta dentro il compound, entriamo in un piccolo locale di sicurezza. Proprio come in un aeroporto, mi tolgo scarpe e cappotto, frugano la mia borsa. Stranamente, non mi è permesso di portare i guanti dentro la stanza, ma posso tenere la penna. Questo mi ha fatto ridere: mi impediscono di lanciare il guanto di sfida, ma posso scriverne.  Con gli avvocati, usciamo di nuovo e andiamo verso una grande area di detenzione. Ci sono centinaia di genitori in attesa che sia chiamato il nome del loro bambino.  La Corte è aperta dalle 09:00 alle 17:00 ma non si sa a che ora il tuo bambino sarà processato, quindi devi stare lì tutto il giorno. C’è una piccola mensa, ma nonostante il freddo molte persone si assiepano all’esterno. Uno dei miei accompagnatori mi dice che qualunque cosa accada, non devo usare il bagno pubblico.

La Corte vera e propria è alloggiata in grandi prefabbricati dietro una recinzione in acciaio. Entrando mi colpisce quanto fa caldo e quanto numerose sono le persone in uniforme che bazzicano lì con aria annoiata. Non mi aspettavo che anche il giudice fosse in divisa e nemmeno che tanti giovani soldati fossero lì comandati di servizio. Ci sediamo su sedili di plastica ed è solo allora che noto il piccolo ragazzo spaventato seduto da solo dietro una barriera coi piedi incatenati.
L’avvocato della difesa si avvicina e ci dice che il ragazzo ha 14 anni e sarà condannato per un lancio di pietre, durante il quale è stato ferito un poliziotto. Il ragazzo è già incarcerato daquattro mesi, in attesa della sentenza.

Il procedimento inizia. Il giudice parla. Diventa evidente che quel giovane militare con i piedi sulla scrivania è il traduttore. La sessione si svolge in ebraico, ma il ragazzo parla arabo. Di tanto in tanto, il traduttore lancia qualche parola in arabo nella sua direzione e il ragazzo le afferra disperatamente cercando di capire quale sarà il suo destino. Gli danno sette mesi (oltre a quelli già passati nell’attesa) e altri dodici mesi con sospensione della pena. L’intera udienza dura un paio di minuti.

L’imputato seguente entra con un tintinnio di catene. E’ un ragazzone dal volto largo che guarda freneticamente tutto intorno nella stanza, pertanto suppongo stia cercando i suoi genitori, che però non ci sono. Fissa lo sguardo su di noi – uniche persone che non indossano l’uniforme – e gli occhi invocano aiuto, calore e compassione. Gli sorrido dall’altra parte della stanza, anche se in realtà ho voglia di piangere, di abbracciarlo e portarmelo a casa.
Il giudice si rivolge a noi in inglese:  “La difesa presenterà prove mediche su questo caso e sulla salute mentale del prigioniero. Prima che queste siano esposte, vi verrà chiesto di uscire per motivi di privacy del prigioniero”.
L’avvocato della difesa si avvicina e ci spiega che il ragazzo ha in realtà 18 anni, ma poiché è stato in carcere per due anni senza emissione della sentenza, sarà processato come se fosse un bambino. Usciamo poco dopo.

Non ho potuto sapere, poi, di cosa era accusato il ragazzo. Non so se era colpevole o innocente. Quello che so è che, anche se fosse un atroce reato, mettere i ceppi a un bambino, negargli l’istruzione, costringerlo a trascorrere due anni senza verdetto non è un modo giusto, democratico o morale di comportarsi da parte di uno stato.
Il nostro tempo al compound sta per esaurirsi così trascorriamo l’ultima mezz’ora nella stanza dove i prigionieri sono tenuti in attesa, prima della comunicazione delle imputazioni.
Qui il clima è diverso, in parte perché siamo in una camera molto più piccola, ma anche perché sembra tutto più minaccioso. Il giudice ci sembra subito a disagio quando entriamo. “Quel giudice è inglese, ci odia” mormora l’avvocato che è con noi.

Poiché lo spazio è ristretto, quasi non avevo notato i due ragazzini, piccoli d’età e di statura. A prima vista avevo pensato che fossero portatori di handicap perché entrambi sembravano soffrire di una paresi facciale simile ed erano seduti in maniera strana.
Una porta laterale si spalanca e entra un uomo in jeans e felpa, il che sembra strano dal momento che tutti gli altri visti in precedenza erano in uniforme. Appena entrato, va a stringere la mano al giudice e a dare una pacca sul sedere agli impiegati. I due ragazzini istintivamente si ritraggono e nell’atto di rannicchiarsi si girano verso di me, così posso dare uno sguardo alle loro facce. Non hanno una paresi: sono stati picchiati.
E’ l’uomo che conduce gli interrogatori”, sussurra il mio accompagnatore, mentre il giudice ci guarda, si alza e esce dalla stanza.
Una bella donna in uniforme ci viene vicino dicendoci: “Il giudice ha deciso che processeremo questo caso domani”. I bambini vengono condotti fuori, mentre io rimango seduta, guardo semplicemente davanti a me, cercando di elaborare quanto ho visto.
Cosa diavolo sta succedendo in questo paese, e come può il mondo lasciare che ciò accada?

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(*) Sarah Champion è deputato laburista alla Camera dei Comuni e Ministro-ombra per le pari opportunità. Si è recata in Cisgiordania per assistere a una delle più gravi e continuate violazioni dei diritti umani: il processo di bambini palestinesi presso il Tribunale militare di Israele. Quello che ha visto lo ha raccontato nell’articolo, qui di seguito tradotto, intitolato What On Earth Is Going On In The West Bank – And How Are We Letting It Happen? dell‘Huffington Post del 10 febbraio 2017.