Di A.S. Sul conflitto Israelo-Palestinese esistono molte ricostruzioni storiche talune attendibili talaltre faziose che tradiscono un malcelato interesse verso l’una o l’altra fazione. Di tutte le vicende storiche contemporanee questa è di sicuro una delle più controverse per i furenti animi che produce e le conseguenti acredini che suscita.
In rete rete ci si può imbattere nella ricostruzione di un sedicente storico che tenta di screditare un noto giornalista italiano e il suo lavoro storiografico riassunto in 10 tesi, circa i crimini del governo israeliano e le fonti storiografiche a sostegno di tale tesi. Leggendo questo articolo emerge sin da subito la solita tradizione anti-storica di chi legge il conflitto da una sola prospettiva, quella del vincitore, spacciandola come ricostruzione oggettiva sull’argomento. Una siffatta tipologia di articolo “storico” può convincere e informare il “lettore medio” che non ha cognizione alcuna della materia, che ignora il carattere marcatamente ideologico dell’articolo stesso, o più verosimilmente, chi è abituato a leggere questa come altre vicende con approccio “da tifo” più che con sguardo “disinteressato”. Di certo non convince e non informa chi ha una seppur minima cognizione della vicenda o chi ha letto anche un solo libro su di essa.
Sin da subito si chiarirà che il presente articolo non intende fare pubblicità al suddetto autore più di quanta non ne deriverà già dalla sola citazione diretta delle sue tesi – fonti.
Si compie questa operazione per rendere giustizia a una questione che ha visto da circa un secolo, la perdita di un notevole numero di vite la cui giustizia coincide con la riproduzione fedele della vicenda storica.
Cominciamo col prendere in esame il primo dei due articoli per evidenziarne la fallacia sistematica quando non ideologica che muove una tale ricostruzione.
L’articolo si apre mettendo al centro il concetto di genocidio del popolo palestinese, e cita:
“Martellato dalla propaganda pro-Palestina, l’uomo medio è portato a credere che in Palestina sia in atto un massacro indiscriminato di arabi, analogo a quello subito dagli ebrei nella Germania nazista”
e ancora
“è necessario far notare una cosa:
1) nel 1933 in Germania c’erano 500.000 ebrei, nel 1943 circa 20.000 (quasi tutti sposati con cristiani).
2) nei Territori Palestinesi nel 1970 abitava 1 milione di arabi, 3.5 milioni nel 2004 , 4.4 milioni nel 2013”.
Il vizio di fondo alla base di questo schema logico è sovrapporre l’idea del genocidio ebreo a quello palestinese con la evidente disparità di cifre la quale dimostrerebbe l’infondatezza del carattere di genocidio. Questa impostazione risulta scorretta dal punto di vista epistemologico in quanto riduce la categoria di genocidio a quella numerico – demografica, due dimensioni distinte e separate che non procedono di pari passo per la definizione di genocidio. Il fatto che la regione dell’attuale Israele – Palestina abbia avuto un incremento demografico costante, già dal 1850 in poi, in nessun modo annulla la gravità ed il carattere di massacro avvenuto ai danni del popolo palestinese nel ventesimo secolo, in maniera conclamata e incontrovertibile con gli eventi del 1948. A sostegno di ciò la Convenzione dell’ ONU per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio afferma:
“A caratterizzare la categoria di genocidio non sono l’enormità del crimine o le dimensioni del massacro, bensì il carattere volontario e pianificato dell’uccisione e le modalità con cui viene costruita l’identità delle vittime, intesa quest’ultima come il risultato di un marchio identitario imposto da un potere che, per questo fine, si appoggia alla complessa macchina degli apparati ideologici e repressivi di Stato. Non sono né il grado di barbarie delle pratiche di uccisione, né il numero delle vittime a far rientrare un omicidio collettivo nella categoria di g.; non è indispensabile che le singole vittime abbiano coscienza di appartenere a un gruppo, né che abbiano scelto di appartenervi, ma è il potere decisionale dei carnefici che stabilisce il legame del singolo col suo preteso gruppo di appartenenza, che le definisce in termini di identità incancellabili, fissate una volta per tutte e che le classifica come destinate a una potenziale eliminazione [1]”.
Dunque non si può utilizzare come criterio unico per la definizione di genocidio, la sovrapponibilità o meno ai criteri numerici del genocidio “idealtipico” ebraico. Conseguenza logica vuole che un massacro per essere tale non necessariamente deve aderire ai caratteri di uno ed uno solo avvenuto in altre circostanze (in questo caso l’olocausto). Non si intende qui dibattere nel merito l’aderenza della vicenda palestinese alle maglie giuridico formali della categoria del genocidio, solamente segnalare l’inappropriatezza della operazione metodologica di fondo.
Proseguendo, l’autore dell’articolo in questione pur distinguendo la differenza tra genocidio e pulizia etnica continua affermando di “lasciarle nello stesso calderone per semplicità” risolvendo questo punto bonariamente citando poi gli autori G. Handsohn e D. Pipes, registrando come la vicenda israelo – palestinese ricoprirebbe solo il 49° posto negli indici di letalità dei conflitti
“conflitti con un basso indice di letalità, parità di diritti fra cittadini a dispetto della fede professata”… ”E la reputazione di Israele continuerà a farne le spese”.
A leggere in questi termini la questione ci si sentirebbe surrettiziamente autorizzati al proposito di sminuire una vicenda tanto drammatica quanto complessa perché non rientrerebbe tra le prime posizioni di una fantomatica classifica di gravità dei conflitti, contrapponendosi a una ricostruzione inventata a scapito dell’inclusivo e democratico Israele.
Anzitutto, la vicenda del popolo palestinese seppur non possa essere configurabile a pieno titolo nella categoria del genocidio, pur possedendo taluni caratteri di esso come dimostrano gli eventi del 1948, di sicuro rientra ampiamente nella categoria di pulizia etnica. Genocidio e pulizia etnica sono due figure criminose diverse nel diritto internazionale, così come nella “sostanza”, e non si può pensare che negando l’uno si possa automaticamente negare o provare l’inesistenza dell’altra. Accordandoci alla definizione dell’Enciclopedia Treccani con “pulizia etnica” si intende:
“Programma di eliminazione delle minoranze, realizzato attraverso il loro allontanamento coatto o ricorrendo ad atti di aggressione militare e di violenza, per salvaguardare l’identità e la purezza di un gruppo etnico”. [2]
Già a partire dal 1947 e poi con la guerra del 1948 furono avviate operazioni di sterminio di civili in maniera indiscriminata e sistematica ad opera delle milizie sioniste dell’”Haganah” e “Irgun”, con la distruzione di più di 500 villaggi. Esecuzioni sommarie e atti di gratuita violenza furono perpetrati al fine di cacciare via dai neo-territori israeliani la popolazione palestinese. In una campagna nota come “Operazione Hiram” le forze armate sioniste eseguirono
“un numero insolitamente elevato di esecuzioni di popolazione civile contro muri i nei pressi di un pozzo con notevole metodicità [3]”.
Tra i massacri più brutali si ricordano quelli dei villaggi Deir Yassin, Lidda Ramla. Citando le parole di un ex primo ministro israeliano, Ehud Barak, nella retrospettiva del conflitto del 1947 – 48 che sconfessava la narrativa mitologica sionista del “Davide contro Golia” si può realizzare che si trattò:
“della dispersione e dell’esilio di un’intera società, accompagnati da migliaia di morti e dalla totale distruzione di centinaia di villaggi [4]”.
Riguardo alla “parità di diritti” si ricorda al lettore nonché all’autore dell’articolo che Israele ha infranto più di 75 risoluzioni ONU, è stato accusato di crimini contro l’umanità[5], fa uso sistematico della tortura sui prigionieri palestinesi[6] nelle proprie carceri e sebbene i diritti di partecipazione e rappresentanza politica degli arabi palestinesi siano formalmente riconosciuti, Israele continua a detenere nel proprio ordinamento giuridico a-costituzionale leggi specificamente “anti arabo[7]” come il diniego arbitrario del diritto di cittadinanza e di voto, oltre che la frequente pratica di messa in stato di arresto ed esecuzioni extragiudiziali[8]. La legge di “Israele stato nazione” (conosciuta formalmente come Legge Fondamentale: Israele–Stato Nazione del popolo ebraico), che è entrata in vigore nel 2018, definisce Israele come lo stato nazione del popolo ebraico, consolidando in termini para-costituzionali la disuguaglianza e la discriminazione verso i non-Ebrei. La legge garantisce il diritto all’autodeterminazione solo agli Ebrei, stabilisce che l’immigrazione comporta automaticamente la cittadinanza solo per gli Ebrei e promuove la costruzione di colonie illegali nei territori occupati[9].
Si potrebbe scrivere un libro sulla quantità e tipologia di violazioni dei diritti umani ai danni dei palestinesi ma non è questa la sede più opportuna.
Procedendo nell’articolo si legge poi:
“Chi si proclama orgogliosamente antisionista (specificando, di solito, “ma non antisemita”), non fa altro che dichiararsi contrario allo Stato di Israele. Un antisionista vuole uno stato arabo palestinese e tutti gli ebrei fuori dalla zona. Non ci può essere, di conseguenza, un antisionista che sia a favore della soluzione a due stati o anche solo all’esistenza di Israele”.
Questa è un’operazione risibile sul piano intellettuale e subdola sul piano morale. Sorvolando sul fatto che, essendo quello palestinese un popolo altresì semitico, questo anti-semitismo selettivo non avrebbe ragion d’essere, ma secondo questo ridicolo schema di pensiero criticare la matrice ultranazionalista propria del sionismo farebbe antisemita anche chi, da ebreo, critica le politiche governative di Israele. Ebbene esistono svariate organizzazioni costituite da eminenti ebrei ortodossi antisionisti, intellettuali e religiosi di primo piano che da anni, decenni criticano aspramente la politica israeliana; per citare solo le più note: Bene Yoel, Naturei Karta, Satmar, Breslov, Toldoth Aharon che vantano fra i loro aderenti noti rabbini tra cui Dovid Weiss, Avraham Yoshe Freund di Mansod, Elchonon Wasserman, Ahron Cohen, Baruch Kaplan. Tutti antisemiti?
Nel saggio “L’ideologia Sionista, i non ebrei e lo Stato d’Israele” il linguista ebreo Ur Shlonsky ha scritto:
“L’autoproclamata dirigenza delle comunità ebraiche ha un compito solo: trasmettere e alimentare un’identità ebrea centrata sulla totale identificazione con Israele, e denigrare e marginalizzare ogni altra forma di identità possibile… il rabbino ultraortodosso e antisionista Leibel Weisfisch una volta disse: ‘Il Nazismo ha distrutto il giudaismo fisicamente, il Sionismo l’ha distrutto moralmente’”[10].
L’operazione dell’autore, ripropone quindi una certa tradizione in voga in ambienti pro-Israele, che più o meno esplicitamente sovrappone la critica al sionismo con la critica al “semitismo in sé” dunque l’assioma anti-sionismo = anti-semitismo è presto servito. Non si deve possedere un Quoziente Intellettivo = 200 per comprendere che una cosa è criticare le politiche governative e l’ideologia politico militare di un dato Stato e un’altra cosa è auspicare la distruzione totale di quello stesso Stato e dei suoi abitanti. Molto spesso capita che chi sostiene ciecamente l’ideologia sionista giochi questa carta del senso di colpa, sbandierando forzatamente allo scandalo chiunque metta in discussione la politica israeliana verso il popolo palestinese. Ovviamente è un modo di intimorire e scoraggiare il dibattito sul conflitto che fa presa più sul versante emotivo piuttosto che scendere nel merito degli argomenti.
Qui non c’è spazio per approfondire la questione, solamente va riconosciuto che chi sbandiera l’antisemitismo per zittire le critiche a Israele, o non sa di cosa parla, o non ha argomenti per replicare o non riconosce il fatto che porre la legittimità morale dell’uso della forza a una parte e disconoscere il diritto di autodeterminazione all’altra è una operazione marcatamente razzista.
Nell’articolo si cita rispettivamente la definizione di Sionismo da Wikipedia, Garzanti e Treccani. Ora stando a definizioni formali di un certo movimento politico si potrebbe avere l’idea di una certa neutralità ed equità della dottrina politica da esso propugnato. Tuttavia se andiamo ad esaminare la natura del Sionismo dalla definizione dei suoi padri fondatori e dei suoi protagonisti ne deriva una raffigurazione piuttosto diversa. Per limiti di spazio si riportano solamente due delle citazioni sul sionismo da parte dei rappresentanti più illustri e rappresentativi di tale movimento ideologico.
Ben Gurion affermò nel 1944:
“il Sionismo è il trasferimento degli ebrei. Riguardo al trasferimento degli arabi (palestinesi) questo è molto più semplice di qualsiasi altro trasferimento. Ci sono Stati arabi nelle vicinanze, ed è chiaro che se gli arabi saranno rimossi verso altri paesi, questo migliorerà le loro condizioni e non il contrario [11]”.
Teodor Herzl tra i fondatori del Sionismo scrisse nei suoi diari nel 1895:
“Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto…[12]”.
Continuando nella lettura dell’articolo in questione si fa menzione degli scontri del 1929:
“A metà agosto del 1929, prendendo a pretesto le mire ebraiche sul Muro Occidentale (Muro del Pianto), Haj Amin El Husseini e Aref el Aref istigarono una folla inferocita a massacrare gli Ebrei. Il 24 agosto ne furono uccisi 67. I rapporti parlano di rabbini castrati, bambini decapitati e giovani cui erano state amputate le dita o le mani. Molti Ebrei riuscirono a rifugiarsi presso la stazione di polizia o alcune famiglie arabe, ma quella fu la fine della convivenza pacifica ad Hebron. Un concetto di pacifica convivenza tipicamente islamico, in cui finché sei capace di fornirmi denaro o vantaggi sei il benvenuto, ma se alzi la testa meriti di essere massacrato”.
Ora, è buona prassi per chi fa il mestiere di storico, contestualizzare fatti ed eventi chiamati in causa e soprattutto fornire un quadro complessivo degli scontri e delle perdite di vite umane di tutte le fazioni coinvolte in un dato conflitto. Fare il contrario significa consegnare al lettore una ricostruzione parziale e faziosa. Per quanto riguarda la contestualizzazione dell’evento, questo fa parte di uno dei tre scontri pre-1948 (ovvero moti di Jaffa del 1921, Rivolta del 1929 e Grande Rivolta Araba del 1936) in cui da entrambe le parti ci fu il timore che l’altra comunità si apprestasse a tentare di limitare l’accesso ai propri luoghi santi. Prima degli scontri cui si fa riferimento vi furono manifestazioni dai toni molto accesi da parte del movimentosionista giovanile “Betar”, a rivendicazione dell’accesso al muro del Pianto vicinissimo però a due luoghi sacri della tradizione musulmana, il Haram al Sharif e la moschea di Al Aqsa in un clima di crescenti tensioni e scontri. Dopo gli anni delle delusioni seguenti la dichiarazione Balfur (gli inglesi fecero bello e cattivo tempo con entrambe le fazioni), dopo l’incontrollata ascesa politico-economica lasciata a briglia sciolta dall’amministrazione coloniale inglese, e dopo l’odiosa pratica di essere cacciati fuori dalle loro terre dichiarate per sempre suolo ebraico e solo per gli ebrei come testimoniato dal regolamento del Jewish National Found, si ebbe il risultato finale degli scontri armati. Per quanto riguarda il numero di morti questi ci furono non solo da parte ebrea, ma anche nel versante arabo palestinese per essere più precisi 133 ebrei e 116 arabi. Buona parte di responsabilità di questo accadimento è sicuramente imputabile alla pessima gestione mandataria inglese.
Tutto questo giustifica forse le morti e le violenze perpetrate da una parte e dall’altra in quegli scontri? Ovviamente no! Ma aiuta a mettere in chiaro che, a differenza della visione dell’autore dello scritto cui qui si replica, secondo cui è ontologicamente iscritto nella natura del musulmano arrecare danno laddove si esprime “un concetto di pacifica convivenza tipicamente islamico” , fu il contesto di crescente tensione a generare e favorire gli scontri e le perdite di vite, non l’intrinseca malvagità della religione islamica.
Rispetto alla citazione di Mousa J. Caleel circa la necessità da parte degli ebrei di essere umili per sopravvivere in Palestina, si contrappone qui un’altra citazione di uno dei personaggi di spicco del Sionismo , Menachem Ussinsky , presidente del Jewish National Found dal 1923 al 1941 che lascia bene intendere con che tipo di umiltà e spirito di fratellanza si intendevano muovere i colonizzatori sionisti del tempo:
“La terra è da acquisire con la forza, con la conquista in guerra, o in altre parole rubando terra dal proprietario, con l’espropriazione tramite l’autorità governativa , o tramite l’acquisto finché non diverremo i governanti” …” dobbiamo continuamente avanzare la richiesta che la nostra terra torni in nostro possesso, se ci sono altri abitanti lì, devono essere trasferiti altrove. Dobbiamo conquistare la terra. Abbiamo un grande e più nobile ideale che non preservare diverse centinaia di migliaia di arabi fellahin[13]”.
[1] M. Raspanti, Enciclopedia Italiana VI Appendice, Genocidio, 2000
[2] http://www.treccani.it/enciclopedia/pulizia-etnica/
[3] J. Gelvin,” Il conflitto Israelo Palestinese”, Piccola Biblioteca Einaudi 2007
[4] B. Morris ed E. Barak, “Camp David And After- Continued” in The New York Review of Books, 27 giugno 2002
[5] Report of the Independent International Commission of inquiry on the protests in the Occupied Palestinian Territory – A/HRC/40/74, 28 /02/ 2019
[6] https://www.amnesty.it/israele-la-tortura-legale-detenuto-palestinese/
[7] https://www.adalah.org/en/content/view/7771
[8] Amnesty International, Rapporto Annuale 2017 -2018 Infinito edizioni
[9] https://www.articolo21.org/2019/09/amnesty-israele-ostacola-con-manovre-discriminatorie-la-rappresentanza-palestinese-alla-knesset/
[10] U. Shlonsky, “L’ideologia Sionista, i non ebrei e lo Stato d’Israele” Geneva University 2002
[11] N. Masalha, “Expulsion of the Palestinians. The Concept of Transfer in Zionist Political Thought, 1882-1948” , Institute for Palestine Studies; January 1, 1992
[12] T. Herzl, «The complete diaries» (N.Y. Herzl Press,1969) vol. I, p. 88. Ripreso in vari altri testi tra cui J.W. Mulhall, “America and the founding of Israel : an investigation of the morality of America’s role”, Deshon Press 1995
[13] B. Morris,”Righteous victims. A History of the Zionist Arab Conflict 1881-2001”, pag. 141 , Vintage Ed.