Contro la permanenza israeliana

MEMO. Stravolti fino all’irriconoscibilità, il concetto e la realizzazione della riconciliazione sono stati usurpati dalla diplomazia fino a includere uno spettro più ampio di quello inizialmente inteso. Salutata come lo strumento attraverso il quale risolvere le differenze di parte nella leadership palestinese, la riconciliazione è invece diventata un processo sfaccettato che si presta – con il consenso volontario dei leader palestinesi, dei diplomatici e di molti altri che chiedono a gran voce una pace illusoria – agli auspici dello Stato coloniale dei coloni, e ai loro complici internazionali.
Ritenuta l’ultima possibilità, l’accostamento della riconciliazione esclusivamente con la creazione del governo unitario ha consentito a ramificazioni più profonde di restare incontrastate, in particolar  modo al consolidamento della presenza sionista coloniale e dei coloni in Palestina. Le dichiarazioni sul governo unitario e la percezione di riconciliazione virano verso l’utopia, in un processo che comprende aspettative imperialiste di governo, controllo e sottomissione del popolo come strumento per sventare la resistenza palestinese. Perciò, il risultato prevalente rimane la complicità internazionale nella continua usurpazione della terra e della memoria palestinesi.
Dato il quadro politico attuale, derivante da decenni di concessioni accordate dai leader palestinesi, il concetto di riconciliazione ha rivelato un’accresciuta sottomissione, che può esser vista come parte di una strategia più ampia. Ciò permette a Israele di dettare il proprio dominio e di giustificare la conseguente oppressione inflitta ai palestinesi come una cosiddetta reazione al presunto aiuto internazionale.
Mentre il dibattito ruota attorno a termini quali mutuo riconoscimento, soluzione dei due Stati e approvazione internazionale del governo unitario palestinese (cui Netanyahu costantemente si oppone, al fine di distogliere l’attenzione dai negoziati), il significato di riconciliazione si spinge oltre quanto i palestinesi presumibilmente intendono. Senza uno sforzo unitario, la riconciliazione spinge la leadership palestinese a sottomettersi alle concessioni: di qui l’approvazione e la condanna che simultaneamente la comunità internazionale rivolge all’incoerenza dell’ente statale palestinese, e l’insistenza con la quale viene richiesto il riconoscimento dell’esistenza di Israele.
L’appoggio della riconciliazione come parte degli sforzi politici per i quali la sicurezza e il diritto ad esistere israeliani sono prioritari, ha ampliato l’interpretazione della riconciliazione fino a considerare alla pari lo Stato coloniale dei coloni, la terra colonizzata e gli abitanti indigeni. Ciò è pericoloso in quanto rovescia le strutture di contiguità e permanenza a vantaggio di Israele, garantendo di fatto il riconoscimento di uno Stato fabbricato, e annientando, nel processo, la storia indigena e la memoria, nonostante il fatto che la permanenza andrebbe considerata sull’intera Palestina.
Uno sguardo veloce agli attuali sforzi di riconciliazione rappresenta l’accettazione, da parte della leadership palestinese, dei confini del 1967, sminuendo il significato della Nakba del 1948, escludendo il diritto palestinese al ritorno per tutti i profughi e causando l’abbandono della resistenza. Perciò, la riconciliazione è fondata sul riconoscimento dell’esistenza di Israele e sulla sua permanenza, che distrugge completamente le possibilità di riconciliazione interna palestinese, tra leadership e popolazione. L’accettazione intrinseca del progetto coloniale israeliano distrugge ogni integrità residua, mentre i leader palestinesi non si oppongono seriamente alla nozione di «Grande Israele», descritta dall’accademico palestinese Nur Masalha, nel 2010, come «concetto territoriale e ideologia tesi all’ottenimento di una massima espansione territoriale e dominio imperialistico nella regione».
In un articolo recente pubblicato dal Fathom Journal, l’ambasciatore palestinese del Regno Unito, Manuel Hassassian, ha sottolineato la necessità di riconoscere Israele invece di richiedere esplicitamente la fine e lo smantellamento dello Stato coloniale. Disseminato di riferimenti a «concessioni dolorose», «riconoscimento reciproco» e «compromesso», l’articolo di Hassassian e del co-autore Raphael Cohen-Almagor recita: «La pace è un prodotto prezioso, pertanto, raggiungere una soluzione che metta d’accordo entrambe le parti richiede un alto prezzo». Il dibattito fallace è un riflesso della più ampia interpretazione della riconciliazione a tutela dell’agenda espansionista di Israele. Più che un prodotto prezioso, la pace è diventata l’eufemismo per l’appropriazione territoriale, che si nasconde entro la trattazione sui confini del 1967. In questo caso, la riconciliazione punta in maniera specifica all’accettazione, da parte dei palestinesi, dell’occupazione continua da parte dei coloni come condizione per la pace, che, secondo gli autori, si tradurrebbe nel riconoscimento reciproco.
In tale contesto non può esserci coerenza tra le attuali manifestazioni di riconciliazione e il significato della pace inquadrato in un’ottica di autentica liberazione palestinese. I diversi livelli di colonialismo israeliano andrebbero dissezionati e affrontati in modo da eliminare il predominante carattere di permanenza. La precedenza di Israele sulla Palestina rispecchia la disumana complicità di garantirsi la legittimità dei coloni al prezzo del rifiuto del diritto al ritorno palestinese.
Dal momento che la riconciliazione non si oppone alla politica dei coloni, la popolazione coloniale di Israele è assolta dalla complicità in violenza coloniale. Normalizzare la popolazione di Israele nel ruolo di passivi o innocenti astanti ha permesso alla violenza evidente dei coloni di emergere come minaccia unica, anziché come una variante di violenza comune. Mentre gli assassinii, i vandalismi e i prezzi infiammano le proteste contro l’aggressione, è ampiamente sottovalutato il concorso della cosiddetta popolazione «pacifica», insediatasi in Palestina con la piena consapevolezza e con la complicità della brutale espulsione, da parte del governo, dei palestinesi.
Se la permanenza di Israele va fermata, la sua popolazione di coloni dev’essere inclusa nell’equazione. Una riconciliazione fondata sui presupposti dei confini del 1967 comprende la legittimazione dei coloni e il ripudio del diritto al ritorno per tutti i palestinesi. Ciò che gli alleati di Israele descrivono come «mutuo riconoscimento» si traduce con un decisivo gesto di sottomissione richiesto ai palestinesi: la rinuncia alla propria esistenza a favore di uno Stato coloniale in espansione e della sua popolazione di coloni. A sua volta, Israele e la comunità internazionale alleata continueranno a forgiare «dispute» in modo da escludere ogni forma di violenza coloniale, e in modo da descrivere, erroneamente, il diritto al ritorno come un problema irrisolvibile.
In questo contesto la riconciliazione diventa uno sforzo distorto che che dev’essere eliminato, date le sue premesse basate sul perfezionamento del compromesso con Israele. L’errore di considerare coloni e palestinesi alla stessa stregua si riflette in un’altro presupposto ipocrita; l’attuazione della pace come obiettivo comune dello Stato coloniale e della Palestina. Per i colonizzatori che hanno già giurato fedeltà alla violenza, la pace non è contemplata. Né può essere considerata un’entità astratta da dividere equamente. Se i coloni sono la base su cui lo Stato coloniale continua a crescere, la riconciliazione dovrebbe permettere una sfida unitaria contro l’apparente passiva, permanente presenza che rappresenta un grande impedimento al diritto al ritorno palestinese.

Traduzione di Stefano Di Felice