San Paolo (Brasile). Di Anjuman Rahman. La Biennale di San Paolo ha fissato ambizioni audaci per “Coreografie dell’impossibile”, il tema della mostra di quest’anno che esplora il modo in cui gli artisti visuali impiegano diverse pratiche creative per esaminare le questioni contemporanee dominanti, tra cui l’eliminazione della violenza, le disuguaglianze e la ricerca della completa libertà.
Il più grande evento artistico dell’emisfero meridionale, giunto alla sua 35ª edizione, è sempre stato una piattaforma per spingere i confini dell’espressione artistica e sfidare le norme stabilite.
Tuttavia, ciò che distingue questa Biennale è l’attenzione concentrata su artisti provenienti da regioni spesso sottorappresentate nella scena artistica globale, come il Brasile, l’America Latina, le Filippine e le comunità indigene.
“È una mostra internazionale e molto rispettata nel mondo dell’arte”, ha sottolineato l’artista palestinese Ahlam Shibli.
“L’edizione di quest’anno è molto interessante ed emozionante, poiché la maggior parte degli artisti scelti dai curatori proviene da aree tradizionalmente emarginate. Si tratta di artisti indigeni che di solito non si vedono nei musei europei e nordamericani”, ha detto.
L’ultima edizione della biennale, in programma fino al 10 dicembre al Parco Ibirapuera, un’opera iconica dell’architetto Oscar Niemeyer, nota per il suo purismo razionalista, è guidata da una squadra eterogenea che comprende la curatrice Diane Lima, l’antropologo e ricercatore d’arte Hélio Menezes, entrambi brasiliani e di origine africana, e l’artista e teorica portoghese Grada Kilomba, anch’essa di origine africana. A loro si aggiunge il collaboratore spagnolo Manuel Borja-Villel.
È un bel modo per sfidare le narrazioni convenzionali e promuovere una prospettiva più globale, ha spiegato Ahlam.
Nata in Palestina nel 1970, Ahlam è una dei 120 artisti che partecipano all’evento, e mette in dialogo il concetto di casa, profondamente intrecciato alla sua identità palestinese.
L’artista ha una prospettiva sfaccettata sull’idea di “casa”, che si estende oltre i confini della residenza familiare per includere la propria patria e persino il proprio essere fisico.
“Sono stati i curatori a scegliere quali delle mie opere saranno esposte alla mostra. Hanno chiesto questa mia opera specifica perché per loro era significativa in relazione al tema e a ciò che stanno esponendo”, ha spiegato Ahlam.
Intitolata “Morte”, la serie di fotografie in mostra è una potente esplorazione dei martiri palestinesi e dei prigionieri catturati da Israele, il cui destino li ha portati al martirio.
“Sono morti perché erano palestinesi”, ha detto Ahlam. “Un momento prima stavano combattendo per la loro libertà e un momento dopo sono stati uccisi. Questi omicidi continuano ogni giorno e le loro famiglie devono soffrire questa tristezza e questo vuoto per il resto della loro vita”. Ogni giorno, donne e uomini palestinesi perdono la vita per cosa? Per avere una casa”.
“Quindi, come artista, vedo l’obbligo di documentare l’ingiustizia contro il mio popolo e di mostrarla. Per me è chiaro che questo fa parte della conservazione della storia, è una prova. Ai palestinesi viene negata la loro casa e subiscono una continua oppressione”.
Disposto in una sequenza cinematografica nella luminosa sala della galleria, l’approccio artistico di Ahlam prevede la creazione di una serie di fotografie che raccontano una storia coesa e d’impatto sulle vite e i sacrifici degli individui palestinesi che hanno combattuto per la libertà della Palestina.
Attraverso la sua arte, Ahlam mira a far luce sulle realtà affrontate dai palestinesi e a offrire un palcoscenico per il riconoscimento dal punto di vista dei diretti interessati, piuttosto che attraverso la lente dei colonizzatori.
Fotografato tra il 2011 e il 2012, il lavoro di Ahlam sulla serie “Morte”, che comprende 68 immagini, è iniziato con una decisione chiara: affittare un appartamento nella vivace città di Nablus.
“Per il mio progetto, dovevo fotografare i martiri ma, naturalmente, sono passati e non sono più qui per essere fotografati, così ho fatto una ricerca e ho scoperto che il luogo in cui potevo affrontare visivamente la questione dei martiri era Nablus, perché era l’ultima città che continuava a resistere contro le Forze d’occupazione israeliane durante la Seconda Intifada”.
“Sono entrati e hanno distrutto completamente la città e quasi ogni famiglia palestinese ha perso uno dei suoi figli, uccisi dall’esercito israeliano. Migliaia di persone sono state uccise dagli israeliani”.
Ha notato come il viaggio della creazione sia spesso un’esperienza profondamente coinvolgente e che richiede tempo, anche prima del processo creativo vero e proprio. La serie fotografica sulla “Morte” ha richiesto una preparazione mentale essenziale e una ricerca approfondita sul concetto dei martiri.
Una violazione ricorrente in Palestina, osserva Ahlam, è la distruzione sistematica dei monumenti costruiti in onore dei martiri palestinesi. Questi monumenti, che fungono da toccanti simboli di resistenza e di ricordo, sono costantemente minacciati dalle autorità israeliane che cercano, in modo permanente e intenzionale, di cancellare la narrazione storica del popolo palestinese.
“Sono già passati 11 anni da quando ho completato questa serie e, guardandola oggi, ne capisco l’importanza”, ha osservato Ahlam. “Ho capito che è necessario che tutti insieme, come storici, artisti e architetti, costruiamo e scriviamo sulla nostra esistenza per preservare la nostra storia”, ha spiegato Ahlam.
In Brasile c’è un forte senso di solidarietà verso questo tema, perché la storia della nazione non è caratterizzata da ideali rosei. Al contrario, è segnata dall’eredità del colonialismo e dalla continua oppressione contro le comunità e le persone di colore e gli indigeni. Di conseguenza, quando gli spettatori brasiliani incontrano il lavoro artistico di Ahlam, spesso reagiscono in modo positivo ed empatico, riconoscendo i paralleli con le loro stesse lotte.
Nel frattempo, il pubblico occidentale è più abituato alla narrazione israeliana, ha osservato Ahlam. Pertanto, quando viene esposto al suo lavoro sulla Palestina, li spinge a mettere in discussione le loro nozioni preconcette e a esplorare prospettive alternative.
Ahlam ha dichiarato: “Ho ricevuto un feedback fantastico sull’installazione. Altri artisti e curatori sono venuti a dirmi che apprezzano il mio lavoro. È una risposta diversa da quella a cui sono abituata dal pubblico europeo. Non ho sentito in nessun momento il bisogno di dire o dimostrare che ciò che è esposto nelle mie immagini è la verità. Non c’è questo sospetto, come spesso accade in Occidente, in cui le persone sono scettiche sulla veridicità di ciò che espongo. È così rinfrescante qui”.
L’impegno della Biennale di San Paolo a diversificare le voci e le narrazioni nel mondo dell’arte porta alla luce il potere dell’arte di riflettere, sfidare e cambiare la società. Il lavoro di Ahlam è una testimonianza dell’importanza duratura dell’arte nel preservare la storia, offrire riconoscimento e contribuire ad una più profonda comprensione della lotta palestinese.
La sua serie fotografica “Morte”, che presenta dipinti, graffiti e manifesti dei martiri palestinesi – forme di rappresentazione create dalle famiglie, dagli amici e dalle associazioni dei difensori – attraverso la Biennale di San Paolo, è un potente promemoria del fatto che l’arte trascende i confini e le lingue, diventando un potente strumento per scrivere la storia e la resistenza.
(Fonte: MEMO).
(Foto: Anna Juni for Sao Paulo Biennial).
Traduzione per InfoPal di F.H.L.