Bloccato il processo contro imputati di spionaggio a favore di Israele.

 

di Justin Raimondo, 4 maggio, 2009

Dopo ben  cinque anni di manovre legali e di proteste orchestrate, firmate da quella cassa di risonanza chiamata la Lobby, gli uomini chiave d’Israele a Washington sono infine riusciti a bloccare il processo contro i due imputati di spionaggio a favore d’Israele, Steve Rosen e Keith Weissman. Tale vittoria ci dice che la Lobby continua a regnare a  Washington, nonostante il crescente tasso di fastidio che essa e le altre lobby generano presso l’opinione pubblica; inoltre, passa agli israeliani un assegno in bianco: saranno liberissimi di spiare chiunque vogliano tra i propri mecenati, senza limiti di alcun tipo.

Quella cassa di risonanza mediatica delle istanze della Lobby che comprende il Washington Post, la bogosfera neocon, ed il movimento conservatore ufficiale rappresentato dalla National Review  e dal Weekly Standard – s’intona sulla catilena, «vindication» (l’accusa che viene respinta). Così Jeffrey Goldberg, l’opinionista  isrealocentrico di The Atlantic, che racconta la decisione di far decadere l’indagine. E tuttavia, come c’era d’aspettarsi, la sua interpretazione dei fatti lascia molto a desiderare.

Si comprende, leggendo il documento [.pdf] presentato dalla pubblica accusa, che il  caso non ha potuto procedere a causa della riuscita strategia del ‘graymail’ (il ricatto implicito) adottata dai legali della difesa. Il governo doveva considerare «la probabilità che informazioni classificate sarebbero emerse durante il processo, ai danni della sicurezza nazionale con la probabilità che per il processo il ruolo del governo sarebbe determinante». Inoltre, ci troviamo di fronte ad un «terreno mutato» con le molte decisioni del giudice T.S. Ellis che, per la pubblica accusa, fecero slittare di cinque anni  il momento d’inizio del processo.

Mentre la palla passava da un giocatore ad un altro, e la partita stava diventando decisamente estenuante, il giudice si curò di trasformare il processo in un vero circo Barnum, con il sostegno dato alle intimazioni a presentarsi davanti al giudice indirizzate a certi notables come Condoleezza Rice e Stephen J. Hadley, e ad un esercito di funzionari governativi di oggi e di ieri, che sarebbero stati costretti a presentarsi davanti alla corte e a subire interrogazioni minuziose riguardanti materie di intelligence di primo ordine. Ellis si era anche aperto alle pretese della difesa di sottomettere all’attenzione della corte un grande numero informazioni di tipo riservato, anche in forma documentale. L’idea era, semplicemente, quella di costringere il governo a rendere pubbliche le notizie riservate che Israele aveva rubato (furto di cui si erano resi responsabili Rosen, Weissman ed il cocospiratore, Larry Franklin, ex analista di primo grado al Pentagono, specialista nelle questioni iraniane).

Nel 2005, Franklin si dichiarò colpevole del reato a lui contesto (spionaggio), e gli furono comminati 12 anni di carcere e una grossa multa, ma le due persone per le quali agiva non subirono ripercussioni negative di alcun tipo. Anzi, per la Lobby & Co., i due sono eroi, vittime di persecuzioni. Eppure, la confessione, la conferma giudiziaria e la sentenza del caso Franklin ci dicono in termini inequivocabili che la «vindication», il respingimento dell’accusa, così come  ci viene presentata dall’AIPAC, non trova alcuna giustificazione nei fatti. Se di reato non si può parlare, perché non viene rilasciato Franklin? Così argomentano, appunto, i difensori di Franklin. Ma il motivo c’è. Ed è cogente. L’accusa contro Franklin, la sua confessione e la sentenza ci dicono che il reato fu commesso.

È sufficiente dare un’occhiata all’atto di accusa. Un degli incontri tra le componenti della spy cell Rosen-Weissman-Franklin ebbe luogo in tre diversi ristoranti. Perché? Per il timore, giustificato, che qualcuno li stesse seguendo; dunque erano rei consapevoli.

Tuttavia, per il giudice assegnato al caso, detta consapevolezza non era da considerarsi prova sufficiente di colpevolezza. Per Ellis, la pubblica accusa doveva dimostrare che con le loro azioni gli imputati erano intenzionati a ledere gli interessi degli Stati Uniti, compresi quelli relativi alla sicurezza nazionale. L’intento di dar luogo al processo era sottoposto a condizioni molte ardue, e con ogni probabilità, per la legge statunitense, del tutto inedite. L’ambito che più s’avvicina al problema giuridico qui illustrato è quello degli  ‘hate crimes’ (il reato violento motivato dall’odio). Per reati del genere, si suppone che si possa leggere nel pensiero del reo e così precisare direttamente i moventi del caso. Secondo la ‘dottrina Ellis’, applicata alla sicurezza nazionale, non contano le azioni oggettivamente verificabili per stabilire se il fatto sussiste; contano invece le percezioni soggettive dello stesso imputato.

Rosen e Weissman trasferirono informazioni top secret dei servizi americani agli addetti del governo israeliano? Sì o no? Beh, sì ma….  credevano che così facendo stessero difendendo gli interessi ‘veri’ degli Stati Uniti, giacché, è evidente che in ogni momento i rispettivi interessi statunitensi ed israeliani non possono non convergere al 100%. Da questa angolazione, beh, Rosen e Weissman,  e a maggior ragione, Franklin, erano sì ‘idealisti’, che, forse, avevano sbagliato, diciamo un po’, ma sbagliavano in nome di una causa giusta.

La decisione legalizza le attività di spionaggio, a patto che esse siano effettuate a beneficio d’Israele, e non dell’Iran, della Russia, o della Cina, e a patto che la stessa quinta colonna-lobby israeliana si dia da fare per convincerci che tali attività vengono svolte per il nostro bene.

Così argomentavano, appunto, i legali di Franklin, prima di optare per il patteggiamento: che il loro cliente spinto dal sentimento ‘patriottico’  aveva trasferito informazioni segrete a Rosen, a Weissman e ad almeno due addetto del governo israeliano, perché, per Franklin le politiche statunitensi non erano sufficientemente favorevoli nei confronti d’Israele. Posto di fronte a tale escamotage – dell’idealista che sbaglia – il giudice Ellis si dimostrò compiacente. Infatti, pur comminando la detta sentenza, egli lodò Franklin  per il suo aver agito in base agli ideali più nobili.

Se consideriamo i notevoli sforzi d’Israele e delle organizzazioni israeliane negli USA affinché siano condizionate le politiche statunitense soprattutto in Medio Oriente, nei termini di un’attività sotto copertura – una campagna che coinvolge elementi israeliani e statunitensi –, allora questa operazione passerà nella storia dello spionaggio indubbiamente come una delle più riuscite che si sia mai verificata: ora gli agenti israeliani, quale che ne sia la cittadinanza, possono impunemente oltrepassare quella linea ideale che separa le attività delle lobby da quelle dei servizi segreti.

La questione dello spionaggio israeliano in USA è troppo scottante per i media statunitensi. Ad occuparsi del caso Rosen-Weissman si sono trovati soltanto  Antiwar.com e poche altre fonti. Altrove, le informazioni oscillano tra l’impreciso e l’inesistente. Bisognava attendere l'affare Harman, decisamente imbarazzante per la Lobby, per ripescare il caso fuori dal dimenticatoio ed assegnarlo qualche titolo di giornale. Nel mondo della stampa, cinque anni sono un’eternità

Ma le implicazioni del caso, del tutto rilevanti nell’ambito delle relazioni tra gli USA ed Israele, avrebbero giustificato un interesse mediatico maggiore. Ci fu quel noto servizio della  Fox News che illustrò quanto siano estese  le attività clandestine israeliane negli USA e quanto sia pericolosa ogni concessione in termini degli accessi del tipo che abbiamo descritto qui, soprattutto perché tali accessi sembrano essere praticamente unilaterali.

Con l’archiviazione di tutte le accuse contro Rosen e Weissman, le altre losche figure che popolano la città di Washington si sentiranno incoraggiate. Dopotutto, se gli israeliani possono trivellare i corridoi del palazzo per segreti di primaria importanza, allora perché non lo possiamo fare anche noi? Ma il Justice Department sarà così compiacente nei confronti, ad esempio, dei cinesi? Si stenderà il tappeto rosso ai piedi dei cinesi così come si fa oggi per gli agenti israeliani in USA?  C’è qualcosa  che mi dice no, ma sarebbe interessante comprendere come potrebbero trasformare in legge questa palese istanza di doppiopesismo.

In uno Stato normale, non è difficile identificare l’atto di spionaggio: consiste nella sottrazione di informazioni riservatissime, che il governo classifica come top secret, per il loro trasferimento ad un governo straniero, in maniera deliberata e premeditata. Ma gli Stati Uniti non costituiscono uno Stato normale. Washington, D.C., è la città imperiale, la capitale del world empire, in cui il traffico di informazioni figura come principale industria. I lobbisti stranieri si prostrano ai piedi del trono. Ciascuno perora la propria causa, tutti i mezzi sono legittimi, e poi  gli americani decidono quale fine farà questa o quell’altra nazione, e si trovano al centro dell’attenzione dei rappresentanti di gruppi di interesse, sempre più invadenti, ed efficaci. Subire i loro assalti fa parte del prezzo dell’essere impero.

All’incirca 50 anni fa, Garet Garrett ammoniva: «In alto, in cima al mondo, non c’è security»  – no, nemmeno quando si tratta di custodire i segreti più importanti. Come ci predisse Garrett, siamo prigionieri dei nostri satelliti: «Nessun Impero è sicuro in sé», scrisse nel  1952, «la sua security è nelle mani degli alleati». Nelle mani, letteralmente, almeno nel caso di quell’alleato sempre più scomodo ed esigente che è l’Israele. Con l’archiviazione delle accuse nei confronti di  Rosen e di Weissman – ed il permettere che l’organismo  AIPAC, per il quale lavoravano e che diede loro la copertura necessaria per le loro attività segrete, possa agire senza la registrazione come agente straniero – abbiamo ceduto loro le chiavi della cassa in cui teniamo i nostri segreti più cruciali.

La decisione di archiviare la pratica è stata presa indubbiamente al vertice, non dai procuratori locali. Ci giunge voce, anzi, che il dibattito interno fosse incandescente. I legali di Rosen e di Weissman, da parte loro, hanno attribuito all’amministrazione Obama le responsabilità di voler annullare il caso, come scrive il Washington Post:

«I legali di Rosen e Weissman attribuiscono l’archiviazione all’azione dell’amministrazione di Obama. ‘Siamo gratisimi a questa nuova amministrazione perché … hao assunto con la necessaria serietà l’obbligo di valutare i casi in base ai meriti di ciascuno,’ affermano per iscritto i legali, Abbe D. Lowell, John Nassikas e Baruch Weiss».

Mentre non esistono prove dirette che indicherebbero il coinvolgimento della Casa Bianca, abbiamo ogni motivo di prendere per buona questa affermazione. L’idea che tale decisione fosse lasciata esclusivamente nelle mani degli inquirenti, che avrebbero agito in tale maniera nonostante le forti perplessità espresse dagli agenti dell’FBI, viene privata di credibilità dal resoconto pubblicato dal New York Times, che, nel riportare le usuali dichiarazioni tendenti a minimizzare ogni possibile movente politico dietro la decisione, puntualizza quanto segue:

«Molti altri funzionari hanno tuttavia asserito che se i responsabili politici di rango del Justice Department non avevano ordinato ai loro subordinati di archiviare il caso, seguivano comunque  con la massima attenzione (were heavily involved in) le relative deliberazioni. Questi funzionari hanno affermato che  David S. Kris, il neodirettore della divisione sicurezza del dipartimento, e Dana J. Boente, Procuratrice di Stato ad interim in Alexandria, si erano incontrati in più occasioni con gli inquirenti, e che avevano in ultima istanza deciso di adeguarsi alle raccomandazioni ricevute affinché il caso venisse archiviato. Il Procuratore di Stato, Eric H. Holder fu informato e non sollevò obiezioni».

Lasceremo alle future generazioni di storici il compito di decidere se il caso fosse stato archiviato perché rappresentava una posta sul tavolo da cui Obama avrebbe potuto trarre vantaggio, dati i  rapporti sempre più tesi tra lui e gli israeliani, o se invece il caso sia rientrato a causa  dell’intervento sempre più aggressivo da parte di Israele nelle vicende della politica americana. Ci limitiamo all’osservazione che da ora in poi l’AIPAC potrà liberamente e legalmente assumere il ruolo di agenzia dedita alla raccolta di informazioni sensibili per conto dello Stato israeliano. La linea di demarcazione che separa le attività lobbistiche da quelle legate allo spionaggio è stata cancellata, almeno per Israele negli Stati Uniti.

http://original.antiwar.com/justin/2009/05/03/the-spies-who-got-away/

Traduzione per Infopal di Alexander Synge

 

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