Come ho smesso di essere ebreo: Shlomo Sand e il suo nuovo libro

Shlomo-SandMemoIntervista esclusiva. «L’inverno qui a Tel Aviv è meraviglioso», mi dice Shlomo Sand, prima di aggiungere: «Penso che sia l’unica cosa bella, qui».

Docente di Storia contemporanea all’Università di Tel Aviv, le pubblicazioni di Sand hanno causato molte discussioni. Nel suo nuovo libro, How I stopped being a Jew, l’autore spiega la rottura personale con l’ebraismo secolare. Tale identità significa appartenere a un gruppo selezionato – egli spiega – e accedere a privilegi ai quali voglio rinunciare.

«In Israele non c’è dubbio che essere ebreo significa potere e privilegi», egli dice. Ma ciò avviene a spese degli arabi-israeliani, che non sono ebrei, e che sono pertanto cittadini di seconda classe. Peggio ancora, i privilegi sono irraggiungibili a causa della natura stessa dell’ebraismo secolare. Ad esempio, se credi in Dio puoi diventare un ebreo religioso, o, con molti sforzi, puoi diventare inglese, o francese, o un membro del partito laburista. Ma gli studenti palestinesi di Sand, se vogliono diventare ebrei secolari, devono prima diventare ebrei religiosi.

«Per la prima volta in vita mia io ritengo che essere un ebreo secolare significa appartenere a un club esclusivo, al quale non si è liberi di unirsi. Nessuno può diventare un ebreo secolare se non si è nati da madre ebrea. Ho deciso di non voler far parte, per il resto della mia vita, di un club cui non si ha libero accesso».

«Lo Stato di Israele, definendo se stesso Stato ebraico, designa gli ebrei in Israele come persone privilegiate. Per fare un esempio, se la Gran Bretagna dichiarasse di non essere lo Stato di tutti i britannici, ma solo di quelli cristiani, essere un inglese cristiano, in uno Stato simile, sarebbe da privilegiati. C’è una gran parte della popolazione che non è ebrea, e che non può diventare ebrea. Questo è un buon motivo per non considerare me stesso, in Israele, ebreo».

Nonostante la sua natura selettiva, Israele viene sempre considerata l’unica democrazia del Medio Oriente. Sand ritiene che una cultura politica liberale, in Israele, esista – il fatto che il suo libro sia stato pubblicato lì, e che esso sia diventato un best seller, lo prova -. Ma non è una reale democrazia. Israele non cerca di tornare utile ai suoi cittadini, ritiene Sand, ma cerca i vantaggi per gli ebrei in tutto il mondo.

Gli allievi arabo-israeliani di Sand non sono solo cittadini di uno Stato che non appartiene loro: i palestinesi dei Territori palestinesi occupati vivono privi di qualsiasi diritto civile o politico, dice Sand. «Non si tratta di 47 giorni, settimane o mesi. Sono 47 anni. E’ un periodo storico – Israele non può essere definita democratica se una parte della sua popolazione vive privata di ogni diritto fondamentale… La prima democrazia solida del Medio Oriente può diventarlo, forse, la Tunisia. Forse».

Israele dovrebbe iniziare a definire se stessa Stato israeliano, piuttosto che Stato ebraico, dice Sand, o anche repubblica, o monarchia.

Riguardo i piani a più lungo termine per il Paese, spiega Sand che «moralmente» egli preferirebbe uno Stato. «Viviamo troppo a contatto con i palestinesi per stare completamente separati, non è possibile. Ma dal punto di vista politico, quando penso a un progetto politico che possa progredire in Medio Oriente, non penso alla soluzione a Stato singolo. La società ebraica israeliana è una società fortemente razzista. Diventare una minoranza nel proprio Stato, da un giorno all’altro, non credo sarebbe possibile».

Sand ci tiene a distinguere se stesso dagli «scrittori della sinistra sionista», come Amos Oz, puntualizzando che non è una questione di divorzio. «Non sono per niente per uno Stato ebreo israeliano. Ritengo che in uno stato di separazione continuerebbero a esserci arabi in Israele e forse ebrei in Palestina. Ma credo che per il momento l’unica soluzione politica possibile, anche se ci sono così tanti coloni e colonizzatori nei Territori occupati, sia la separazione sui confini del 1967. Ciò non significa che io ritenga che un tale progetto sia realizzabile, ma è più realistico di uno stesso Stato per arabi ed ebrei».

In quanto ai coloni, Sand mi dice che se egli fosse Netanyahu chiederebbe all’Autorità palestinese di proporre loro la scelta di continuare a vivere nelle loro case, alle stesse condizioni, come cittadini arabi in uno Stato arabo. Oppure, di ritornare vicino a Tel Aviv o vicino a Haifa. «Dipende dalla volontà dell’Autorità palestinese, perché bisogna capire che il fatto che ci siano dei coloni non è colpa dei palestinesi, è colpa del governo israeliano. A trovare una soluzione dev’essere Israele».

Poi, ci sono i 5 milioni di profughi palestinesi che vivono nei campi nei Paesi vicini. Secondo Sand Israele dovrebbe riconoscere la responsabilità di quanto accaduto nel 1948 e del problema dei rifugiati palestinesi. Ma ritiene che il diritto al ritorno non si possa realizzare se non con la distruzione dello Stato di Israele.

Ritiene inoltre che continuare a istruire i bambini nei campi profughi palestinesi su un loro ritorno, in futuro, a Haifa e a Jaffa, è criminale. «Tenerli da 67 anni nei campi è un crimine di per sé. Israele ha commesso il primo crimine cacciandoli quando fondarono il loro Stato. Ma i secondi criminali sono gli Stati arabi che li hanno tenuti nei campi».

Israele deve invece accettare una parte dei profughi, e condividere la responsabilità con i Paesi arabi vicini. «Non si può restituire loro la casa che è stata distrutta, ma si può prima di tutto riconoscere ciò che si è fatto, e in secondo luogo pagare un alto prezzo».

«Questa è una delle condizioni alle quali accetterei di portare avanti un qualsiasi piano di pace in Medio Oriente», egli continua. I palestinesi riceverebbero la nazionalità siriana, libanese o giordana come una delle condizioni del processo. Se sono contrario al diritto al ritorno ciò non vuol dire che sia contro il ritorno di una parte dei palestinesi nello Stato palestinese».

Così com’è ora, lo Stato israeliano non può continuare a esistere, dice Sand. Ci sono molti riferimenti all’apartheid, nel libro di Sand, un termine controverso quando usato in riferimento a Israele.

«Nei Territori occupati è apartheid puro, anche se diverso da quello del Sudafrica. I coloni ebrei non vivono con gli arabi, e gli arabi non hanno il diritto di vivere nelle colonie ebraiche, sono completamente separati. L’unico contatto tra israeliani e palestinesi nei Territori occupati lo si ha quando i palestinesi vengono a costruire le case per i coloni. Non vivono insieme, non vanno a scuola insieme. Quindi ditemi, perché non dovrei utilizzare la parola apartheid?»

Solo pochi giorni fa il ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon ha dichiarato illegale, per i lavoratori palestinesi impiegati a Tel Aviv, prendere gli autobus israeliani per tornare a casa attraversando la Cisgiordania e gli insediamenti.

«Dicono che è una misura di sicurezza. Sta diventando una parodia in quanto i lavoratori vengono controllati al mattino. Se hanno delle bombe le possono far esplodere a Tel Aviv, o a Haifa. Perché riportarsi le bombe a casa, al ritorno?» Secondo Sand non si tratta in realtà di una «misura di sicurezza», ma è il risultato del desiderio dei coloni di non viaggiare sugli stessi autobus con gli arabi. «Sì, è un apartheid ebraico. La storia mette in scena vittime e carnefici, che cambiano ruolo in continuazione. Le vittime di ieri possono diventare i carnefici di oggi. E viceversa.

Nel capitolo iniziale di How I stopped being a Jew, Sand scrive che una delle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere questo saggio è stata «porre un grande punto interrogativo contro idee comunemente accettate e presupposti profondamente radicati, non solo tra il pubblico israeliano ma anche nei network della comunicazione globale». Lei pensa che il suo libro abbia ottenuto l’effetto voluto?

«Per niente. Un libro non potrà mai cambiare il mondo. Scrivo proprio sapendo che i libri non possono cambiare il mondo, ma quando succede che il mondo cambia, le persone cercano altri libri. E’ per questo che continuo a scrivere… Penso che possa rendere le persone meno razziste», egli aggiunge, ammettendo di aver ricevuto centinaia di lettere per il suo lavoro. «Se il mio libro ha aiutato la gente a non essere razzista, ho raggiunto il mio obiettivo».

«Oggi sono così disperato e pessimista da pensare che tutto ciò che possa costringere Israele a lasciare i Territori occupati, e a porre fine a questa situazione, sia accettabile. Tutto tranne una cosa – il terrore».

Traduzione di Stefano Di Felice