Basta con le femen o il femminismo di facciata: le palestinesi sono le vere combattenti

dima_wawi_abed_qaisi_jazPalestine Chronicle. Di Romana Rubeo. Il calendario dell’uomo moderno non è più scandito dal ritmo delle stagioni: ogni giorno ti svegli e scopri che non è un giorno qualunque, ma la Giornata Internazionale contro qualcosa, o qualcuno; o a favore di qualcosa, o di qualcuno.

Che non si affollino i pensieri, ognuno si concentri su un tema specifico per sole 24 ore, senza approfondire, ma con tutto il corollario di simboli intrisi di retorica e “approvati” dal senso comune.

Il 25 novembre, ad esempio, è la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della violenza contro le donne e la grande macchina dei social entra subito in azione.

Facebook dà agli utenti la possibilità di “cambiare la foto profilo per mostrare il proprio sostegno”; le pagine istituzionali che seguo pubblicano foto di iniziative, corredate da frasi memorabili, meglio se citazioni; la TV ci propina spot fondati su insopportabili cliché “progressisti”.

L’impianto retorico è salvo, le coscienze sono pulite.

Ma chi sono, esattamente, le donne di cui si parla? Che cosa rappresentano? Vittime di chi? Di cosa? Parliamo di violenza privata, domestica? O parliamo di violenza culturale, sociale? Parliamo di modello patriarcale da superare, o di semplici diritti da acquisire? In fondo, non importa a nessuno specificare bene l’obiettivo, analizzare le questioni, interrogarsi sulle dinamiche profonde, in una società, quella occidentale, in cui si confonde il femminismo con le Femen e la libertà con i centimetri sottratti alle nostre gonne.

Già, è proprio questo il pensiero che mi viene in mente: i simboli vuoti, i feticci che dobbiamo associare ai concetti, e che sembrano imposti da modelli necessari. Nella nostra cultura dell’immagine, tutto diventa brand, e se non è brand non esiste.

Pochissimi, infatti, in questa giornata, ricordano quelle donne che non sono patinate come le Femen, che non indossano scarpette rosse da trasformare in installazioni artistiche; donne che spesso indossano un hijab che, agli occhi dell’immaginario collettivo occidentale, le rende deboli e sottomesse. Poco importa se queste donne siano, invece, parte attiva della resistenza contro la forza occupante; che da secoli svolgano un ruolo fondamentale nella lotta contro l’occupazione; che combattano attivamente per la liberazione nazionale, che siano le depositarie del “sumud”, resistenza tutt’altro che passiva alla feroce occupazione israeliana[1].

È troppo difficile incasellare queste combattenti, non sono “vittime convenzionali”, non hanno risonanza nei media mainstream. E ad ogni modo, non è semplice esprimere il dissenso, in un mondo che sembra dover riassumere ogni concetto nei 140 caratteri di Twitter, rigorosamente preceduti dall’hashtag #JeSuis.

Mi riferisco alle donne palestinesi, e in particolare alle detenute palestinesi. A quelle che si trovano nelle carceri israeliane, e a quelle che vivono in una “cella più grande”, in un Paese afflitto da una terribile occupazione militare, che restringe la loro libertà di movimento, di azione, di vita.

La stragrande maggioranza delle donne in Palestina è arrestata per ragioni squisitamente politiche, in barba ai più elementari diritti umani; con capi d’accusa che farebbero rabbrividire chiunque, come “partecipazione alle attività pubbliche studentesche”.[2]

In altri casi, sono in regime di detenzione amministrativa, senza capi d’accusa, senza che si svolga un processo. Molte di loro sono minori. [3]

Le detenute palestinesi sono soggette a ogni forma di violenza; le autorità israeliane calpestano i diritti umani più elementari: sono tenute in regime di isolamento per lunghi periodi di tempo. Non hanno la possibilità di incontrare i familiari né i legali; sono private dell’aria e della luce del sole; non hanno accesso alle cure mediche, neanche quando sono affette da gravi patologie; vengono trasferite in strutture carcerarie poste al di fuori dei territori occupati, in palese violazione del diritto internazionale; sono picchiate, insultate, sottoposte a perquisizioni umilianti; sono vittime di esplicite molestie sessuali e vivono nel costante terrore di essere violentate.

“Sì, sono stata rilasciata, ma sono ancora una prigioniera nell’anima”, sono queste le parole di Ikram al-Taweel, di Hebron, dopo due anni di prigionia.

È una prigioniera nell’anima ed è una prigioniera tout court: perché, ad essere un carcere, è la stessa occupazione israeliana. Sono i checkpoint, muri e apartheid a scandire le giornate di queste donne; la paura, l’ansia e l’angoscia sono i loro compagni di cella costanti.

Sono storie dolorose, molto dolorose. E coglierne la complessità è meno rassicurante del solito, vecchio cliché che riduce la violenza contro le donne a un feticcio, facile da propinare e in grado di bucare il video.

[1] http://www.palestine-studies.org/sites/default/files/jq-articles/To%20Exist%20to%20Resist_JQ%2059.pdf

[2] http://samidoun.net/2016/11/palestinian-university-student-noor-darwish-sentenced-to-eight-months-for-student-activities/

[3] http://www.palestinechronicle.com/israel-sentences-palestinian-girl-to-13-years-in-prison-for-alleged-scissors-stabbing-attempt/