Charlie Hebdo, libertà di espressione, terrorismo, e valore della vita umana

Charlie Hebdo (1)Al-Akhbar. Di Yazan al-Saadi. Subito dopo l’attacco nella sede di Charlie Hebdo, controverso giornale satirico francese, l’attenzione dei media si è immediatamente focalizzata intorno ai soliti discorsi sulla difesa della libertà di stampa, la lotta al terrorismo (con tutte le contraddizioni insite nel termine) e la salvaguardia dei valori occidentali. Si continua invece a sottovalutare la questione centrale: alcune vite umane hanno più valore di altre?

Ci sono alcuni punti chiavi da tenere presenti nella discussione che segue la morte di 12 persone a Parigi.

Il primo, a mio avviso il più importante, è questo: contesto la definizione di “eroi” attribuita ai vignettisti di Charlie Hebdo, in virtù del fatto che avevano pubblicato vignette e articoli in cui attaccavano l’Islam e lo deridevano. È senz’altro corretto riconoscere che hanno irriso anche altre religioni e ideologie, ma dubito fortemente che siano stati tanto “coraggiosi” da prendersi gioco dell’Ebraismo con la stessa forza con cui si sono scagliati, ad esempio, contro l’Islam. Infatti, nel 2008, il settimanale licenziò un vignettista per una battuta che fu giudicata di matrice “antisemita”.

Charlie Hebdo, volontariamente, giocava sempre sulla sottile linea di confine che divide la satira dal materiale offensivo. Reputo gran parte delle vignette oltraggiose, islamofobe (e antisemite, oltre che razziste, sessiste e omofobe) e credo che in questo caso la “libertà di espressione” non sia altro che una scusa per pubblicare materiale offensivo. La “libertà di espressione” viene tirata in ballo con leggerezza dopo eventi come quello di ieri (mercoledì 8 gennaio, ndr), ma raramente il dibattito pubblico si concentra sui parametri che devono stabilirne la natura e i confini.

Non vedo nulla di eroico in un gruppo di privilegiati artisti e autori bianchi che se la prendono con la cultura e la religione delle minoranze. La satira dovrebbe scagliarsi contro il potere e non contro i deboli. Le tesi a sostegno della libertà di espressione e di stampa non dovrebbero far passare in secondo piano la comprensione dei privilegi e delle diverse dinamiche di potere che sono in campo. Solo riconoscendo e ammettendo questo, possiamo insieme sviluppare una nozione di libertà che sia davvero universale e conscia del suo ruolo e dei suoi limiti. Spesso accade che la libertà di stampa e di espressione vengano tirata in ballo quando si tratta di fomentare sentimenti islamofobi e mantenere il potere; al contrario, sono completamente ignorate quando si affronta la questione dei diritti dei migranti o delle guerre combattute al di fuori dei confini nazionali.

Le comunità di musulmani e di immigrati, gli “altri”, pagheranno a caro prezzo questa situazione; anzi, lo stanno già facendo, in Francia come altrove. Ci sarà uno spostamento a destra nell’asse politico francese ed europeo. La Francia continuerà a offrire il suo supporto a stati repressivi e a condurre le sue “avventure” militari in Africa e in Asia Occidentale.

L’impulso a trasfigurare letterariamente e a mitizzare le vittime, che scatta subito dopo fatti del genere, soprattutto se i carnefici sono neri o musulmani, non fa che perpetuare questo ciclo di violenze. Chiunque si azzardi a esporre fatti o a formulare giudizi critici viene prontamente zittito e accusato di essere dalla parte dei “terroristi”. È raro che i paladini della libertà di espressione vengano in aiuto di chi pone simili questioni; al contrario, in questo caso, quella categoria viene utilizzata per mortificarli.

Dopo l’avvio della “Guerra globale al terrore” da parte dell’America, 14 anni fa, il livello del dibattito si è fossilizzato su concezioni quanto mai ipocrite, ed è dominato da postulati apodittici. Puntualmente, si nega ogni necessaria sfumatura e le questioni vengono decontestualizzate.

Questo ci porta al secondo punto chiave.

È interessante notare come, immediatamente dopo l’attacco a Charlie Hebdo, tutti si aspettassero le scuse e l’assunzione di responsabilità da parte del mondo musulmano. Al contrario, non si chiede al mondo occidentale (dovremmo forse dire ai Cristiani o agli Ebrei?) di rivendicare o di scusarsi per la morte del giornalista di Al-Jazeera ucciso dall’esercito statunitense in Iraq, o per tanti altri giornalisti arabi trucidati nel corso di quella orrenda guerra, o per i giornalisti palestinesi uccisi dalle forze sioniste nell’ultimo decennio. Nulla di tutto questo viene discusso, argomentato o tantomeno preso in considerazione dalla stampa mainstream.

Ma i musulmani non hanno nulla da farsi perdonare, specialmente in Francia. Questo non significa che non devono prendere le distanze da atti del genere o condannarli in quanto individui. Tuttavia, a livello collettivo, scusarsi significherebbe ammettere responsabilità che non sono in capo a loro.

I “Musulmani” (qualunque cosa questo termine stia a significare) hanno la sola responsabilità di contrastare le forze repressive, interne ed esterne; non sono in alcun modo tenuti a giustificarsi solo perché musulmani. Certamente, sono convinto che all’interno delle comunità musulmane, le soggettività possono fare molto per combattere il fondamentalismo e la ristrettezza di vedute; ma questo non significa che l’intera collettività debba essere punita, maltrattata, irrisa o umiliata ogni qualvolta si verificano eventi come quello di ieri.

Applico questo tipo di ragionamento a tutti i gruppi; così come non si deve attaccare o punire tutta la comunità ebraica per i brutali crimini del sionismo, o tutti i cristiani per gli orrori del Colonialismo, lo stesso dovrebbe valere per i musulmani. È un’importante distinzione che i fondamentalisti, di ogni natura e genere, non fanno e che invece “dovremmo” operare.

In effetti, sostengo che allo stato francese andrebbero rimproverate molte cose:

  1. Non è stato in grado di creare un sistema che consenta ad alcune comunità di integrarsi agevolmente nella società. Mi riferisco al livello politico, sociale ed economico;
  2. La sua politica estera si rivela distruttiva per le altre società e incoraggia la repressione;
  3. Non ha mai fatto i conti, riconosciuto o avanzato le sue scuse per l’occupazione e gli interventi militari in Nord Africa e nell’Asia Occidentale (come in altre zone del mondo) La storia della nazione francese continua a plasmare le azioni, le idee e le posizioni odierne, e ancora deve essere affrontata all’interno della sua società;
  4. Ha sostenuto Stati come l’Arabia Saudita (cuore pulsante delle dottrine più estreme nell’ambito del fondamentalismo islamico) e Israele (nazione del Sionismo, un’ideologia violenta e razzista, nata sulle ceneri di una pulizia etnica e cresciuta con continui genocidi).

È essenziale delineare il contesto, dobbiamo comprendere appieno l’evoluzione storica degli eventi, scrutare all’interno delle dinamiche di potere e delle diseguaglianze.

Il terrorismo, o come preferisco definirlo, la violenza politica, e più in generale la violenza nella maggior parte degli ambiti, non nasce dal nulla; e se non ci sforziamo di comprendere appieno le varie dinamiche a livello diacronico e sincronico, saremo trascinati in un vortice senza fine di violenza, ritorsioni e distruzione. Non dobbiamo dimenticare che gli autori della strage non sono “entità esterne”, bensì un prodotto intrinseco della società francese, che non ha fatto nulla per favorire l’integrazione.

Le reazioni di questi giorni erano per lo più orientate a gridare vendetta: una posizione quanto mai reazionaria.

E ad ogni modo, è interessante notare come la sete di sangue e vendetta di una società sia ritenuta accettabile, mentre quella di quella di un’altra non sia legittimata.

E arriviamo quindi all’ultimo punto, che riguarda il valore delle vite umane. I social media e le agenzie di stampa erano letteralmente invasi da articoli, dichiarazioni e manifestazioni di cordoglio per la perdita di vite umane a Parigi. La morte di dodici persone ha suscitato orrore, com’è giusto che sia. Ma nello stesso giorno, un’auto è esplosa a Sanaa, nello Yemen, causando almeno 38 vittime. Nove persone, tra cui due bambini, hanno perso la vita in un attacco in Afghanistan, e le violenze in Siria e in Iraq hanno causato un numero imprecisato di vittime.

Oggi, come ieri, le vite dei “bianchi” valgono di più. Più di una semplice reazione emotiva: la loro morte sconvolge, causa costernazione, shock e lacrime. I loro volti e i loro nomi resteranno impressi nella memoria collettiva. I politici leggeranno accorati elogi funebri.

La miseria e la morte di neri e arabi, invece, sono diventate un fatto scontato, accettato, di routine. Sono solo numeri, note a piè di pagina, statistiche. Non c’è stato nessun videomessaggio da parte del Segretario di Stato statunitense John Kerry, per dichiarare lo sgomento per l’uccisione di sette giornalisti siriani favorevoli al regime, uccisi da uomini armati nella sede del loro giornale nel giugno del 2012. Nessuno ha creato un hashtag di Twitter per i civili morti per colpa dei raid aerei francesi durante gli interventi militari in Mali, nel Nord Africa, o altrove. Nessuno si è interessato all’attentato (forse terroristico) negli uffici della NAACP (un’associazione per i diritti degli afroamericani) a Colorado Springs.

La verità è che le vite umane non sono tutte uguali. Dovremmo chiederci perché? Per citare la filosofa americana Judith Butler, “Chi è degno di essere definito uomo? Quali vite sono degne di essere reputate tali? E infine, quali meritano di essere compiante?”

Trovare risposta a questi interrogativi fondamentali può aiutarci a progredire come collettività e a fornire soluzioni più efficaci della semplice caccia all’uomo con relativa uccisione dei “terroristi”.

Traduzione di Romana Rubeo